La scrittrice Katia Tenti e il romanzo "Resta quel che resta", la storia di una terra di confine. L'intervista

Fattitaliani


di Laura Gorini

Decidere e scegliere implica coraggio. Il coraggio implica la capacità di accettare e gestire rischi e conseguenze dei potenziali errori.

Parla di amore per la patria Resta quel che resta, il nuovo romanzo di Katia Tenti che è anche un sentito omaggio alla sua terra dove è nata e cresciuta. Un testo particolare e per nulla scontato, definibile- a buona ragione-come il racconto, dettagliato e doloroso, di una saga familiare a sfondo storico che non vi lascerà- di certo- indifferenti. L'autrice tra passato e presente si è raccontata a noi di Fattitaliani.it.

Katia, quale è stata la genesi del tuo romanzo?

Resta quel che resta nasce dal desiderio di raccontare la storia di una terra di confine, l’Alto Adige o Sudtirolo: terra dove sono nata e cresciuta da immigrata di seconda generazione. I miei genitori sono originari di altre regioni “italiane” e durante il Ventennio scappavano dalla guerra e dalla fame invogliati dal regime a contribuire all’italianizzazione di un territorio che prima apparteneva all’Austria. Invogliati dalla propaganda e dal bisogno, lasciavano le campagne per trasformarsi in operai. Mal visti da chi c’era prima, sono stati da sempre tacciati, loro malgrado, di essere “invasori”. È una storia che pochi conoscono dal punto di vista italiano e che andava raccontata, credo.

La stesura è stata molto difficoltosa? O piuttosto fluida?

Progettare una saga famigliare a sfondo storico non è semplice. Ma credo che in generale nessun libro lo sia, ammesso che si voglia costruire davvero una storia ben fatta e non solo gettare parole a caso sulla carta. La difficoltà maggiore è stata quella di intrecciare fatti realmente accaduti a fatti completamente inventati, nel rispetto di tutti.

Quando scrivi lo fai di getto?

Di getto non riesco a scrivere neppure la lista della spesa, lo ammetto: devo pensare a cosa mi occorre veramente. Non so se sia un limite: a volte vengo criticata per un eccesso di progettazione editoriale. Ma io penso che il vero lavoro dello scrittore sia proprio quello propedeutico, come costruire una casa: devi sapere se vuoi un appartamento in città o una villetta in campagna. Chi andrà ad abitarla? Che sensazioni dovrà provare? Ecco: questo e molto altro fa parte della mia progettazione.

Nella vita in generale ti consideri una persona di pancia o più riflessiva?

Direi di pancia, ma giusto il primo momento. Poi ho imparato che è sempre meglio riflettere.

Per quale motivo- secondo te- molte persone hanno paura di prendere delle decisioni e di fare una scelta?

Decidere e scegliere implica coraggio. Il coraggio implica la capacità di accettare e gestire rischi e conseguenze dei potenziali errori. Tutte cose non certo semplici, soprattutto in una società così giudicante.

Eppure tutta la nostra esistenza, anche a livello inconscio, si basa su questo. Forse non vogliamo dare peso al nostro io profondo?

In un mondo dominato dal rumore di fondo dei Social e dalla confusione che questo genera, è molto difficile trovare spazio per ascoltare se stessi nel profondo. Facci caso: tutti parlano, pochi o quasi nessuno ascolta.

È un modo alternativo di non badare a se stessi, in fondo. Come dicevo prima, le scelte implicano il coraggio di sbagliare.


L'amore per la famiglia, per le proprie origini e per la patria, va ricercato anche lì?

Certo che sì. Quando penso alle scelte che sono stati costretti a fare i miei nonni, lasciando tutto: casa, affetti, la propria terra, per trasferirsi in un posto che di fatto non li voleva davvero, a fare cose che non appartenevano loro  e io non posso che ammirare il loro coraggio. Ma allora non c’era scelta.  E anche l’amore non era un tema su cui interrogarsi. Si faceva ciò che andava fatto. Oggi, nelle società democratiche come la nostra, possiamo decidere chi essere, dove essere, di che territorio e di quale cultura sentirci parte. È un valore immenso, ma si sa che l’uomo che ha tante possibilità, paradossalmente rischia la paralisi.

Come si può avvicinare i giovani a questo sentimento per il loro Paese?

I giovani si sentono molto più vicini alla loro terra di quanto noi adulti non immaginiamo. Il problema è che non sempre il loro Paese è capace di accoglierli davvero e farli sentire “a casa”. “L’Italia non è un posto per i giovani” non è uno slogan che ho inventato io. E non è neppure uno slogan: te lo dico da madre di due figli in età universitaria.

E tu come la vedi la nostra Italia oggi? Che messaggio vorresti darle? O che augurio?

L’Italia è un Paese straordinario quanto masochista, passami il termine. Ho girato molto il mondo e vorrei che anche noi fossimo capaci di valorizzare il nostro patrimonio culturale come fanno altri Paesi persino meno belli del nostro. Ma l’augurio è che tutti noi possiamo renderci conto della bellezza e della fortuna che abbiamo a vivere qui.

 

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