Opera, il pianista Alfredo Abbati ne "La dama di picche" alla Monnaie di Bruxelles. L'intervista di Fattitaliani

Fattitaliani

 


Da domenica 11 settembre fino al 29 settembre appuntamento alla Monnaie di Bruxelles con "La dama di picche" regia di David Marton: con l'orchestra diretta dal M° Nathalie Stutzmann, l'opera di Tchaikovsky apre la stagione lirica di Bruxelles. In scena ci sarà il pianista italo-brasiliano Alfredo Abbati (foto di Hugo Segers), che intervistato da Fattitaliani -alternando italiano portoghese e francese- ci spiega il suo rapporto con la musica e il pianoforte, la sua formazione e le esperienze che più lo hanno forgiato.

Maestro, in che maniera accompagnerà la rappresentazione dell'opera?

Di solito io sono "Chef de chant": preparo i cantanti per i ruoli, faccio le prove di scena e coi direttori d'orchestra, vedo se il suono arriva bene. Questa volta sono pianista in scena ed è la prima volta come attore, interpreto un personaggio. È divertente perché devo rimanere sempre in contatto con gli altri, suonare a memoria: una sorta di sfida per me.


Qual è il suo personale rapporto con La Monnaie?

Sono venuto alla Monnaie la prima volta nel 2014 per poi partecipare a tre-quattro produzioni all'anno. Non sono quindi una presenza fissa ma vengo considerato "di casa". È uno dei posti dove amo lavorare: le persone sono davvero simpatiche, mi sento a mio agio, c'è una bella squadra, tutto funziona bene, il livello delle produzioni è sempre di ottima qualità.

Parliamo un po' di Lei: se guarda al suo percorso, quali ritiene essere state le tappe fondamentali che L'hanno portata fino a qui?
Ci sono in effetti delle esperienze che più di altre mi hanno forgiato. Ho cominciato gli studi in Brasile e il mio primo approccio con l'opera è stato casuale perché in un teatro di San Paolo avevano bisogno di un pianista per le prove di Carmen: sono andato alle prove, hanno apprezzato il mio lavoro e mi hanno chiesto di continuare a lavorare nelle loro produzioni. In seguito, in un concorso di canto, fra i giurati c'era Vincenzo De Vivo, assistente del direttore dell'Opera di Valencia, che mi ha invitato a far parte dell'Accademia "Placido Domingo": mi sono trasferito a Valencia per tre anni e mezzo; dopo l'Accademia con Alberto Zedda e altri professori, ho cominciato a conoscere la scena europea, come funzionano i teatri in Europa. Dopo ho iniziato a lavorare da free-lance a Valencia, a Maiorca e molti teatri. Sentivo che avevo ancora da imparare come pianista d'opera: ho conosciuto la professoressa del Conservatorio Nazionale di Parigi, Eva Guiomar, sono stato accettato per un master e quindi sono andato a Parigi dove vivo oramai da dieci anni. Dopo due anni di Conservatorio, ho fatto un anno all'Accademia dell'Opera di Parigi lavorando poi in teatri europei, fra cui La Monnaie.


Lei ha vissuto e viaggiato in tanti posti: ci sono dei "souvenir" sentimentali dei differenti Paesi dove ha lavorato? 
Certamente. A 23 anni, appena uscito dall'Accademia "Placido Domingo" di Valencia ho firmato un contratto per "Salomè" di Strauss diretto dal M° Zubin Mehta con un cast eccezionale: un sogno. Oppure una produzione di "Aida" a Maiorca: dopo le prove, rientrato a Parigi, ricevo una telefonata dal teatro che mi comunica che l'Orchestra avrebbe fatto sciopero e che io sarei dovuto rientrare per fare lo spettacolo. Quindi ho accompagnato due rappresentazioni di Aida col piano, da solo, al posto dell'orchestra, con i cantanti. Ricordo anche un viaggio per il Festival estivo di Salisburgo con il progetto "Young Singers": abbiamo realizzato dei recital in Cina, un'esperienza incredibile sia per la cultura differente che ho conosciuto sia per la reazione del pubblico. Tutte belle esperienze.


Che relazione ha con il pianoforte? 
Con il pianoforte credo di vivere una relazione sentimentale e come in tutte le storie d'amore ci sono dei momenti in cui va tutto benissimo e altri in cui va meno bene (ride, ndr). Ci sono dentro tutte le emozioni: a volte sono un po' nervoso e suono in modo più deciso e meno carezzevole. Talvolta, lo tocco e cerco di essere -diciamo- un po' più sensuale: è come nella vita insomma. Ci sono tutti i sentimenti che si mescolano e che influenzano l'esecuzione di un brano che posso suonare in maniere differenti a seconda del giorno e di quello che provo. Non c'è una parola univoca che io posso attribuire al mio strumento.
Quando ha avuto in sé la piena consapevolezza che suonarlo sarebbe stata la sua professione?
Ho cominciato a sei anni, ma a dieci anni nella mia testa sapevo benissimo che volevo fare il pianista nella vita: è quello che so fare, per me non c'è altra cosa che abbia più valore e senso.


La sua attività di vocal coach che visione Le dà sui giovani artisti e le loro speranze di riuscire?

Mi considero ancora giovane, ho 36 anni quindi mi risulta un po' difficile rispondere a questa domanda. Penso di essere ancora all'inizio della carriera. Personalmente penso che il talento sia certamente importante, che va benissimo per il debutto in quanto ci si fa notare, ma l'80% del successo dipende a mio avviso dal lavoro, dalla continua ricerca, andando ai concerti, ascoltando dischi, per avere insomma una cultura musicale e artistica in senso lato. Essenziale anche essere sempre all'ascolto degli altri, dei colleghi, dei professori, di quello che ti dicono e benché a volte non si sia d'accordo, è giusto ascoltare e decidere poi cosa si vuole fare oppure no, facendo le proprie scelte: in questo modo si costruisce la propria identità artistica. Giovanni Chiaramonte.
Foto di scena La Monnaie: Bernd Uhlig.



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