di Mario Setta - “Lo statuto dei gabbiani” (ed. Milieu 2012) è il titolo d’un libro
che raccoglie gli scritti e racconta la vita del famoso “bandito gentile” Horst
Fantazzini, curato dalla compagna Patrizia
Diamante con prefazione di Pino Cacucci. In realtà, neanche il titolo
riesce a dare l’immagine dell’idea di libertà incarnata da Fantazzini.
Forse,
volendo parafrasare Rousseau, che nel “Contratto
sociale” esordisce con l’affermazione “L’uomo è nato libero, ma dovunque è
in catene”, Horst Fantazzini,
paragonandosi al gabbiano, nega il concetto stesso di statuto, perché i
gabbiani “sono nati per volare liberi e per loro non ci sono statuti, né leggi,
né regolamenti”. In “Ormai è fatta!”,
trasposto nell’omonimo film di Enzo
Monteleone con Stefano Accorsi, mentre Horst Fantazzini sta raccontando
dettagliatamente la sua evasione dal carcere di Fossano, cita Bernanos de “I grandi cimiteri sotto la luna”, la più
lucida e tremenda denuncia contro la guerra civile spagnola. “Io credo
inevitabile, in un mondo saturo di menzogna, la rivolta degli ultimi uomini
liberi”, scriveva allora Bernanos. E Fantazzini ne riporta una frase lapidaria:
“La minaccia peggiore per la libertà non consiste nel lasciarsela strappare -
perché chi se l’è lasciata strappare può sempre riconquistarla - ma nel
disimparare ad amarla e nel non capirla più”. Ma è lui stesso a sentirsi in
colpa per quello che sta facendo: “Sì, c’è dell’egoismo in quanto sto facendo,
ma se le circostanze me lo permetteranno, questo potrebbe anche essere il primo
passo d’un cammino più lungo”.
Quel cammino, allora immaginato,
lo conduce da un carcere all’altro, da un’evasione all’altra: 34 anni da gulag.
Come nei racconti della Kolyma di Salamov o le lettere dalle Solovki di
Florenskij. Una voglia di libertà frustrata, repressa. Una personalità mai
domata, quella di Fantazzini, fino all’ennesimo ed ultimo tentativo di rapina
in banca, quel 19 dicembre 2001, in via Mascarella, a Bologna. E, tre giorni
dopo, la morte per aneurisma aortico. A 62 anni. “Nessuno muore mai del tutto
finché c’è qualcuno che lo ricorda” ha scritto nella prefazione Pino Cacucci.
Nel libro “Nessuno può portarti un fiore”,
Cacucci descrive la figura di Fantazzini, ma tralascia la storia dell’evasione,
che conoscerà attraverso una corrispondenza col sottoscritto: “Caro Mario,
spero che ci possiamo dare del tu, ho appena divorato le pagine dove ricordi il
tuo contatto e successivo rapporto epistolare con Horst. […] Come hai avuto
modo di leggere, nel capitolo dedicato a Horst manca la parte che ti riguarda…
mi sono basato sulle poche notizie trovate al riguardo”.
9
maggio 1974, un giorno memorabile. Non solo per me. È il giorno dell’evasione
dal carcere di Sulmona di Horst Fantazzini. Verso le dieci del
mattino, come al solito, mi reco all’Ufficio Postale per rilevare la posta. Ci
sono alcune lettere di persone che mi scrivono esprimendo dissenso e
contrarietà alle mie e nostre posizioni sul referendum per il divorzio. Qualcuna
è alquanto offensiva e minatoria. Non ci bado. Torno a casa. Mi preparo a
scrivere a macchina i programmi delle persone che devono sostenere gli esami di
licenza media. Tra alcuni giorni scade il tempo di presentazione delle domande
e dei relativi programmi. Mi metto a battere i tasti della macchina da
scrivere. Comincio col programma di Italiano. Non ho ancora finito la prima
pagina che sento dei passi. Qualcuno apre la porta della stanza che fa da
biblioteca della casa parrocchiale. Ha in mano una pistola. Resto impietrito.
Pronuncio, o meglio cerco di balbettare qualche parola: “Non mi ammazzare! La
campagna elettorale è ormai finita. Non faccio del male a nessuno se sostengo
il NO al referendum”.
