Ospite odierno della nostra rubrica Proscenio è Luigi Salerno, autore e scrittore napoletano, il cui spettacolo "Le due stanze del colloquio" andrà in scena al Nuovo Teatro San Paolo di Roma venerdì 30 ottobre alle 20:30, sabato 31 ottobre alle 20:30 e domenica 1 Novembre alle 18:00 con la regia di Ferruccio Ferrante. L'intervista. "Le due stanze del colloquio" in che cosa si
contraddistingue rispetto ad altri suoi testi?
“Le due stanze del colloquio”, si muove su di un
crinale impervio, in cui l’articolazione del linguaggio cerca di farsi pulsione
fobica e dinamica, utilizzando gli strumenti
della parola per esplorare il vuoto - e l’ignoto - degli spazi nella
loro duplice funzione di attesa /contesa, dove quattro figure in gioco vivranno
un loro percorso di luminoso disfacimento, unico motore che condurrà ciascuno
di loro verso una forma evolutiva concreta e definibile. Penso, quindi, che la
particolarità piuttosto inusuale di questa struttura, rispetto alle mie
consuetudini, consista nel rapporto
esasperante con il corredo emotivo della pressione linguistica, da cui si
evince il moto, spesso contrario, di una tensione drammatica affrontata da una
prospettiva verticale, che i personaggi assorbono dalla frequentazione con i
processi nebbiosi della loro memoria, utilizzati, spesso in modo inconsapevole,
come strumenti raffinati e seduttivi di tortura. In effetti, l’uso alquanto
controverso della lingua, come anche del ritmo, ha sempre questo colpo in canna, che, nelle mie intenzioni, più che
garantire un’efficacia nell’ortodossia diegetica, vorrebbe ridefinire per
ciascun elemento del colloquio una
reazione motoria e istintiva alla dittatura del pensiero e del suo abisso, che
mentre pare liberarli, di colpo li sottomette, illudendoli di avere ancora una
presa drammatica sui loro ideali e sulle loro dolorose speranze. Un compromesso
tra il moto apparente e speculare delle figure e la disgregazione drammatica
dei sentimenti.
Quale linea
di continuità, invece, porta avanti?
La linea di continuità che credo di scorgere tra “Le
due stanze del colloquio” e gli altri lavori teatrali lunghi che ho scritto, è
la componente ossessiva dei contesti drammatici affrontati, come anche l’amore
per il mistero di ogni personaggio. La ricerca estenuante di infittirlo e di
non svelarlo mai, sperando sempre di trovarvi quello strato sotteso in più,
che, pur oscurandolo, ne suggelli nel contempo la sola possibilità di infinito.
Credo che sia la mia costante. Il mio punto di non ritorno.
Com'è avvenuto il suo primo approccio al teatro? Racconti...
Il primo approccio, quello più teorico, è avvenuto
grazie alla mia attività di lettore, per due grandi autori di letteratura:
Mario Vargas Llosa e Thomas Bernhard. L’accostamento con il loro teatro,
pervaso di trovate singolari, ma anche di una propensione avvolgente della
lingua e del suo utilizzo, mi ha stimolato a una particolare ricerca
trasversale, incentrata su come ottimizzare la tensione linguistica della
parola nel movimento di scena, con tutte le problematiche annesse. Per cui la
scrittura dei miei primi lavori l’ho vissuta e sperimentata molti anni fa, ma
nella mia intimità, come mio territorio di solitudine e di esplorazione, senza
alcun tipo di ambizione che ne proiettasse i contenuti in luoghi lontani dalle
pagine. Poi, in seguito, grazie alla richiesta affettuosa di un amico attore,
Fabio Gagliardi, ho avuto l’opportunità di scrivere un monologo per lui, da
presentare a diverse rassegne. E credo che da lì sia cominciata la fase più
fattiva e stimolante del percorso, non dimenticando la segnalazione del bando
di drammaturgia di Belli Corti del Nuovo Teatro San Paolo, da parte di
un’amica artista e scenografa, Cristiana
Fasano, rassegna a cui partecipai con grande emozione e interesse. Credo che il
mio rapporto con il teatro e tutta la sua evoluzione sia nato da questi gesti
spontanei di stima e di amicizia, e non credo che avrei mai potuto immaginare
una genesi più bella e toccante.
