di Nicola F. Pomponio - Stefano Prolli, l’autore di questo romanzo, è un giovane regista romano alla sua prima, riuscita fatica narrativa. Questo scritto è infatti ricchissimo di riferimenti alla tradizione culturale che vede nell’incontro con se stessi il momento di una rinascita spirituale liberatrice da un’esistenza prigioniera di abitudini ottundenti le proprie risorse interiori. La trama diventa occasione per descrivere il percorso introspettivo che il protagonista compie alla ricerca del suo più profondo Io.
Ercole, giovane ragazzo diventato muto da bambino per uno strano incidente, abbandona la famiglia per ricercare la propria voce. In questo viaggio si susseguono gli incontri e le esperienze più strane, il cui simbolismo è talvolta trasparente e in altri casi si manifesta nel corso della narrazione. In questi diversi momenti riecheggiano topos letterari, soprattutto romantici, e religiosi che affondano le radici, con tratti alchemici, nella mistica orientale e occidentale.
La voce, evidente metafora del proprio Io, è ricercata attraverso una sorta di “itinerarium mentis in deum”, e aggiungeremmo anche “in hominem”. Il percorso, al contempo simbolico e metaforico, è arricchito di riferimenti, talvolta con coloriture new age, a un Buddismo tibetano che in molti casi, eccezion fatta per il riferimento alle cosiddette arti marziali, sembra prossimo al Cristianesimo benedettino, svuotato della sua componente comunitaria, ma fedele al motto: “ora et labora”.
E’ però una religiosità del tutto priva di riferimenti positivi, completamente interiore, senza riti e dal forte afflato soggettivo. Il protagonista cerca infatti una salvezza personale a prescindere da qualsiasi tipo di comunità, tenute sempre ai margini del racconto e, in ultima istanza, estranee alla realizzazione dell’incontro con se stesso. Di particolare rilievo diventa quindi l’unico rapporto interpersonale veramente importante nel romanzo quando Ercole entra in contatto con una giovane coetanea, Corina.
Qui è trasparente l’evocazione dei due principii, maschile e femminile, che reggono l’alchimia (con relativa descrizione di una unyo mistica e non solo mistica…) e che sono il punto fondante di quella “città degli opposti” basata sulla contrapposizione di inconciliabili polarità e su un dualismo esteriore che il protagonista scopre essere soprattutto dolorosa scissione interiore. Solo la conclusiva esperienza estatica potrà superare queste contrapposizioni e solo dalla fusione alchemica potrà emergere la Parola che sembra evocare una nuova creazione e un nuovo mondo quasi a voler riscattare il soggettivismo della ricerca in un nuovo tutto in cui gli opposti trovino, finalmente, conciliazione.
Un romanzo, quindi, molto ricco di suggestioni provenienti da più parti che mostra da un lato l’animo di una persona, l’autore, alla ricerca del senso della propria esistenza e dall’altro il grande potere evocativo dell’introspezione e del tentativo di superare se stessi tendendo ad un compimento che non è mai escatologicamente comunitario. In questo senso si è parlato di new age.
E’ chiaro che in questa ricerca la religione intesa anche come ritualità concreta è semplicemente assente, ininfluente; ciò che conta è la voce interiore, la chiamata che, scaturita nell’intimo o sollecitata nell’intimo da figure di riferimento - la nonna e il bonzo - e da tecniche particolari, la preghiera del singolo come rendimento di Grazie e le arti marziali, conducono il protagonista, attraverso varie tentazioni, alla rivelazione, come recita il titolo di uno degli ultimi capitoli. Ma questa rivelazione al contrario dell’apocalisse, che vuol dire rivelazione, lascia le cose immutate nella loro struttura esteriore: unicamente colui che cerca ne viene toccato e si salva.
Un’opera interessante che si legge con trasporto perché ha il coraggio di affrontare quei temi che troppo spesso, volutamente, si tralasciano a cominciare dal problema del senso del proprio vivere e della provenienza e del destino finale degli uomini.