Sono
certo che sia venuto per punirmi del mio NO al referendum che si terrà Domenica
prossima, 12 maggio. Oggi è giovedì. La campagna elettorale è ormai conclusa. A
che servirebbe un omicidio? Ad un prete, in una casa parrocchiale? L’uomo,
intanto si dirige verso la finestra, tenendo in mano la pistola. Osserva. La
giornata è piovigginosa. Lo vedo vicino a me ed ho addirittura l’intenzione di
colpirlo al braccio per sottrargli l’arma. Ma è solo un’idea fugace. Lui è
piuttosto giovane, sulla trentina, giubbotto di pelle color marroncino. Mi
ordina di spingere il tavolo contro la porta già chiusa e di sedermi, mentre
lui resta in piedi con la pistola accanto alla mia testa. Parla con un certo
affanno.
“Sono
fuggito dal carcere. Ce l’ho fatta. Da questo carcere non c’era mai riuscito
nessuno. Le guardie mi stanno già cercando. Potrebbero arrivare qui da un
momento all’altro. Sta zitto e non fiatare”.
Restiamo
in silenzio. Guardo la pistola, a destra del mio viso. È una pistola a tamburo,
canna bianca e impugnatura marrone. Passano i minuti. Si sentono dei passi per
le scale. Poi niente. L’evaso guarda il foglio sulla macchina da scrivere, con
un certo interesse. Poi chiede:
“Chi
sei? Cos’è questa casa?”
Rispondo:
“Sono
un prete e questa è la casa parrocchiale”.
E
lui:
“Un
prete? In borghese? Una casa con queste scritte e questi poster? Cosa stai
scrivendo? Ho sentito i battiti della macchina da scrivere e sono arrivato fin
qui. Hai un’automobile per accompagnarmi nella fuga? Aspettavo, per l’ora
fissata, la macchina davanti al carcere, ma non c’era. Sono saltato dalla
finestra del corridoio che dà sulla strada. Quasi tre metri di altezza. Ora mi
fa male una gamba. Per evitare che le guardie, dalle garitte sui muri di
recinzione mi sparassero, sono corso qui. La porta era aperta e sono entrato,
salendo le scale”.
“Sto
scrivendo il programma di terza media per gli esami delle persone che vengono
qui a scuola serale. Non ho l’automobile. Avevo una Fiat 500, ma ho dovuto
darla allo sfasciacarrozze. Alcuni ragazzi, una sera, se ne sono impossessati e
sono andati a sbattere contro un albero”.
Capisco
di trovarmi di fronte ad un tipo particolare. Un detenuto intelligente e
culturalmente interessato. Ha bisogno di parlare, di sfogarsi. Conosce molti
libri. Dice di aver fatto un’altra evasione, a Fossano. C’era stata
sparatoria, allora. Anche adesso avrebbe sparato, se qualche agente avesse
tentato di ostacolargli la fuga. Ma tutto è andato liscio. Senza guai. Finora.
Mi viene da pensare a Papillon. Ma anche a Jean Valjean. In questa casa
parrocchiale, da quando ci sono io, altri ex detenuti sono rimasti qui, per
qualche tempo, prima di tornare nei paesi d’origine, dopo aver scontato la
pena. Un calabrese, condannato per omicidio, vi rimase una settimana. Veniva a
scuola serale e commentavamo le pagine del romanzo di Victor Hugo, I Miserabili. Un breve passo del romanzo
stava scritto a mano su un poster, attaccato alla porta. Ma l’evaso non era
riuscito a leggerlo, per la fretta di entrare. Sono le parole che Victor Hugo
pone sulla bocca del vescovo mons. Benvenuto Myriel, accogliendo l’ex-detenuto
Jean Valjean: “Questa casa non è mia, ma di Gesù Cristo e la sua porta non
domanda mai il nome a chi la varca, ma se ha un dolore. Che bisogno ho io di
sapere il vostro nome? Prima ancora che me lo diceste, ne avevate già uno che
io conoscevo… vi chiamate mio fratello”.
Tra
me e il detenuto si instaura un colloquio pacato, sottovoce, fraterno. Mi dice
che si chiama Horst Fantazzini, e che la stampa lo soprannomina
“rapinatore gentile”, “rapinatore solitario”. Mi fa notare il busto ortopedico,
un’ingessatura, e mi dice che proprio nell’ingessatura aveva tenuto nascosto la
pistola. Parliamo dell’istituzione carceraria, dei suoi metodi antiquati e
spersonalizzanti, della sua incapacità di realizzare le finalità previste dalla
Carta Costituzionale. Ad un tratto, un rumore. Lo spostamento di reti
metalliche. È la donna di servizio che si occupa della pulizia delle stanze
dove dormono alcuni operai della FIAT. Dopo quel 9 maggio mai più operai
avranno il coraggio di chiedere ospitalità nella casa parrocchiale! Avendo
riconosciuto che si trattava della lavoratrice domestica, Francesca, una vedova
di 55 anni con sei figli, la chiamo ad alta voce. Vedo girare la maniglia della
porta e sposto leggermente il tavolo. La donna, vedendo l’uomo con la pistola,
rimane allibita e si allontana in fretta giù per le scale. Constatando che non
arriva nessuno, l’evaso mi chiede di trovargli un nascondiglio. Lo aiuto a
salire sulla soffitta. Ma prima mi abbraccia, mi bacia, mi chiede di non
tradirlo, vincolando la mia coscienza di prete e dichiarando che altrimenti
avrebbe sparato o si sarebbe ammazzato.