Quando scrive un testo nuovo può capitare che i
volti dei personaggi prendano man mano la fisionomia di attrici e attori
precisi?
A volte sì, ma di solito il processo di definizione
attraversa diverse gradualità o stadi impermanenti di presagio. Come se il
volto fosse sempre sul filo dell’acqua, quindi smosso dalle correnti più
profonde, come dalle luci e dall’evoluzione fraintesa al suo destino. Meno lo
scorgo nel disegno, più lo avverto e lo assimilo. La cosa più bella è riconoscere nell’attore o nell’attrice, in
seguito, quel viso rivelato, che in fondo non avevo visto ma solo adombrato, senza mai definirlo in pieno, come
una voce sconosciuta al telefono prima che la linea cada: quella sorta di
innamoramento in filigrana di un’essenza che sa già di perduto sul suo
nascere, più che la chiarezza
rassicurante di una figura stabile e acquisita.
È successo anche che un incontro casuale ha
messo in moto l'ispirazione e la scrittura?
Quasi mai. Forse solo nel caso che ho citato prima, in relazione al monologo del mio amico attore.
Per un autore teatrale qual è il più grande timore
quando la regia è firmata da un'altra persona?Credo l’alterazione del mistero della mia intenzione
primaria, che occupa quasi sempre una regione pre-concettuale, nella
creatività. Riferendomi non a quello che io so di un mio lavoro, ma a quello
che ancora non conosco, che in fondo rimane il suo nucleo più vitale, che la
regia, qualsiasi sarà il suo percorso e la sua poetica, in qualche modo
potrebbe ancora riconsegnarmi. Quindi il timore di non essere indovinato, se
non decodificato, per qualcosa che ho solo taciuto; nel non ricevere una
risposta a quella domanda che in fondo non avrei ancora posto. Credo che
rimanga ancora una volta un gioco sottile di ombre e di risonanze sottili.
Riconoscermi, anche nella riscrittura infinita della regia, in quella
suggestione/presagio del volto nebbioso che ho appena percepito, ma che non ho
saputo descrivermi o confidarmi del tutto.
Quanto è d'accordo con la seguente citazione di
Nicolae Petrescu Redi e perché: "Quando la sala del teatro è piena, i
polmoni dell’attore hanno meno ossigeno. Ma il cuore…"?
In tutto. Molto suggestiva e profonda. Vi rileggo i
contrasti dell’interazione, la costante rottura di un equilibrio meccanico a
favore del demanio spirituale che richiede la scena, quella dimensione dove
ogni bilico ritrova il proprio assetto
sacrale, oltre quel momento violento di vuoto, particolare e assoluto, dove si incontrano la fragilità e la poesia.
Il suo aforisma preferito sul teatro... o uno suo
personale...
Me ne viene in mente uno di Arthur Miller, a cui
tengo molto: “Non farti sedurre dal pensiero che ciò che non produce profitto
sia senza valore”.
Assiste sempre alla prima assoluta di un suo
lavoro?
A volte, ma non sempre. Di solito non è una scelta,
ma il risultato di circostanze che potrebbero avermelo impedito. Ma rimango
anche dell’idea che ogni nuova rappresentazione, a suo modo, nel momento unico
e particolare nella quale si riforma e riprende luce, rimanga ancora e per
sempre una prima - come anche un’ultima - rappresentazione.
L'ultimo spettacolo visto a teatro?
L’ultimo spettacolo visto al teatro è stato “Ti
regalo la mia morte, Veronika” di Federico Bellini e Antonio Latella, ispirato
alla poetica del cinema di Fassbinder, e in particolare al suo film “Veronika
Voss”. È stata un’esperienza stimolante, che mi è rimasta dentro e mi ha
incuriosito, soprattutto per questo intarsio sottile tra due forme linguistiche
(estetiche e ideologiche) in contrappunto, con un risultato di grande effetto,
cultura e lungimiranza.
Degli attori del passato chi vorrebbe come
protagonisti ideali di un suo spettacolo?
