Opera Parigi, il baritono Mattia Olivieri a Fattitaliani: la voce è lo strumento più emotivo. L'intervista

Fattitaliani

 



All'Opéra Bastille di Parigi fino al 10 marzo è in programma "Lucia di Lammermoor" di Donizetti. Una messa in scena chiara e contemporaneamente contrastiva alla storia della protagonista. Un ambiente militare, infatti, dove vige la norma, la disciplina, il rispetto delle regole fa da sfondo all'inquieto spirito di Lucia, alle sue allucinazioni, alla sua follia. Il lavoro del regista Andrei Șerban, del direttore d'orchestra Aziz Shokhakimov e del soprano Brenda Rae ha permesso di far arrivare allo spettatore la visione e il significato dell'opera di Donizetti. Il soprano americano è stata eccellente, ha restituito ogni piccola sfumatura e cambiamento del personaggio, dando forma e sostanza ai sentimenti dell'eroina sfortunata che reagisce al matrimonio imposto dal fratello Enrico con la violenza dettata dalla delusione e dalla costrizione. Fattitaliani ha incontrato e intervistato il baritono italiano Mattia Olivieri, accolto anche lui da tanti applausi alla prima parigina. 
Con Lucia di Lammermoor hai debuttato all'Opera di Parigi: più l'emozione o il timore alla vigilia della prima?
No, timore no perché è un ruolo che sento proprio comodo: senz'altro un po' di emozione e chiaramente un po' di tensione essendo la prima volta che canto qui e con un pubblico nuovo. Ho cantato in Francia solo tanti anni fa a Nizza due volte per Così fan tutte e Il barbiere di Siviglia nel ruolo di Figaro. Quindi direi in questo caso molto di più l'emozione, perché questo è un teatro veramente importante.
E adesso, dopo la bella accoglienza, che provi?
È stato veramente bello, è sempre una bella cosa quello che il pubblico ti lascia alla fine. Davvero emozionante per me.

Hai detto di Enrico che è un ruolo comodo per te. Però interpreti un personaggio infame direi...

Già, il cattivo della situazione che vuole costringere Lucia a un matrimonio di convenienza. Lei poverina vive in un mondo all'insegna del machismo, della mascolinità, è accerchiata dal potere dell'uomo che tenta di costringerla in una direzione ben precisa. D'altra parte, se questo matrimonio non avviene, significa un disastro per la nostra famiglia perché siamo caduti in disgrazia.
Al di là della storia in sé, c'è qualcosa che ti accomuna al carattere di Enrico?
Direi di no. Se io mi dovessi trovare in una situazione del genere al giorno d'oggi, non credo che cercherei di "vendere" mia sorella per salvare la mia famiglia. Sicuramente cercherei di darmi da fare io, ma è un'epoca completamente differente, quindi è un po' difficile paragonarsi a lui. Però generalmente mi sento una persona buona d'animo di fondo e chi mi conosce può confermare che sono una persona solare, sorrido sempre. Ammetto che mi piace molto personificare un personaggio completamente differente e lontano dal mio tipo di personalità, lo trovo più interessante.
Perché? c'è meno coinvolgimento?
No, un cantante lirico deve essere un artista a tutto tondo: dobbiamo recitare e far credere in un personaggio dando il massimo nella creazione di un carattere. Per quanto mi riguarda, è più semplice interpretare un carattere che rispecchia più la mia personalità, come Marcello ne La Bohème. Marcello è una colonna cui tutti gli amici si appoggiano e chiedono aiuto: quello è un ruolo in cui mi posso immedesimare di più. Enrico, no. Però, d'altra parte, è più interessante fare questo tipo di ruolo del tutto distanti dalla mia personalità: sulla scena almeno puoi personificare qualcosa che tu non sei. Tanti vecchi cantanti con cui da giovanissimo ho fatto masterclass, dicevano che le persone buone generalmente sono i migliori cattivi sulla scena. 

Enrico in questa versione scenica è un militare. La tua postura e i tuoi movimenti sulla scena risaltano questa dimensione da soldato ma anche di una persona rigida e inflessibile. Quanto ci avete lavorato su con il regista?

Ci si lavora parecchio dietro. Il regista chiede a noi cantanti che dovremmo essere un foglio bianco quando ci proponiamo in una nuova regia perché chiaramente loro devono disegnare quello che vogliono del personaggio. C'erano dei pochissimi momenti in cui il regista mi aveva chiesto di avere una certa fragilità: durante il duetto con Lucia, quando lei gli ruba la pistola e se la punta alla tempia: io non sapevo cosa fare perché se lei si uccide, io comunque sono rovinato finché non si sposa. Nel finale, quando il tenore si suicida, io non provo nulla perché intanto oramai la mia famiglia era salva dal punto di vista economico. Quindi, il regista mi ha chiesto espressamente di cambiare anche il ritmo nel passo. 