Chiusa
la botola, inizia la seconda parte del mio dramma. La più sconvolgente e
traumatizzante. Mi reco in casa della donna di servizio per sapere come stava e
per chiederle se c’erano operai che dormivano. Rassicuratomi, mi dirigo verso
il Posto Telefonico Pubblico. Nel breve tragitto, circa trecento metri, vedo
parecchie guardie che circolano con le armi in pugno. Sono profondamente
consapevole della mia responsabilità nell’evitare a tutti i costi ogni
spargimento di sangue. A venti metri dalla casa parrocchiale c’è l’asilo
infantile. Una decina di bambini! A cinquanta metri, una costruzione per
abitazioni popolari. Ho bisogno di aiuto e, soprattutto, ho bisogno di
“personale qualificato”, per trovare la soluzione. So che nell’ambiente
carcerario, in caso di evasione, è facile che si perda la testa e che si rischi
di precipitare nel caos. Ricordo le considerazioni di Giulio Salierno,
riportate nel libro La spirale della
violenza: “Innanzitutto, togliere dalla mente dei direttori (e di tutto il
personale dipendente) l’incubo dell’evasione. È una patente assurdità voler
conciliare la rieducazione del condannato con la responsabilità penale (non
consideriamo ora quella amministrativa) gravante sulle spalle dei funzionari (e
degli agenti) preposti alla custodia, nell’ipotesi di una fuga”.
Sconvolto, tremante per il
pericolo di vita superato, con una strana, paradossale sensazione che
l’evasione rientrasse in un criminoso disegno per la mia eliminazione fisica o
morale, penso subito di telefonare al medico del carcere, Alfonso De Deo. Una persona qualificata, esperta, sensibile
ai problemi umani dei detenuti. Ma, sfortunatamente, il medico non è in casa.
Una speranza delusa. Compongo subito il numero telefonico del cappellano del
carcere, don Antonio Di Nello. Gli espongo il caso, coinvolgendolo nella
sua qualità di Assistente spirituale della Casa penale e vincolandolo
telefonicamente al segreto confessionale. Il nuovo Regolamento Penitenziario,
approvato dal Senato il 18 dicembre 1973, ratificato in seguito dalla Camera,
accentua gli aspetti umani e psicologici della detenzione, dando un posto di
rilievo al personale con compiti morali e sociali (art. 4). Tenuto conto della
eccezionalità della situazione ed essendomi formato un giudizio articolato e
complesso, sia pure affrettato ma sostanzialmente positivo su Horst
Fantazzini, ritengo opportuno rivolgermi primariamente al medico e al
cappellano, figure collaterali dell’istituzione carceraria, piuttosto che alla
forza pubblica. Consapevole che l’intervento d’urto e massiccio della forza
pubblica, tra l’altro non ancora presente in
loco, se non con pochi agenti di polizia penitenziaria, non avrebbe evitato
spargimento di sangue e si sarebbe incorso nel plausibile rischio della
tragedia.
Il
cappellano, comunque, non si sentì obbligato al rispetto del segreto
confessionale, al quale lo avevo coinvolto telefonicamente, ritenendolo non
valido a causa dello choc e dell’inquietudine in cui mi trovavo. Lo avevo
pregato di venire subito, ma preferì avvertire la polizia penitenziaria,
svelando il luogo dove era nascosto l’evaso. Don Antonio mi aveva consigliato
di lasciar fare alla forza pubblica e di recarmi a casa sua. Non mi sembrava la
soluzione migliore per risolvere il caso. Nel ripercorrere indietro il tratto
di strada, vedo la casa parrocchiale circondata da agenti della polizia
penitenziaria armati. E subito dopo l’arrivo delle camionette dei carabinieri.
