di Mario Narducci - Fortunato
Milleprofumi si muoveva con
l’alba. Si chiudeva alle spalle l’uscio di un monolocale che guardava le 99 Cannelle, varcava l’attigua Porta Rivera ed era nell’orto, uno dei
tanti che affiancava la ferrovia, prima che la strada curvasse verso Roio e lo raggiungesse tutta in salita,
tra tornanti panoramici sulla Città che si svegliava.
Era il tempo che gli orti
della Rivera, fertili anche per le vicine acque dell’Aterno e sempre verdi, rifornivano in buona parte il mercato di Piazza del Duomo, dove per trovare
ortaggi di casa, bastava dirigersi a colpo sicuro nella striscia laterale del
mercato, prospiciente la Chiesa delle
Anime Sante.
Fortunato
Milleprofumi riempiva con
sapienza il carrettino delle sue verdure, disponeva ordinatamente i numerosi
odori e con la calma e il portamento d’anca che gli erano propri si inerpicava
per la salita erta che solo permetteva riposo allo slargo piano dei Cappuccini di Santa Chiara. Coperto
l’ultimo tratto che incrocia Via XX
Settembre, si immetteva nella piazzetta di Fontesecco e, costeggiando le Magistrali dal lato piccolo,
guadagnava Piazzetta San Biagio per
raggiungere finalmente Piazza Duomo,
dove ferveva tutto un brulichio di bancherelle che si fermavano al posto
stabilito, come formiche finalmente acquietate.
Fortunato
Milleprofumi s’asciugava con
un ampio fazzoletto a fiori il sudore copioso della salita, si disponeva nella
striscia delle ortolane provenienti dai paesi limitrofi con analoga mercanzia,
riordinava verdure e odori, faceva capolino di preghiere veloci alle Anime Sante, e al braccio di altri
venditori, acquietati anch’essi, guadagnava il bar più vicino per il meritato
caffè. Chiacchierine suonavano a questo punto le campane per annunciare la
prima messa e il sole levato. Le banche dei fruttaròli erano belle e allineate.
I furgoncini degli alimentari avevano aperto i teloni come ali d’aquila in
tutta la loro estensione, tra odori penetranti di sottaceti, aringhe e baccalà;
il porchettaro aveva incominciato a servire i primi panini caldi caldi agli
stessi ambulanti bisognosi di colazione robusta; era apparsa la distesa di
conche e rame vario a piedi piazza mentre dal lato destro, guardante la Cattedrale, le bancherelle di vestiti e
d’intimo avevano messo in mostra la loro mercanzia e l’edicola incominciava la
vendita di giornali, dopo il richiamo dello strillone che vendeva anche di suo,
solleticando la curiosità della gente con una frase rimasta al mezzo come un
sospiro tronco: “E’ successo”... Che cosa, poi, dovevi comprare il giornale per
saperlo. Era L’Aquila del dopo
guerra, ma anche la stessa Città che ci ha rubato le ore del mattino fino a
quando il terremoto del 2009 non
scacciò gli ambulanti per trasferirli nell’arida e incolore Piazza d’Armi, dove
c’è di tutto, ma si fa fatica a ritrovarne l’anima.
Fortunato
Milleprofumi era una delle
tante anime del Mercato del Duomo e
forse tra le più caratteristiche. Gentile di voce e nel portamento, sapeva
adunare attorno alla banca, che era la sua profumeria, le donne degli acquisti
che non trovavano solo verdure, ma tutta una infinità di odori come erbetta,
sedano, rosmarino, mentuccia, timo che nell’orto della Rivèra curava con particolare attenzione da farne il richiamo
principale della sua banca piccola. E’ questa particolarità, si intende, che
gli aveva guadagnato il soprannome di Milleprofumi, al quale teneva come a un
trofeo da esibire nel salotto buono. Come la ressa scemava un poco,
Milleprofumi sedeva su uno sgabello precario, tirava fuori da una sacca di tela
bianca un gomitolo di lana e gli dava sotto coi ferri per confezionare qualche
capo, fosse un maglione o un paio di calzettoni per l’inverno.
Alla scena più esilarante del suo stare in piazza, si poteva assistere
quando accostavano la sua banca donne e giovanottoni simultaneamente. Se era la
donna a chiedere: “Che profumi porti oj (oggi),
Fortunà”, egli rispondeva falsamente
ischizzinito con un “Vattene via,
puttano’ “, che aveva tutto il sapore di una carezza e che come tale veniva
percepita ridendo. Quindi le attenzioni erano rivolte tutte al baldo
giovanotto: “Guarda se quanti profumi
tengo (ho), capa, capa (scegli,
scegli) Stellozzu”. E tutto finiva
lì, perché Fortunato Milleprofumi
era sempre abbondantemente nei limiti della galanteria, prestata tutt’al più al
doppio senso, come lo erano del resto tutti nei suoi confronti, in una Città
aperta al diverso, anche in tempi in cui le cosiddette battaglie di civiltà
erano ancora di là da venire.
Intorno alle quattordici le banche incominciavano a sciamare, mentre
arrivavano squadre di netturbini a ripulire ogni cosa con le ramazze lunghe. Fortunato allora ridiscendeva verso gli
orti della Rivèra con il carrettino
alleggerito e riprendeva la cura del suo orto, perché l’indomani la città
profumasse ancora tutta della freschezza delle sue verdure e dei suoi odori,
cui lui teneva più di un prato in fiore. E che lo esaltavano assai più di due
gocce di Chanel.