Perché la scelta del titolo è caduta
su “Melodia di porte che cigolano”?
Perché mi piace immaginare le mie parole
come lo stridore di una porta che si muove verso l’apertura. Proprio nel
fastidio che procura quel rumore è contenuta la melodia di cui siamo autori e
interpreti non sempre consapevoli.
Che mondo troviamo dentro le sue
poesie? la realtà o i suoi effetti sull'animo e le sensazioni che suscita?
Ritraggo immagini interiori,
raffigurazioni spirituali e psicologiche che partono da dettagli e situazioni
offerti dalla mera realtà fattuale (la cui descrizione letteraria lascio ai
veristi) per poter arrivare molto oltre e, cioè, ove il lettore osa giungere.
Nella poesia “Tramonto” scrivo:
“Si
inerpica,dondolante, impalpabile sfera luminosa sulla trama stonata
d’azzurro cantante:
fine commossa
del giorno che è stato,
topazio ghiacciato
di caldo e miseria.
La grandezza, ai nostri piedi,
è a un passo
e lambisce con segreti veli d’ira
la carne fragile e immensi gli occhi
che gemono, sfiniti di promesse” (…).
Il tramonto è solo un’immagine del
mondo, comune e conosciuta da tutti, utilizzata per raccontare una dimensione
intimistica (sia individuale che collettiva e relazionale) che tende a
espandersi, a conferire lo strumento per “riempirla” e plasmarla secondo la
soggettività ed il vissuto del lettore, in una sorta di reciproco scambio che
rispetti l’idea che desidero offrire e che, nel caso specifico, si sostanzia nella
condizione di grandezza esistenziale (intesa come valore umano) di cui siamo
portatori, interpreti, decisori ultimi (e, spesso, spietati).
Nella poesia “Alla Sicilia”:
“(…) Grappoli
d’uva che fa solo acetomi cingono i fianchi d’arsura,
io che amo il dolce,
vago alla ricerca di frutti clementi
ma prosperano mandorle amare alla mia bocca
/che aborre preghiere”,
esprimo il mio personale legame
conflittuale con la mia terra d’origine che si perpetra attraverso la risonanza
di caratteristiche tipiche di essa, filtrate dal mio immaginario introspettivo
che le restituisce alla coscienza in modo doloroso e respingente. La chiave
relazionale di questa poesia è la possibilità di condividere con il lettore lo
strazio dell’opposizione ideologica e caratteriale alla terra d’origine che,
non necessariamente, vuol significare rifiuto delle proprie radici ma può
rappresentare una precisa volizione di individuazione soggettiva da realtà che,
istintivamente e per elezione, non ci sono affini, benché ci siano care.
In “Odore di pioggia”:
Selvaggia la pioggia spoglia ogni
luogo,
prodigalità di gocce senza numero
a spiegarle,
ricordo
sospetto
ma mai pregiudizio,
non sente ragioni di vesti eleganti
ma mai pregiudizio,
non sente ragioni di vesti eleganti
sembra ozio di vini scadenti
e si scambia per disagio, lo stupore. (…)”,
e si scambia per disagio, lo stupore. (…)”,
il confine tra la realtà e il mondo
immaginifico della coscienza è quasi inesistente: non solo ritengo che ci sia continuità
ontologica (benché non sempre di percezione) tra il mondo interiore e quello
esteriore ma credo che la possibilità di sviluppare tale consapevolezza sia
estremamente utile nell’economia esistenziale di cui tutti facciamo parte.
Non c’è, in ultima analisi, realtà
senza effetti sull’interiorità e non c’è interiorità senza effetti sul reale.
Che stessi scrivendo poesia, mi era chiaro e congeniale sin da bambina.
Durante il periodo delle scuole medie scrissi il primo componimento nella piena
interiorizzazione del ruolo che volevo assumere: si intitola “Il poeta e
l’avvoltoio” e tratta della percezione spirituale del tempo da parte di un
poeta. Tale poesia, però, fa parte dei miei quaderni personali appartenenti a
cassetti del passato, ben sigillati al presente.
Che cosa trasforma la voglia di sfogarsi in un vero e
proprio componimento?
La voglia di sfogarsi è qualcosa di fine a sé stessa. La spinta dialogica,
il desiderio di accogliere gli altri (e le loro visioni della vita) nelle
proprie creazioni rendono poesia un flusso di parole, divergendo drasticamente
dall’idea di diario (che mi risulta alquanto fastidiosa). E, naturalmente, una
poesia è tale se è scritta bene! Penso che sia necessario aggiungere sempre
qualcosa a sé stessi, spingersi sempre un po' oltre per trasformare un verso in
una vera poesia. Spero di conservare questa aspirazione.
Oltre al titolo, c'è un verso scelto fra le poesie
che potrebbe racchiudere in sé la raccolta?
No, non c’è un verso che può contenerla tutta, non voglio che ci sia,
altrimenti sarebbe bastato pubblicare soltanto quel verso. Ho molte cose da
dire e le voglio dire tutte. Ho materiale per altre due sillogi. L’uso del
titolo è una convenzione, un vezzo piacevole a cui si cede senza fatica ma è
anche un iniziale limite tra chi scrive e chi sceglie (o non sceglie) di
leggere.
Immagino la mia poesia come la pittura espressionista, in cui emozioni e
dolori spaccano i margini uscendo fuori dalle sagome, dalle persone. È un modo
di vivere.
Che cosa si aspetta che il lettore
riceva e recepisca dalla raccolta?
Io fornisco degli spunti, mi piace immaginare che possano giungere ad esiti
disparati, pur senza divergere diametralmente dal mio.
È una raccolta che si rivolge, spesso, alle donne ma non è creata solo per
le donne: si contrastano, a volte anche in modo molto forte, caratteristiche
socio-culturali odiose come il patriarcato maschilista; la tendenza alla
misantropia tout court; il mito dell’autonomia solitaria ed egoistica che
annichilisce la preziosità della condivisione esistenziale; le ideologie che
tolgono dignità a ciò che l’uomo può essere, senza bisogno di trascendenza
dalla natura tutta umana. Mi aspetto che, chi legge, possa accogliere con
empatia ciò che scrivo o, al contrario, rifiutarlo con risentimento: in
entrambi i casi, avrò raggiunto esattamente il lettore con cui desideravo
comunicare, a cui sarò grata per questa possibilità di dialogo silenzioso che è
fonte continua di approfondimento. Giovanni Zambito.
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