Cerco di rientrare in casa. Penso che sarebbe meglio consegnarmi come ostaggio
all’evaso, per evitare spargimento di sangue. Fantazzini è armato e non teme di
ingaggiare una sparatoria con le forze armate. L’ha già fatto e lo rifarebbe.
Personalmente mi sento disposto a morire, pur di evitare la strage.
Nell’inoltrarmi in casa, vengo trattenuto dagli agenti. Lo stress e la tensione
hanno raggiunto il limite della sopportabilità. Mi vengono meno le forze.
Moralmente sono a pezzi. Accompagnato presso l’abitazione di una famiglia
amica, mi offrono del cognac. Non ricordo se sono svenuto. Dopo alcuni minuti
di relax psico-fisico, cerco di recuperare la lucidità. Mi invitano a restare
in casa, ma avverto terribilmente la gravità della situazione. Preferisco la
mia morte, piuttosto che quella di altre persone.
Riprendo
coraggio. Vado dal capitano dei carabinieri, Bonfanti. Mi oppongo alle minacce
di far saltare la casa o di gettarvi bombe lacrimogene. Non permetterei che si
verificasse una sparatoria nella casa parrocchiale, senza tentare di evitarla
ad ogni costo. Si tratta di una specie di luogo sacro. Nel Diritto
Ecclesiastico l’istituzione del “diritto d’asilo” proveniva dallo spirito di
accoglienza e di carità da parte della Chiesa, fondato sulla ricerca di
pentimento e di rifiuto della violenza (Codex
Juris Canonici, can.1179; Concordato art. 9). L’evasione di un detenuto dal
carcere non può essere posta sullo stesso piano della fuga di un leone dal
serraglio. Il detenuto è sempre un uomo. Un essere recuperabile alla
razionalità e alla riflessione. Anche se un uomo, braccato e minacciato,
rischia di diventare peggiore di una belva. In una società culturalmente e
socialmente avanzata dovrebbero crollare pregiudizi e stereotipi. Come quello
di “detenuto” o di “carcere”, intesi spesso come valvole di sfogo o capri
espiatori dei mali della società. Per di più, Horst era armato e avrebbe
cercato di sparare, come d’altronde aveva già fatto nella precedente evasione.
Assumo personalmente l’iniziativa di salire in casa, accompagnato dal capitano
dei carabinieri e da un agente della polizia penitenziaria. Mi avvicino sotto
la botola della soffitta. Chiamo l’evaso, senza ricordarne bene il nome
tedesco:
“Horst,
non sono stato io a tradirti. Ti hanno visto ed ora la casa è circondata”.
Cercavo
di conservare la sua fiducia, di mantenere la captatio benevolentiae. Alla sua risposta ho un sospiro di
sollievo. Mi accorgo che è sereno, calmo. Dice che vuole dialogare con i
magistrati. Non ha intenzione di fare resistenza o di usare violenza. Inizia
così un colloquio tra me e lui, tra lui e il capitano dei carabinieri. Nel
frattempo le guardie e qualche tiratore scelto si dispongono lungo la scalinata
con le armi puntate verso la botola. Parlo, parlo, parlo. Cerco di non dare
spazio ai momenti di silenzio per non permettergli di tramare qualcosa di grave
verso se stesso o verso gli altri. La mia angoscia si trasforma in euforia
verbale. Intuisco che la situazione volge al meglio. Arrivano il giudice, il
medico, il cappellano, e dopo alcune ore Horst Fantazzini consegna
l’arma nelle mani del giudice e ottiene di essere trasferito nel carcere di Perugia
quel giorno stesso. Intanto col telegiornale delle tredici, qualche ora prima
che l’evasione si concludesse, la notizia corre di casa in casa. Perfino il
papa, Paolo VI, trovandosi in riunione con i vescovi italiani e
apprendendo che l’evaso si era rifugiato nella casa parrocchiale di Badia di
Sulmona, aveva cercato di informarsi sull’accaduto. Fortunatamente
l’evasione si concluse senza spargimento di sangue. Purtroppo, quello stesso
giorno, giovedì 9 maggio 1974, alle ore 9.50, nelle carceri di Alessandria, in
Piemonte, si era verificato un tentativo di evasione che, dopo 32 ore, alle
17.10 di venerdì 10 maggio 1974, si concluse con un tragico epilogo: 7 morti (5
ostaggi e 2 detenuti) e 16 feriti.
