FPAC Palermo, dal 14 marzo "Giš-gi-tug-ga" di Ignazio Mortellaro

Fattitaliani


testo di Antonio Grulli

Ho conosciuto Ignazio molti anni fa, proprio tramite Francesco Pantaleone. Sono andato a trovarlo nella casa in cui abitava: era sopra la Porta dei Greci, in Piazza della Kalsa. Mi ricordo molte scale, stanze su più livelli, una sorta di appartamento labirintico; a un certo punto siamo spuntati su un terrazzo meraviglioso che dava sul lungomare, da cui si poteva ammirare tutto l’arco della città di Palermo. È stata una delle prime volte in cui ho avuto una vera epifania dell’anima e della bellezza di quella parte di Sicilia e di Palermo, una città che mi si è svelata in maniera molto lenta nella sua essenza. Ignazio vive ancora in un edificio innestato su di una porta cittadina, oggi Porta Carini, sopra il mercato del Capo. Non può essere una coincidenza. Tutto nel lavoro di Mortellaro è simbolo, e la sua vita è materiale e parte integrante di ciò che presenta come opera d’arte. La porta è soglia, accesso, via d’uscita, linea ambiguamente in grado sia di separare sia di unire, e di renderci differenti nel momento in cui la superiamo.

E la città di Palermo riveste un ruolo fondamentale, quasi fosse uno studio allargato in cui lavorare e da cui attingere continuamente. Anche io e Ignazio ci stiamo ritrovando in questo luogo, in questa galleria, in quello che è forse l’incrocio più incrocio d’Italia, e quindi del mondo, i Quattro Canti. Palermo è una città da sempre snodo di energie e flussi – quasi fosse un chakra -, al centro della storia per la sua posizione, cartina di tornasole per capire quali sono i nervi scoperti del nostro presente. Quando penso a questa città, la prima immagine che appare nella mia mente è quella del Genio di Palermo, ovvero un uomo, probabilmente un Re, il cui petto viene morso da un grande serpente. Si tratta di un’immagine di cui si sa molto poco, ma in grado di agganciarsi alla memoria in maniera indissolubile. E la sua forza sta proprio nella sua indecifrabilità, nel suo mistero, nel suo essere un simbolo che nessuno riuscirà mai a sciogliere, mantenendo in tal modo al suo interno tutta l’energia.

Il serpente potrebbe essere l’animale guida dell’intera mostra, il nostro accompagnatore in un mondo in cui l’umano inizia a muovere i primi passi, ad abbozzare i primi rudimentali strumenti, in cui il linguaggio è ancora simile a un “latrato”, per usare una parola utilizzata da Ignazio quando mi ha raccontato la mostra ancora nella sua mente. Ci si muove nel mito: e il mito è sempre vivo o non è. Ciò che lo costituisce è proprio ciò che lo rende sempre presente. Mito non come storia, ma come linguaggio poetico e magico di relazione con il mondo, in cui gli elementi si fondono l’uno con l’altro, e in cui il processo metamorfico è continuo e insolubile. E le opere di Ignazio hanno il loro centro in questa relazione con la natura e con l’ambiente – umano e non – che ci circonda e facciamo nostro. Ma in questa mostra l’artista decide di compiere un movimento di focalizzazione, una “zoommata”, e di spostarsi da un piano legato al paesaggio e all’orizzonte, così importante nelle opere del passato, per avvicinarsi a guardare una realtà più prossima, più bassa e vicina per certi versi, più immediatamente raggiungibile da una mano. Soprattutto ci troviamo di fronte a immagini di elementi e oggetti presi dal mondo là fuori, che l’uomo riesce a far diventare strumenti o metafore di un senso poetico del cosmo.