La rigidità delle ferree regole militari sono anche tipiche del mondo della lirica?

Nello studio la disciplina è una questione fondamentale, anche sul lavoro. Mi sento fortunato nel poter fare questo tipo di lavoro, perché non è dovuto. Io ho studiato come un matto, tuttora studio tanto nel preparare i ruoli, non essere mai contento sul suono, su un fraseggio... anche se in ogni replica, per l'emozione viene fuori sempre qualcosa di diverso, a sé, non siamo un "cd".

Che rapporto intrattieni con la tua voce come strumento?
Non so: è un po' come mettersi a nudo, forse è molto di più di uno strumento tangibile che puoi vedere e toccare. La tecnica del canto è molto particolare: quando inizi a studiare canto, parli per immagini. Perché non vediamo le nostre corde vocali, non le possiamo toccare. Quindi, io trovo che la voce sia forse lo strumento più emotivo perché -ripeto- ogni volta a seconda delle tue emozioni può uscire una recita completamente differente e a seconda dell'opera l'impatto emotivo è diverso. Io tendo ad essere molto emotivo in scena, mi emoziono: con questo tipo di personaggi è un po' diverso, c'è un rigore differente: l'emozione era magari durante la scena della pazzia di Lucia, dove mi sento veramente un verme, perché ho creato io tutto questo problema. Questo forse è l'unico momento di cedimento, anche perché il testo lo fa capire bene.

All'inizio dell'opera Enrico è in "preda al furore" per la sua condizione economica. Come fare a contenere certe emozioni positive o negative? Riesci a scrollarti di dosso ogni volta che entri in scena una situazione complicata personale per esempio o anche un momento positivissimo che possa inficiare in qualche maniera la tua performance?
Noi dobbiamo cercare di isolarci, lasciare fuori quello che è la nostra vita privata. Quando entro in teatro, cerco di non pensare a quello che succede all'esterno: tutti abbiamo i nostri problemi. Quest'anno sono ormai quindici anni che ho iniziato questo mestiere, avendo cominciato da ragazzo con piccoli ruoli. Ho avuto anche il modo di dividere il palcoscenico con colleghi che hanno avuto una perdita molto grave: in scena hanno dato tutto quello che avevano forse per una forma di saluto. Noi doniamo la nostra vita al teatro e al canto: questo mestiere è tanto bello quanto complicato, perché se si parla di vita familiare, beh la nostra è molto sacrificata. Se uno ha una bella carriera, la famiglia non la si vede mai. Chi ha dei figli, magari si perde le prime fasi importanti della loro vita. Noi non abbiamo una vera e propria quotidianità: un giorno sei qui, un altro a New York. Devi essere veramente innamorato di questo mestiere.
Ci pensi al fatto che comunque questo tipo di lavoro è un mestiere di lusso e precario allo stesso tempo?
Molto precario. Lo abbiamo visto durante la pandemia. In Italia, penso che siamo stati l'ultima categoria ad essere pensati dal governo Conte. Purtroppo, essendo liberi professionisti, se succedono queste cose o ti ammali non vieni pagato. Devi proprio donare te stesso: dietro ci sono tanti sacrifici.

Allora su quale elemento bisogna insistere e appoggiarsi anche quando la stella sembra brillare meno?

Io sono una persona positiva, e le cose accadono per una ragione. Se mi lascio prendere dall'ansia non risolvo nulla, l'ho imparato negli anni col canto: da ragazzo, prima di una performance ero molto più ansioso. Non che adesso non lo sia. Adesso penso che se io mi agito, posso solo fare peggio. Un minimo di agitazione c'è ma mi dico "respira", "concentrati"...
Qualcuno ti ha mai detto che sei troppo bello per fare l'opera?
Da ragazzo ho dovuto combattere tanto con questa cosa: è stato un problema, soprattutto con le gelosie. A volte dicevano "quello canta perché è bello", invece studiavo come un matto. Io credo che questo sia un mestiere ancora meritocratico: se tu dimostri che puoi stare sul palco, chi può dirti qualcosa? Ci soffrivo, l'unica cosa che ho fatto è cercare di ignorare queste chiacchiere che ho smentito facendomi trovare sempre preparato e puntuale, meritando quello che ho. Il mio maestro e i pianisti con cui preparo i ruoli vedono quanto sono puntiglioso e quanto io prima di tutti sono molto esigente con me stesso. Non mi va bene mai niente. Giovanni Zambito.
Foto di scena: Émilie Brouchon

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