di Giuseppe Lalli - Un tempo nelle vie e nelle
piazzette dei nostri villaggi erano presenti immagini ed edicole dedicate alla
Madonna. Alcune sono ancora visibili, nonostante l’incuria e l’azione del
tempo. La pietà popolare esprimeva in questo modo il proprio affettuoso legame
con la mamma celeste, che era così chiamata a vegliare sui propri figli.
Ad
Assergi, antico borgo abruzzese nel
versante meridionale del Gran Sasso,
della presenza di Maria vi è traccia in molti luoghi dell’abitato e della
campagna. Ve n’è una, molto bella ed evocativa, in uno dei quartieri più
suggestivi del villaggio, all’interno delle mura di cinta del borgo antico,
bellamente restaurate negli ultimi anni, in quel centro storico che oggi è
deserto e dove fino ad una cinquantina di anni fa viveva la maggior parte della
popolazione.
Si tratta di una piccola edicola conosciuta
con il nome di “La pistérola” o “La pistérvola”. I vecchi la chiamavano
anche “La Madonna alla Bùscia” (la
Madonna alla buca), ad indicare una porta vicina ricavata agli inizi del secolo
scorso per consentire agli abitanti e alle bestie da soma di defluire più
agevolmente in direzione delle stalle e della campagna. Il nome, “pistérvola”, stava a significare,
nell’intenzione degli assergesi che costruirono il piccolo monumento, che in
quel preciso punto dell’abitato il contagio si era arrestato, la peste se n’era
andata, era volata via, per intercessione della Madonna, a cui si esprimeva perenne
gratitudine.
Il terribile flagello, una delle tante
pestilenze che funestarono la nostra penisola e il nostro continente nelle
passate stagioni della storia (viva memoria si è conservata della “peste nera”,
diffusasi in Europa tra il 1346 e il
1353 e di quella “manzoniana”, che colpì l’Italia settentrionale e in
particolare il milanese nel 1630), accadde nel 1656, proveniente dall’allora
capitale, Napoli, dove, su una
popolazione di 450.000 abitanti, si contarono non meno di 200.000 vittime. Il
contagio raggiunse la provincia dell’Aquila a metà luglio e il capoluogo a fine
agosto. Durò molti mesi e fece un grandissimo numero di morti.
Il grande storico aquilano Anton Ludovico
Antinori (1704-1778) ne scrive a tinte fosche. Verso la metà di agosto fu
anche la volta di Assergi, al tempo
feudo dei duchi Caffarelli (l’illustre casato romano aveva acquistato il
castello ai primi del ‘600). Il morbo crudele infierì tremendamente sulla
popolazione. Nicola Tomei (1718-1792), cui si deve la prima ricerca storica
organica sul paese, di cui fu preposto dal 1742 al 1764, riferisce che morì
anche il parroco, Don Giovanni Spacone. Il suo successore, Don
Giovanni Cipicchia, racconta in un suo manoscritto che in soli tre mesi
perirono più di trecento persone e molte famiglie abbandonarono il villaggio
per non farne più ritorno.
Una voce, forse proveniente da una triste
memoria tramandata attraverso i secoli, vuole che molti cadaveri siano stati
seppelliti nella scarpata esterna delle mura del Castello, nei pressi della
Porta del Colle. Di sicuro molte vittime furono sepolte in cinque tombe
ricavate sotto il pavimento della chiesa parrocchiale, in corrispondenza
dell’attuale cappella di San Franco. Molti altri cadaveri trovarono posto sotto
il pavimento della chiesa di Santa Maria
in Valle, che sorgeva nei pressi dell’attuale sede del Parco Nazionale del Gran Sasso. Questo spiega anche l’attaccamento
degli assergesi a quella piccola chiesa amministrata dai Frati Minori
Osservanti, la cui demolizione, avvenuta nei primi anni ‘30 per far posto alla
strada di collegamento con la costruenda Funivia del Gran Sasso, incontrò viva
opposizione in gran parte della popolazione.
Ma torniamo all’edicola della “Pisterola”. È lecito supporre che al
fondo di essa, in origine, fosse dipinta una Madonna con Bambino, poi corrosa
dal tempo e sostituita da un’analoga composizione in tela stampata che
risultava del tutto scolorita agli inizi degli anni ‘70. Per interessamento di Don
Demetrio Gianfrancesco (1922-2004), zelante e compianto parroco
nonché storiografo rigoroso, nel 1976 vi fu collocato «un pannello di maioliche
riproducente una Madonna col Bambino addormentato in braccio» (D.
Gianfrancesco, Assergi e S. Franco; Roma 1980, p. 73).
Si tratta di un particolare d’un dipinto, Riposo
nella fuga in Egitto, realizzato nel 1673 dal pittore genovese Giovanni
Battista Gaulli, detto Baciccio o Baciccia. Il celebre
artista era nato a Genova nel 1639 e
era morto nel 1709 a Roma, dove si
era trasferito in seguito alla morte di tutti i suoi familiari a causa di
quella stessa peste che un anno dopo, nel 1657, aveva funestato la città
ligure. L’immagine fu scelta e riprodotta da Evelina Pogliani, una
signora nata a Pola e sposata
all’Aquila al marchese Fabrizio Pica
Alfieri, donna di rara sensibilità artistica ed umana che lo scrivente,
tanti anni fa, poco prima che venisse a mancare, ha avuto il piacere di
conoscere. La scelta del soggetto risultò quanto mai appropriata. Fin qui la
storia.
C’è da rimanere stupiti nello scoprire come in un angolo sperduto di un
piccolo borgo possano essersi incrociati tanti destini e tanti sentimenti.
Sullo sfondo della piccola nicchia, l’immagine riprodotta nel pannello è quella
di una Maria che, con posa del tutto naturale, getta uno sguardo sereno su un
Bambino Gesù dolcemente assopito tra le sue braccia: una sorta di graziosa e
poetica variante della “Pietà”. Non c’è nessuna solennità: solo una mamma e un
figlio.
In questi giorni di quarantene e di Quaresima, in questo nostro tempo
che pareva avesse confinato nei «secoli bui» le pesti e i contagi insieme alle
preghiere e alle benedizioni, ho rivisto con gli occhi del cuore questa piccola
edicola mariana, semplice ed elegante, espressione di una pietà popolare che il
tempo sembra non aver scalfito. Tre secoli non sono poi così tanti per chi non
si lascia ingannare dai sensi: tre battiti delle ciglia di Dio, un’eternità che
si bagna nella storia degli uomini. E quella donna che porta sul grembo prima
il bambino che dorme, dopo il figlio ucciso, ci ricorda che la gioia, finché
camminiamo sulla terra, ha sempre le radici a forma di croce.