In mostra appaiono incise su vetro le pietre bifacciali, una delle immagini che tutti conoscono e sono in grado di collegare ai primi vagiti dell’uomo; roccie scheggiate come primo inizio di costruzione del paesaggio, ovvero la modificazione della realtà attorno a noi. Usavamo un sasso per cacciare, per sollevare le zolle, per aiutarci nel momento in cui le nostre mani non erano abbastanza pesanti, o abbastanza resistenti, o abbastanza rigide; e poi qualcuno ha capito che spezzando il sasso e rendendolo più affilato potevamo uccidere meglio, andare più a fondo nel terreno, aggiungere il filo di qualcosa che già era un abbozzo di lama alle nostre mani. Ma assieme alle pietre abbiamo anche dei grandi dipinti di corallo bianco, materiale in grado di farsi metafora del cosmo, e che racchiude il cosmo al suo interno: essere vivente che diventa minerale e roccia nella sua crescita, in cui il respiro del mare prende vita al suo interno, e si fonde con la pratica pittorica dell’artista che lo dipinge attraverso un processo quasi meditativo legato alla respirazione, costruendo l’immagine a piccoli segni, esattamente nello stesso modo in cui cresce questo materiale simbolico per eccellenza anche nella sua fragilità esistenziale.

La materia riveste un ruolo cruciale nell’opera di Mortellaro, simile a quello che rivestiva nella ricerca alchemica di cui l’arte è sorella e figlia. Alchimia da intendersi come desiderio dell’uomo di elevazione, di raggiungimento di uno stato superiore, come tentativo di sublimazione della vita bassa. Alchimia come desiderio spirituale e armonico di rapporto con l’altro e con il mondo. E che sempre parte dalla materia. Non dovremmo mai dimenticare che i primi architetti erano semplicemente degli scalpellini, ovvero coloro che conoscevano il modo in cui la pietra poteva facilmente spezzarsi, o non spezzarsi, e sapevano quale fosse la magia che permetteva a molte pietre di restare ferme una sopra l’altra. Lo stesso studio di Ignazio è un laboratorio di materiali, una wunderkammer piena di strumenti antichi ma ancora insuperabili nella loro funzionalità, e deposito di meraviglie in grado di affabulare; lo sono stati tutti i suoi studi, già diventati leggendari, sparpagliati in giro per Palermo e non solo.

Simili al corallo sono le ossa e le corna, in quanto materia minerale appartenente al mondo animale e umano e che ritornano spesso come soggetto delle opere. Tutto il progetto vive di elementi portatori di ambiguità, di metafore anfibie. Nulla è univoco nelle opere che ci circondano. E le ossa e le corna funzionano proprio da collettori di mondi, in cui il gioco e il destino si uniscono alla morte e al sacrificio, come nell’antico gioco degli astragali, in cui vertebre di ovino vengono utilizzate in maniera simile ai dati, e di cui abbiamo in mostra una rappresentazione scultorea. In osso sono le prime forme di armi dell’umanità, ma dello stesso materiale sono anche i primi strumenti musicali. Ecco allora che la radice della caccia si rivela nel suo legame con la danza, in quel movimento armonico dei corpi in relazione al cosmo come sorgente della vita futura, sotto forma di cibo o sotto forma di seduzione erotica. Parliamo di un mondo e di una visione del cosmo in cui gli elementi stessi che la compongono vivono di una confusione fertile: l’uomo e l’animale cacciato sono la stessa cosa, e molti sono i riti in cui si sovrappongono i due elementi. Così come nelle comunità arcaiche il confine tra elemento maschile e elemento femminile era sfumato e talvolta inesistente.

Ambiguità propria soprattutto del serpente, incarnazione vivente del flusso energetico inafferrabile; chiunque si sia trovato inaspettatamente di fronte a un serpente in natura conosce l’impressione di disturbo e inquietudine generato da una autentica bellezza che si muove sorvolando la bassa terra e la polvere come pura onda di molecole e energia. Il serpente si attorciglia e unisce al suo simile nell’atto sessuale in un groviglio fatto di una doppiezza inestricabile che è propria di tutte le opere di questa mostra. Il serpente è anche uno dei principali attributi di Dioniso, il dio del flusso vitale, dell’ambiguità sessuale, della danza, della morte come momento necessario alla rinascita. Dal culto dionisiaco ha inizio la tragedia, così legata nella sua radice al sacrificio del “capro”, e torniamo di nuovo alle ossa, alle corna. Riti in cui le danze comprendevano l’utilizzo dei serpenti, cari a Dioniso, il dio della vegetazione e della linfa vegetale, delle foglie. In mostra abbiamo una cortina di foglie dorate, mescolate a denti di sciacallo. Un rimando agli indumenti e ai gonnellini di foglie utilizzati in antichità probabilmente sia durante la caccia sia durante la danza, in questo caso declinati in maniera ambientale, quasi fossero un manto da squarciare attraverso il quale addentrarsi nel mondo e nella verità. Foglie metalliche affilate e potenzialmente pericolose, in grado di farsi suono e strumento, cortina di onde musicali. Sono foglie dorate che hanno riportato alla mia mente la sfera di foglie che sormonta il palazzo della Secessione di Vienna, uno dei primi momenti di avanguardia, e uno dei primi momenti in cui l’arte torna a guardare con forza all’arcaico e al mito pre-storico.

