Libri, Viola Ardone e "Il treno dei bambini": la lingua deve rinunciare a tutto quello che è "di più". L'intervista di Fattitaliani

"Il treno dei bambini" (Einaudi) è una storia avvincente e commovente che ti invita di pagina in pagina a scoprire ancora di più sui personaggi che la animano e soprattutto su Amerigo. Il piccolo protagonista, come tanti altri bambini del sud nel secondo dopoguerra, lascia il vicolo di Napoli dov'è nato e cresciuto e la madre salendo su uno dei treni che attraversano l'intera penisola per andare a trascorrere un periodo in una famiglia di Modena, dove il Partito Comunista ha creato una rete di solidarietà per strappare i piccoli alla miseria delle zone più devastate dal conflitto. Fattitaliani ha intervistato l'autrice Viola Ardone.
Il romanzo scorre veloce, si legge rapidamente ma non perde d'intensità. Quanto ha lavorato sullo stile, quanto ha limato il linguaggio?
La scorrevolezza è il frutto di un lungo lavoro di ricerca, fatto di sottrazione, di limature, di asciugatura. La lingua, secondo me, deve essere essenziale e saper rinunciare a tutto quello che è "di più".
Il fatto di essere insegnante l'ha aiutata in questo? Mi spiego: si dice che i giovani studenti siano riluttanti alla lettura... si è forse immedesimata in loro cercando di rendere attrattiva la storia soprattutto per loro?
Il mio lavoro di insegnante mi ha aiutata, ma non perché mi ha permesso di essere più vicina agli interessi dei giovani o alle loro aspettative in fatto di lettura. L'insegnante deve padroneggiare l'arte di porgere un contenuto, di renderlo accessibile a tutti gli alunni senza però banalizzarlo o rinunciare alla sua complessità. La ricerca della chiarezza è estremamente difficile. La stessa cosa avviene nella scrittura. Una storia, un personaggio possono piacere o non piacere: è un fatto soggettivo. Ma se quello che volevo comunicare non è chiaro, si presta a fraintendimenti, allora devo riscriverlo meglio, ed è un dato oggettivo. Credo che ogni scrittore debba mettersi al servizio di questa chiarezza.
L'idea delle scarpe che accompagna il protagonista fino alla età adulta da dove viene?
All'inizio erano solo un'immagine: un bambino che come unico svago cammina per le strade del suo quartiere e, dal suo punto di vista, un metro e venti di altezza, posa il suo sguardo sui piedi della gente, ne osserva le scarpe che sono, in qualche modo, sineddoche del loro stile di vita, della loro condizione economica e sociale. Poi l'immagine è divenuta metafora di un desiderio: quello di viaggiare, di trovare la propria strada, di avere, appunto, scarpe proprie.
Lei personalmente che cosa ha appreso dalla fonte storica e lungo la scrittura del romanzo?
Sono venuta a conoscenza di una storia vera, così vera che mi è sembrata quasi epica. Una sorta di anabasi dei bambini, la marcia dei settantamila che, nel giro di pochi anni, vengono trasferiti dalle loro famiglie di origine in altri contesti più accoglienti, in cui essere sfamati e protetti dalla violenza della povertà e della fame. La fonte storica è stata la scintilla che ha fatto nascere il desiderio di narrare. I personaggi e le vicende sono frutto della mia fantasia.
Ci sono stati molti casi di bambini che alla fine hanno scelto di rimanere con le famiglie del Nord?
Dalle storie che mi sono state raccontate ho appreso che alcuni bambini, effettivamente, restavano a vivere nelle famiglie adottive. In molti altri casi, invece, si creava un circolo virtuoso di solidarietà tra le famiglie di partenza e quelle di affido: nel corso degli anni i bambini tornavano più volte dai genitori che li avevano ospitati e magari in età adulta decidevano di trasferirsi stabilmente lì dove avevano trovato affetto e accoglienza, senza però dimenticare i genitori biologici.
Quale personaggio lungo la narrazione "le è sfuggito di mano", andando in una direzione diversa da quella prevista inizialmente?
I personaggi iniziano a vivere di vita propria nel corso della narrazione e spesso ti sorprendono. Quando succede è molto bello perché significa che sono diventati autonomi, sono caratteri a tutto tondo. Un esempio: la piccola Mariuccia che parte insieme ad Amerigo e Tommasino. È stata proprio lei, ad un certo punto, a dirmi che desidera rimanere con la famiglia di Modena che l'aveva accolta. Ed io non ho potuto impedirglielo.
Mi piace tanto Derna: mi dispiace per lei quando si sente frustrata e poco valorizzata dai compagni comunisti. Scommetto che anche lei ha una predilezione per il personaggio. O sbaglio?
Derna è una donna dedita alla politica, e, come molte donne in quell'epoca, ha dovuto operare una scelta tra la vita privata e l'impegno nel partito. Proprio per questo non le ho voluto negare, attraverso l'incontro con Amerigo, l'esperienza della maternità. Essere madri non significa partorire ma accogliere, accudire, consolare, incoraggiare, lasciarsi guidare da un bambino nell'esperienza della maternità. E, sì, ho per Derna un affetto speciale. 
I personaggi del quartiere dove abita Amerigo da bambino si incontrano ancora oggi a Napoli?
I Quartieri spagnoli, i decumani, la Sanità, sono zone di Napoli in cui antico e nuovo vivono in osmosi. Una certa napoletanità sopravvive alle mode, al passare del tempo, è resistente ai cambiamenti, nel bene e nel male. Forse il fascino della città risiede anche in questo. 
Fattitaliani

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