Racconto di Lucia Russo.
Si erano fatte le 11.00. Partiti quattro ore prima da
Mascalucia, comune sulle pendici dell’Etna dove vivevano, in provincia di
Catania, avevano viaggiato fino all’agrigentino, dallo Ionio al Mediterraneo.
Dopo la panoramica, Mimmo e Grazia fermarono l’auto in uno
slargo invaso da una distesa viola di arbusti selvatici e margherite gialle, a
strapiombo su una natura mozzafiato. Una lingua di spiaggia chiudeva a ovest
sulla scogliera della Scala dei Turchi di Realmonte, elevata a gradoni in un
candore che il blu intenso del cielo esaltava, accecando.
Tirava vento e l’aria era mite. Grazia starnutì per un po’
d’allergia primaverile. Era il ventiquattro aprile, vigilia della Festa della
Liberazione d’Italia, ed era anche il 24° anniversario delle loro nozze, in debole
corsa verso quelle d’argento.
La Scala dei Turchi, come meta, l’aveva scelta lei, mentre l’idea
del week-end era nata da Mimmo. Evento insolito dopo tanti anni di svaghi e
vacanze separate. E ora? Perché? Grazia, stupita, se lo era chiesto, pur senza
capire né indagare oltre. Anche Mimmo,
del resto, aveva evitato di riflettere sui motivi della scelta di quel luogo.
Gracile, sul metro e cinquantacinque, lei sembrava più
giovane dei suoi cinquant’anni, pur nel viso scavato tra tratti regolari e dolci,
occhi chiari cangianti, indecifrabili, mai svelati a Mimmo in un rossore di
lacrime.
La loro pensione era sulla sinistra, in fondo a un
viottolo. Vicinissima alla Scala, e a un passo dalla spiaggia.
Il proprietario, Mario, andò loro incontro e li fece
sistemare in camera. Si offrì di portarli in barca al tramonto, per ammirare
meglio la costa e narrargli una leggenda mai dimenticata, sempre uguale da
secoli, a differenza dello stato del territorio.
- Cinquant’anni fa, - disse - i miei genitori mi portavano
qui in vacanza da Palermo, in treno. Si fermava lì in fondo a est - indicò
alzando il braccio, - prima di Punta Grande, verso Porto Empedocle, sul lato
opposto alla Scala dei Turchi. Le rotaie toccavano l’acqua, si arrestavano lì.
Arrotolati i calzoni, valigie alla mano percorrevamo la spiaggia per
raggiungere questa casa, oggi una pensione. Era faticoso, ma bellissimo!
Mario avviò la barca e, appena al largo, vestì i panni di
Cicerone.
- Eccovi a “Rocca Gucciarda”, detta “U’ Scogliu di u
Zitu e a Zita”. Celebra l’amore passionale e tragico di Rosalia, figlia
diciottenne di un ricco signore di Muntiriali (Montagnareale), e Peppe, giovane
di umili origini. I due innamorati, osteggiati dal padre di lei, piuttosto che
separarsi si lasciarono morire in mare, di notte, tenendosi per mano. Secondo
la leggenda, nel punto esatto dove i due annegarono, alcuni anni dopo
affiorarono due scogli legati da una lingua di roccia, e, nelle notti di luna
piena col mare in bonaccia, risuona ancora il canto di Rosalia sul suo
sfortunato amore.
Mimmo conosceva già i colori di quelle notti. Alcuni anni
prima aveva alloggiato a Marinella, con Carla, sua amante per dieci anni,
mentre la moglie lo sapeva ad Agrigento per un corso sulle tecniche di
bendaggio funzionale, per fisioterapisti come lui. Ora non vedeva più Carla da
sei mesi. Si era stancato. Quel luogo, Carla, erano bei ricordi e niente più.
- E che mi dice della Scala dei Turchi? – chiese Mimmo a
Mario con un sorriso beffardo sulle labbra.
- Lì sbarcavano i Saraceni all’assalto di Montereale,
finché non furono sconfitti. In dialetto siciliano dicevamo “Turchi” i popoli
provenienti dal Nord Africa e di religione islamica. Troverà questa storia su
tutti i libri! Ora c’è poca gente, siete fortunati. Tra un po' arriveranno
pullman e pullman carichi di turisti! Negli ultimi anni, la fama di questi
luoghi, ispirazione di Andrea Camilleri nel suo Commissario Montalbano – anche
se trasposti televisivamente in Provincia di Ragusa -, ha fatto crescere a
dismisura il turismo. È però saltato fuori un proprietario della scogliera, il
quale adesso ne rivendica l’uso e i diritti. Vedremo come andrà a finire! Tra
lui e l’amministrazione pubblica, forse una lotta, forse un inciucio. Chissà
quale futuro ci sarà per la Scala dei Turchi!
L’indomani, 25 aprile, il sole si alzava su un cielo terso.
Quando Mimmo ancora dormiva (aveva detto almeno fino alle 11.00), Grazia già si
avviava al mare. Sulla battigia, indossò gli auricolari e sintonizzò la radio
su una stazione di musica. Una vecchia canzone di RAF, “Cosa resterà degli
anni ’80?”, a lei ben nota, la investì. Le percussioni ritmavano i suoi passi
sulla sabbia.
“Anni come giorni son volati via / Brevi fotogrammi o
treni in galleria /È un effetto serra che scioglie la felicità / Delle nostre
voglie e dei nostri jeans cosa resterà? /Cosa resterà di questi Anni Ottanta /
Afferrati già, scivolati via / Cosa resterà / ...e la radio canta!”
Già! cosa mai era rimasto - si chiese Grazia - di quegli
anni Ottanta in cui aveva incontrato e cominciato ad amare Mimmo? Parole che
sembravano scritte per loro due.