Il concetto di avanguardia è fondamentale all’interno di questa visione dell’arte e delle cose. E non solo per la naturale filiazione del lavoro di Ignazio da movimenti quali le prime avanguardie di fine ottocento e inizio novecento come simbolismo e decadentismo – nell’utilizzo del mito, del simbolo, delle componenti misteriche e dell’affabulazione – e delle seconde avanguardie, ad esempio l’arte povera – nel guardare all’ambiente e nella centralità di materiali non necessariamente classici dell’arte. L’avanguardia deve essere vista come un movimento talmente veloce in avanti da riuscire a raggiungere la coda del passato che ci siamo lasciati dietro. Il movimento dell’avanguardia è quello dell’uroboro, dove solo la testa del presente volto in azione al futuro è in grado di toccare il punto estremo del passato. Perché tutto ciò che è tentativo di andare oltre, di mettersi in una condizione post-artistica, inevitabilmente finisce in una condizione di pre-artisticità. E il suo strumento è il dente che morde, afferra e ferisce: non è pacifica l’avanguardia, lo sottolineava lo stesso Baudelaire facendo notare come il termine fosse preso dal mondo militare.

Movimenti d’avanguardia – e guerre – di cui è protagonista assoluto il nostro Giuseppe Ungaretti. Un frammento di una sua poesia è stato inciso a mano da Ignazio su cinghie industriali ottocentesche di pelle spessa, ormai esauste, appoggiate sopra alte aste di metallo al centro dello spazio espositivo, quasi fossero dei cartigli rinascimentali. Il testo della poesia potrebbe già essere di per sé il testo guida della mostra. E’ una poesia su Caino – che in alcune tradizioni si ritiene come figlio del serpente del paradiso terrestre – non visto con distacco e giudizio come il primo assassino, ma come la rappresentazione di una condizione presente in ognuno di noi, in ogni uomo. Il nastro di pelle e le cinghie richiamano la costrizione, l’imbrigliamento dell’energia per indirizzarla e sublimarla in qualcosa di superiore. Il font utilizzato è il famoso Fraktur, la frattura, nato in Germania nel 1513: forse solo un paese che di lì a poco avrebbe dato vita alla scissione protestante poteva inventare un font che ricorda dei rami verdi rotti, o forse dovremmo dire delle ossa spezzate, come se i tipografi tedeschi avessero preso le aste dei caratteri romani per spezzarle traendole con due mani e puntando il ginocchio sulla loro metà.


Corre sopra le sabbie favolose

e il suo piede è leggero.

O pastore di lupi,

hai i denti della luce breve

che punge i nostri giorni.

Terrori, slanci,

rantolo di foreste, quella mano

che spezza come nulla vecchie querci,

sei fatto a immagine del cuore.

E quando è l’ora molto buia,

il corpo allegro

sei tu fra gli alberi incantati?

E mentre scoppio di brama,

cambia il tempo, t’aggiri ombroso,

col mio passo mi fuggi.

Come una fonte nell’ombra, dormire!

Quando la mattina è ancora segreta,

saresti accolta, anima,

da un’onda riposata.

Anima, non saprò mai calmarti?

Mai non vedrò nella notte del sangue?

Figlia indiscreta della noia,

memoria, memoria incessante,

le nuvole della tua polvere,

non c’è vento che se le porti via?

Gli occhi mi tornerebbero innocenti,

vedrei la primavera eterna

e, finalmente nuova,

o memoria, saresti onesta.

Fattitaliani

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