Opéra Nancy. Silvia Paoli, regista di "Ifigenia in Tauride", a Fattitaliani: la coralità femminile in Gluck è toccante e commovente. L'intervista


A Nancy, dal prossimo 15 marzo fino al 21 marzo, l'Opéra national de Lorraine proporrà Ifigenia in Tauride di Gluck, tragedia lirica in quattro atti: per la regia è stata chiamata Silvia Paoli, che Fattitaliani ha intervistato. "Le prove vanno molto bene, dice. Abbiamo fatto antepiano, la prima prova con trucco, parrucco, luci, è stata una giornata intensa insomma. Dobbiamo aggiustare delle cose, ma abbiamo ancora questa settimana, dunque sono tranquilla".

Quale aspetto si sta rivelando più difficile nel mettere in scena quest'opera di Gluck?

L'opera non è facile, ha varie sfaccettature e vari punti di vista per cui scegliere una strada che non sia esattamente aderente al libretto non è semplice. Si tratta infatti del famosissimo mito di Ifigenia, c'è l'apparizione della dea che da statua diventa viva... insomma, una serie di elementi un po' particolari. Per scelta, ho cercato di avvicinare i temi importanti dell'opera al pubblico di oggi, dando importanza ad alcune cose e tralasciandone altre, Questo è quello che fa un regista: fa una scelta e la porta avanti. Ma qui è un po' delicato, perché l'opera è piena di nuance: ho cercato di fare un lavoro di recitazione importante con gli interpreti e ho avuto molta fortuna visto che ho trovato un cast incredibile, degli interpreti meravigliosi, un coro meraviglioso. Ero partita un po' preoccupata, invece ho avuto una risposta decisamente bella.
Quando ha accettato di fare la regia di Iphigénie en Tauride, Le è venuta subito in mente una chiave di lettura? La sta portando avanti fino in fondo o la sta modificando via via?
No. Sono stata subito felice di fare quest'opera meravigliosa, ma ho provato varie strade in fase di preparazione e progettazione: mi sono accorta che alcuni punti non tornavano, mi sono messa in discussione e alla fine sono arrivata a questa soluzione. Ho provato diverse strade: poi c'è stata una sorta di sintesi alla fine, perché non è che ho buttato tutto il lavoro, però è stato un processo, non un'illuminazione.


Le piace Ifigenia come personaggio?
Molto. È una donna forte, una donna che si trova in una situazione in cui si sono trovate e si trovano ahimè anche oggi tante donne, una condizione di cattività: lei è stata presa e portata dalla dea su una terra ostile, comandata da un re sanguinario secondo il libretto utilizzato da Gluck. Si trova costretta a uccidere le persone: quando poi incontra la coppia Pilade e Oreste e si trova davanti a questa umanità, comincia a tremare. È molto difficile per lei per la situazione di prigionia che vive, così com'è accaduto a tante persone costrette a fare delle cose contro la propria volontà. Insomma, è un personaggio profondamente umano. La coralità femminile in Gluck è toccante e commovente, quindi sì mi piace molto, amo il tema del ricordo che c'è fortissimo nell'opera, si parla del passato, di quello che non c'è più, della famiglia distrutta. Vi rientrano tante tematiche universali.
Al di là di un discorso di genere, secondo lei, un uomo avrebbe letto e realizzato in maniera diversa l'opera? Lei sta adottando un punto di vista "da donna"?
Sì, assolutamente. Ogni regista porta il proprio vissuto, quello che è. Io sono una donna e sono felice di essere una donna e mi piace parlare del femminile quando posso e qui avevo un'occasione incredibile dato che si parla di un gruppo di donne con il loro vissuto e passato, sotto un patriarcato. Di fatto sono sempre gli uomini che decidono: senz'altro il mio punto di vista sarà diverso da un altro regista uomo, ma anche da un'altra regista donna probabilmente. Io ho cercato di mettere in luce anche gli aspetti più fragili di questi personaggio...
Lei ha ammesso che quest'opera le piace molto. In qualità di regista, mentre bada all'allestimento e affinché ogni elemento s'incastri bene, come fa a godersi un'opera? Ci riesce?
È una bella domanda. In realtà, io mi godo l'opera il giorno della generale, perché per la prima sono molto stressata. Se tutto va bene, durante la generale riesco a "guardarmela" nel complesso. Chiaro che non riesco ad avere un occhio esterno, a non essere tecnica. Devo dire che durante le prove mi sono commossa più volte, perché davvero io ribadisco che ho un cast di prima categoria: sono artisti autonomi che elaborano un'indicazione che viene loro data. E questo arricchisce il lavoro e loro lo sentono proprio: è importante, perché - una volta passata la prima - lo spettacolo è degli interpreti, non è più "mio".