Ora camminava sulla roccia a fior d’acqua con un incedere
più vigile.
“Di questi anni maledetti dentro gli occhi tuoi / Anni
bucati e distratti, noi vittime di noi / Ora però ci costa il non amarsi più /
È un dolore nascosto giù nell'anima…”
Raggiunta la falena di marna bianca detta Scala dei Turchi,
Grazia ne risalì alcuni gradoni!
“E la radio canta, una verità dentro una bugia / …. Noi
siamo sempre più soli singole metà / … cosa resterà? / … Chi la stamperà, la
fotografia?”
Strofe che le bruciavano dentro come brace ormai bianca e
polverizzata, in combustione sotto le pietre di un bivacco dismesso. Quanta assenza,
povertà di follia, si disse. E lei? Rimasta a fingere di non sapere, non osando
per la precarietà del suo lavoro a tempo determinato! Una letargia sentimentale
muta e sorda a sé stessa. Anche con Roberto. L’altro. L’aveva amata clandestinamente
e l’avrebbe voluta solo per sé, almeno lì alla Scala dei Turchi. La leucemia se
l’era portato via fulminea, mentre lei, Grazia, lo aveva ricambiato a spiccioli
e stenti. Solo un conto da saldare coi tradimenti subiti. Un senso di colpa che
adesso la intristiva forse più del disamore di Mimmo. Come criticare Mimmo,
quindi?
Scese dai gradoni per raggiungere la spiaggia di lido
Rossello. Si stese in un punto dove la spiaggia si assottiglia e incontra uno
scoglio isolato che affiora dall’acqua. Pochi minuti dopo, vide arrivare un
uomo su una vecchissima bicicletta rossa, carica di due cassette di legno
consunto e di ruggine stratificata. La posteggiò a circa due metri dal mare,
accanto lo scoglio, quindi cominciò una lenta e ordinata svestizione posando per
bene la camicia sul sellino e i pantaloni sullo sterzo della bici. Indosso,
tenne i calzini a righine bianche e blu come quelli di un clown, e dei boxer
neri, alti, dal largo elastico bianco in vita con una scritta roboante: GIORGIO
ARMANI.
A testa china, sotto una folta chioma corvina a pensilina
sugli occhi, l’uomo rovistava tra conchiglie e detriti portati dal mare. Raccolse
legnetti e canne sulla battigia, e scomparve dietro lo scoglio. Poco dopo, un
nugolo di fumo si alzava dalla roccia sprigionando odore di pesce arrostito.
Infilzato in uno spiedino, l’uomo lo consumava in piedi guardando il mare, in
quell’angolo di spiaggia che occupava come se gli appartenesse. Grazia lo
osservava al riparo di un paio di occhiali da sole scuri.
- Bella signora ha per caso una sigaretta?
- No, mi spiace.
- Posso presentarmi? Salvatore! Professione giramondo!
- Mi chiamo Grazia! E lo ha girato in bici, il mondo?
- No, in aereo, in treno, e ho raggiunto a piedi l’India,
impiegando un anno.
- E perché ha deciso di girare il mondo?
- A diciotto anni ho incontrato il mio grande amore, lei ne
aveva sedici. Qui, in questo punto, ci
siamo amati in una notte d’inverno. Poi suo padre ci ha allontanati. Disperato,
ho preso l’auto e, dalla panoramica sono volato sul mare, per uccidermi.
L’ultimo istante sono saltato fuori dall’abitacolo, salvandomi, anche se ho
fatto credere d’essere morto, e allora sono andato lontano più che ho potuto!
- La sua storia - azzardò Grazia cercando di trovare un
tono di voce delicato - per certi versi mi ricorda la leggenda di qui, di u
Zitu e a Zita, e per altri la storia di un famoso vecchietto con la bici,
delle mie parti. Anche lui ebbe un amore
infelice che non dimenticò mai, e anche lui viveva in bici, un po’ come lei.
- No! Questa è solo la mia, di storia! Ed è vera! Ma anche
la tua mi piace… Sai, bella signora, dopo, ho avuto tante altre donne. Trecento!
Con ognuna ho sperato fosse l’ultima, e invece no!
- Le lasciava lei?
- Mi facevo lasciare.
- Ah! Interessante!
Intanto, alcuni adolescenti si rincorrevano sulla spiaggia
lanciandosi gavettoni tra i bagnanti distesi al sole.
- Lasciate in pace i turisti, e non sporcate la spiaggia! –
Gli gridò contro Salvatore visibilmente arrabbiato e improvvisamente agitato. -
Qui è casa di tutti, ma soprattutto è casa mia!
- Sua? Osservò Grazia – incurante dell’aspetto minaccioso
dell’uomo giramondo.
- Sì. Non posso fare a meno di tornare in quest’angolo, e
perciò è casa mia! Qui è rimasta qualcosa di speciale nascosta tra i ciottoli,
libera di andare e tornare come fanno solo i ricordi e come fa solo l’acqua del
mare.
- Qualcosa libera di andare e tornare! Lei si esprime con
splendide immagini! - Disse Grazia, quando inaspettatamente si sentì chiamare
da Mimmo, che vide avanzare verso di lei.
- Ti ho trovata! Mi sono alzato prima di quando volessi!
Andiamo alla Scala?
- Ah! Non contavo che mi avresti raggiunta! Prima ti
presento Salvatore… e poi ti racconterò di lui!
- Buongiorno Salvatore! - Poi, rivolto a Grazia: - Vorrei
fare lì delle belle fotografie panoramiche di noi due insieme, ma non i soliti
selfie! Non ne facciamo da tanto. Ma chi ce le farà?
- Sì, ci vuole giusto
una nuova foto. Abbiamo qui Salvatore che è poeta di immagini! Scatterà lui la nostra
fotografia!