di Mario Narducci - La prima cosa che si avvertiva di lui, era il calpestio
pesante degli scarponi chiodati e sciabordanti, che si trascinavano dietro
stringhe luride, mai allacciate per inettitudine più che per comodità, insieme
a una muta di ragazzi che gli facevano allegramente il verso.
Era un rumore
secco e strisciante, effetto di un passo pesante e traballante per
dimestichezza di vino. Con quel passo e con quell’odore addosso, come un orso
marsicano, egli aveva marcato il proprio territorio, circoscritto nel quarto di Santa Giusta, con puntate a Piazza del Duomo, al Grand Hotel e a Via Venti Settembre, come per dire: questa è casa mia.
Ed in realtà altra casa sembrava non avere, se non quella che
lo vedeva, assai di rado, nella bottega del fratello maniscalco a reggere le
zampe delle bestie da ferrare. Perché Mastru
Peppe, che mutuava un titolo improprio, visto che egli era solo un garzone
di bottega, un lavoro ce l’aveva, anche se l’occupazione sua principale era
quella di fare il giro delle cantine, con un fiasco in mano che svuotava e
riempiva a piacimento, fino a che qualche anima buona non lo riportava
all’ovile. Tra sbornie e smaltimenti, Mastru
Peppe trascorreva i suoi giorni, passando dal vino al vino senza soluzione
di continuità, come una giostra che si arresta appena il tempo di scaricare e
ricaricare i cavalli fermi e dondolanti. Per riprendersi almeno un po’ dalle
sbornie, Mastru Peppe si ubriacava
d’acqua al pilone della fontana addossata al lato destro della facciata di
Santa Giusta, poi si allontanava giurando a se stesso di andare in latteria,
mentre in realtà andava a riempire nuovamente il fiasco di vino che, con
arguzia non comune, chiamava “latte bruciato” con l’intenzione di rassicurare
chi lo commiserava.
Il risultato era che tra latte bruciato e vino, l’abbondante
sorsata d’acqua al fontanile non gli era mai sufficiente a ristabilirlo in un
minimo d’equilibrio. Donde l’aggiunta di Pazzo'
al nome che ne dichiarava il lavoro. Il fiasco era il suo compagno permanente,
una bustina grigioverde sempre calcata sul capo, con le bande laterali sulle
orecchie come un cocker, un pastrano d’inverno, la sola parnanza di cuoio unta e bisunta nella buona stagione, Mastru Peppe vagava entro il recinto
del suo territorio nella tranquillità che gli assicuravano tutti coloro che lo
conoscevano e per i quali era diventato più che un famigliare, anche se da
tenere non proprio in dimestichezza.
Era il tempo in cui al Grand
Hotel dell’Aquila s’erano stabiliti gli occupanti americani che si vedevano
a spasso per la città in compagnia di signorine compiacenti dalla gonna sopra
al ginocchio, la blusa svolazzante e i sandali altissimi di sughero. Era anche
il tempo in cui il comando alleato, per agevolare la circolazione di moneta in
un momento di lira inesistente, aveva diffuso le Am-lire, una moneta stampata con carta di poco pregio, che dopo
qualche passaggio di mano si sciupava fino a lacerarsi. Mastru Peppe aveva escogitato un metodo tutto suo per venirne in
possesso. Si avvicinava alla gente e biascicando per vino profferiva la sua
formula magica: Té gnende ruttu? (Hai
niente rotto? - in senso figurato Hai
qualche spicciolo?)
Una richiesta che non andava delusa, tanto che a sera poteva
contare sempre su un discreto gruzzolo. Accadde una mattina, sul tardi, che
rivolgesse la stessa domanda a una signora al braccio di un facoltoso romano
all’Aquila per diporto, il quale prese la richiesta per offesa grave alla
moglie e lo portò in Pretura. Non ci volle molto al magistrato per rendersi
conto di che pasta fosse l’imputato e dell’equivoco che s’era generato. Anche
la coppia di romani comprese e dovette farsi forza per non profanare l’aula con
grasse risate. L’udienza si chiuse con la raccomandazione a Mastru Peppe di non ripetere mai più
l’espressione equivoca. Mastru Peppe
assentì, voltò le spalle al magistrato e strascinando gli scarponi chiodati si
avviò verso l’uscita. Prima di guadagnarla, tuttavia, si girò verso il banco
dei giudicanti, tese la mano senza pudore alcuno e dalla sua bocca partì la
domanda inesorabile tra una risata generale che rischiò di tirar giù il
soffitto: “Signor Preto’, té gnente ruttu?”
Quando tornai all’Aquila, dopo anni di “esilio”, tra i primi
luoghi della mia infanzia che andai a riscoprire ci fu, manco a dirlo, la Piazzetta di Santa Giusta con il pilone
rettangolare addossato alla facciata della chiesa. Quante volte, nei giorni di
calura, avevo atteso che se ne distaccasse Mastru
Peppe, nelle sue rade sbornie d’acqua, per salirvi cauto e abbeverarmi alla
cannella tra una partita e l’altra di Zirè, sotto il muro della canonica
di don Ernesto. Ma Mastru Peppe non comparve, come non
comparve più nel resto del suo territorio marcato a scarponi e a vino. Anche la
bottega di maniscalco era diventata un buco cieco, né c’erano più ragazzi nella
piazzetta occupata da auto in sosta. Con Mastru
Peppe era scomparso tutto un mondo, le cui tracce nessuno mai dovrebbe
mettersi a cercare. Perché il cuore frantuma nel saperlo sparito per sempre.