Ha parlato anche di una lettura moderna dell'opera. Le chiedo: c'è un limite oltre il quale non si può andare nella rilettura di un'opera stessa
?
Un'altra bella domanda. Qui parliamo di un ambiente fantastico, un mondo quasi acquitrinoso, un po' post-apocalittico per cui ho cercato di fare un discorso un po' distopico. L'ho ambientata in una sorta di edificio crollato, in cui c'è il ricordo di un appartamento, il sapore di una famiglia distrutta. Gli abiti sono moderni, anche se gli uomini indossano una sorta di divisa valida per tante epoche, cioè in giacca e cravatta, mentre per le donne mi sono ispirata al documentario di Netflix "Keep Sweet" su una setta religiosa attualmente operante negli Stati Uniti. Le donne sostanzialmente non hanno alcun diritto e gli uomini possono sposarsi con quante donne vogliono, avere rapporti sessuali anche con minorenni. Le donne, invece, sono obbligare a vestirsi tutte allo stesso modo -con una sorta di grembiulone, una specie di divisa di prigione-, a non leggere, a non danzare, a non uscire dalla comunità: mi ha colpito moltissimo anche l'estetica, si tratta di una sorta di mormoni fanatici. Non ho inserito cellulari o elementi di contemporaneità ma piuttosto ho voluto dare risalto a un'universalità perché era importante il concetto e non spingere sul contemporaneo. Non credo ce ne fosse bisogno in questa occasione.
A proposito di scenografia e costumi, leggo tutti nomi italiani: è la sua squadra? 
È la mia squadra, anche se con la scenografa Lisetta Buccellato è la prima volta che lavoriamo insieme, ma abbiamo un gusto estetico molto simile e poi c'è la voglia di ricercare sempre nuovi stimoli: un incontro ben riuscito, spero di poter fare altri lavori insieme. È importante ritrovarsi su alcuni elementi fondamentali come per esempio vivere la scena e lo spazio. Anche con Alessio Rosati, il costumista, abbiamo in comune il processo creativo, è una persona rigorosa, che lavora moltissimo sui materiali e non lascia nulla al caso: come squadra facciamo sempre un'enorme ricerca iconografica prima di cominciare un lavoro, c'è una grande meticolosità, i miei collaboratori sono grandi lavoratori.

Lei ha lavorato fra gli altri con Damiano Michieletto 
(intervista di Fattitaliani): che cosa gli ha "rubato"?
Con Damiano siamo grandi amici, abbiamo studiato insieme, io come attrice lui come regista: ho lavorato con lui per dieci anni sia come assistente sia come attrice. Abbiamo fatto insieme le prime opere quando non avevamo nemmeno i soldi per berci la birra; l'ho visto sbocciare e crescere. Da lui ho imparato il metodo di lavoro, il rispetto, mi ricordo sempre che quando qualcuno gli faceva un'osservazione negativa su un qualcosa, lui chiedeva un'alternativa, un'altra proposta migliore. E poi mi ha anche detto di pensare a fare il mio lavoro onestamente e con passione e non badare a cosa pensano gli altri. In questo lavoro è una grande lezione. Per lui ho una stima infinita. Giovanni Zambito.
Fattitaliani

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