Bruno Ganz, anche se non appartiene a un passato
troppo lontano, per la sua austerità, intensità, efficacia. Il suo viso fermo è
già tempo, movimento. Ritornando ancora più indietro, direi Laurence Olivier.
Per la straordinaria eleganza e l’uso scientifico, quanto ispirato, del corpo,
in ogni suo dettaglio, nell’attivare e plasmare l’emozione pura anche dal gesto
più impercettibile (penso ancora a quanto si è scritto sull’interpretazione
freudiana del suo Amleto).
Il miglior testo teatrale in assoluto qual è per
lei?
Domanda molto difficile. Direi, d’istinto, rimanendo nel Novecento “Un
tram che si chiama desiderio” di Tennessee Williams. Con un balzo nel tempo,
“Amleto” e per la sua analisi raffinata e moderna sul male, personalmente,
anche il “Riccardo III” di Shakespeare.
La migliore critica che vorrebbe ricevere?
Il suo lavoro teatrale, in qualche modo, suona.
La peggiore critica che non vorrebbe mai ricevere?
Il suo lavoro è caotico, verboso, ma rimane muto.
Non suona.
Dopo la visione dello spettacolo, che Le
piacerebbe che il pubblico portasse con sé a casa?
Il mio amore per la vita e il desiderio infinito di
scrivere. Anche solo di immaginarlo possibile.
C'è un passaggio, una scena che potrebbe
sintetizzare in sé il significato e la storia di "Le due stanze del
colloquio"?
“Detto questo, il mio problema, professore - e vengo
subito al dunque -, è che quando io incontro e seduco una persona molto sola, in qualche modo la costringo a rinunciare
alla sua profonda natura di solitudine e quindi alla sua unica forma -
autentica - di libertà”. Giovanni Zambito.
Una sala d’attesa. Tre personaggi, Teresa, Roberto e Armida, che non si sono mai visti prima, si ritrovano nell’attesa di un consulto con un misterioso professore in ritardo. Ciascuno di loro è lì per ragioni diverse e oscure, che non rende mai troppo esplicite. Il loro appuntamento sembra confluire allo stesso orario, mentre nello stesso appartamento la segretaria del professore è prossima a festeggiare il suo compleanno. Durante il logorio dell’attesa ciascuno esprime a tratti la sua identità, le sue condizioni, riserve, paure o speranze. Quando saranno invitati ad accomodarsi nella stanza adibita al colloquio con il professore, tutti e tre nello stesso momento, verranno fuori altre dinamiche caotiche del loro vissuto, che metteranno in gioco i fantasmi delle tre singolari e contrastanti identità, insieme alle sollecitazioni, alla stravaganza e alle suggestioni di ogni processo di rielaborazione.
SCHEDA AUTORE
Luigi Salerno nasce e vive a Napoli. Autore di romanzi, racconti, pièce teatrali e sceneggiature, nel suo percorso di esplorazione assimila il contagio e la passione di nuove forme espressive, ottenendo diversi riconoscimenti in premi letterari e rassegne, anche nell'ambito della drammaturgia. È cofondatore, autore e sceneggiatore del circuito di cinema indipendente “Nocte Film”, (‘La compagna di classe’,’ Finalmente l'inverno’, ‘La città vuota - out the blue’) nato dall'incontro con il filmmaker Fabrizio Fiore, con il quale ottiene numerose selezioni ufficiali in festival internazionali. I suoi scritti sono stati pubblicati su diverse riviste letterarie (Musicaos, Tuffi, Microtales, Risme) e la sua pièce teatrale ‘Ma è a due passi da lei’ è inserita nella Collezione di Teatro di Oèdipus. Pubblica con Ferrari Editore. A breve l'uscita del romanzo ‘Il vincolo cieco’.
CAST
Regia Ferruccio Ferrante
Con Gianluca Cesale, Giordana Morandini, Fabio Pappacena, Laura Riccioli e con Giuliana Mancuso
Scene e Costumi Angela Di Donna, Mariagrazia Iovine, Giorgia Rauccio
Assistenti Scene e Costumi Lara Cannito, Joyce Giordano