Il
15 gennaio 1976, mi reco al Palazzo di Giustizia di Sulmona, davanti al
procuratore che mi interroga sui fatti. Mi dà innanzitutto lettura del verbale,
da me redatto e sottoscritto subito dopo i fatti, nella caserma dei carabinieri
di Sulmona e rispondo che ri-sottoscrivo tutto quanto già dichiarato. Il
procuratore mi assicura il non luogo a procedere nei miei confronti. Parliamo
di politica in generale perché avevo con me il primo numero, appena uscito quel
giorno, del nuovo quotidiano “la Repubblica”. Ci salutammo amichevolmente. Così
ebbe termine il mio processo. Poco tempo prima, avevo ricevuto, una lettera di Horst
Fantazzini, dal carcere di Lecce.
Eccola integralmente:
«Carissimo don Mario, ti sorprenderai
senz’altro ricevere una lettera da me dopo un così lungo silenzio, ma il fatto
è che oggi ho ricevuto una comunicazione giudiziaria per i fatti dell’anno
scorso ed ho visto con sorpresa che tu sei imputato con me. Dico con sorpresa
perché quando l’anno scorso fui interrogato dal procuratore, trassi
l’impressione ch’egli s’era convinto della tua buona fede. Probabilmente,
quindi, dovrai subire anche tu il processo e t’assicuro che di tutta quella
vicenda ciò che maggiormente m’addolora sono i guai che ho causati a te. Come
vedi, caro Mario, le nostre leggi vengono applicate con principi ferreamente
meccanici che scattano automaticamente senza tenere minimamente in
considerazione le motivazioni umane che sono all’origine d’azioni considerate
reati. Tu sei imputato verso l’art. 378 C.P. Non ho un codice qui con me, ma
immagino che si tratti di favoreggiamento. E’ indubbio che esaminando le cose
formalmente, il favoreggiamento c’è perché tu, una volta fuori pericolo,
avresti dovuto denunciarmi. Per legge un uomo può essere minacciato da un’arma,
ma non dalla propria coscienza. Eppure io ho fatto mettere a verbale dal
procuratore che t’avevo minacciato d’uccidermi o di farmi uccidere se tu avessi
denunciato la mia presenza nella tua casa, creandoti così un grave problema di
coscienza. Evidentemente il procuratore che ha condotto l’istruttoria non ha
voluto confrontare la fredda realtà d’un articolo del codice con la calda
presenza d’un problema di coscienza improntato ad umanità, preferendo rinviare
la decisione ad un tribunale. Caro don Mario, nessun tribunale potrà
condannarti, però il fatto che tu debba essere inquisito e giudicato per causa
mia è una cosa che m’addolora moltissimo. Caro Mario prima d’ogni cosa fammi
sapere se disponi d’un avvocato. Il mio, più che un avvocato, è un amico, e
sarebbe sicuramente felice di difendere te piuttosto che me a questo processo.
Sono certo che gli interesserebbe moltissimo, difendendoti, sviluppare innanzi ai
giudici il concetto della lotta fra dovere morale e dovere civile che può
verificarsi in un sacerdote che viene a trovarsi in una situazione come quella
in cui ti sei trovato tu quel giorno. Fammi sapere il tuo parere in proposito e
non fare complimenti: se il mio avvocato difenderà te io sarò difeso da un suo
collega. Carissimo Mario, da allora ho pensato molto spesso a te, credo che non
ti dimenticherò mai. Avrei voluto scriverti ma non l’ho fatto perché compresi
che il procuratore era convinto che io e te ci conoscessimo da tempo. Gli era
incomprensibile che tra un delinquente e un prete potesse crearsi, in momenti
drammatici come quelli, una corrente fatta di simpatia, solidarietà, calore
umano. Per questo non ti ho mai scritto. Ora da circa un mese la censura sulla
corrispondenza è abolita e questo decreto di citazione mi ha spinto a
scriverti. Mario, se ti fa piacere, se ritieni che questo rapporto potrebbe
arricchirci entrambi, scrivimi. Io ho di te un ricordo bellissimo e io, che non
sono credente, vorrei che ce ne fossero tanti di preti come te, sacerdoti che,
più che per la bellezza dell’aldilà, sono disposti a battersi affinché il
contenuto sociale presente nell’insegnamento del Cristo possa realizzarsi
nell’esistenza terrena d’ogni creatura umana. Ciao, Mario. Non volermene troppo
per le seccature che ti ho causate. T’abbraccio fraternamente, Horst.
P.S. Le gambe si
sono aggiustate perfettamente».
Horst
Fantazzini è
morto in una caserma dei carabinieri, a Bologna, all’età di 62 anni,
dopo essere stato catturato per l’ennesima rapina a mano armata, spesso con una
pistola giocattolo, in una Banca.