SiR j, portavoce delle tradizioni e del bene contro il male nei suoi libri. L'intervista


di Francesca GhezzaniSergio Calcagnile, in arte SiR j, si butta a capofitto in tutto ciò che sia arte e comunicazione, spaziando dalla musica alla letteratura horror, dagli incontri con i giovani detenuti di un noto carcere minorile milanese ai libri per bambini. In tante interviste è stato definito, e a ragione aggiungerei, un artista a 360 gradi.


Sergio, entri a pieno titolo nel panorama editoriale italiano con “Nonno Egeo” nel 2018… hai voglia di fare un salto nel passato e di parlarci del tuo primo libro di genere narrativa storica?

Facendo un salto indietro, un salto triplo in quanto si tratta di 3 libri fa e, soprattutto, di 3 anni fa, mi ritrovai in... una selva oscura, circondato da molteplici tentativi di pubblicazione di manoscritti ma senza riscontro alcuno. Preso dallo sconforto, ormai sull'orlo della perdita di interesse verso questa passione che era appena nata, decisi di intraprendere un nuovo percorso cercando di provare almeno a varcare la via principale. Un concorso nazionale di scrittura organizzato nientepopodimeno che da Rete 105. Del resto, scartato da tutti, perché non provarci? Cosa avevo da perderci? Bene, mi iscrissi al concorso dopo aver steso il libro in meno di una settimana. Era un racconto lungo composto rispettando i canoni di battitura previsti dagli organizzatori. Era perfetto perché racchiudeva le emozioni richieste, di carattere autobiografico e di narrativa storica. Non potevo realizzare di meglio. O, almeno, così pensavo. Lo spedii entusiasta e convinto di poter arrivare quanto meno tra i prescelti. Passarono una settimana, un mese, tre mesi. Nulla di fatto. Dopo 4 mesi e mezzo dall'invio mi giunse una risposta. I finalisti erano altri 10 autori e io ero stato scartato. Ci rimasi malissimo. Ne ero così sicuro questa volta. Com'era potuto accadere? Continuavo a pensare al racconto, alla sua candida emozione che lasciava nel lettore, doveva proprio rimanere nel cassetto?
Mi chiamò una casa editrice. La Santelli editore, di cui, allora, il titolare era un anziano signore, Eugenio Santelli, il fondatore. Mi propose di pubblicarlo. Pensavo stesse scherzando e che mi chiedesse soldi, come molti altri prima di lui. Si mise a ridere e mi disse che me lo avrebbe pubblicato in una decina di giorni. Incredulo, me lo pubblicò esattamente una settimana dopo la sua telefonata. Ero in paradiso.
Il libro, intitolato NONNO EGEO, parla di un nonno che racconta al proprio nipote l'avventura da lui vissuta durante la seconda guerra mondiale, al termine del conflitto; quando dovette subire un tragico bombardamento aereo alleato mentre si trovava a bordo di una nave italiana battente bandiera nazista. Come sopravvisse? Il resto per chi volesse, lo potrà leggere nel libro stesso.
Non spoileriamo... come si suol dire oggi.
In ultimo vorrei aggiungere che attraverso questo libro sono riuscito a rivolgermi a alcuni ragazzi del carcere Beccaria di Milano, riuscendo a attirare in qualche modo la loro attenzione. Spero di avergli lasciato qualcosa che possa essergli di beneficio nel futuro.

Quanto sono importanti per te le tradizioni tramandate di generazione in generazione?

Sono essenziali. Non ce ne accorgiamo ma le tradizioni sono ancora ben vive all'interno di noi tutti e non devono assolutamente morire. Se le facessimo sparire vorrebbe dire che avrebbe fine una parte della nostra attuale civiltà italiana. Non dobbiamo permetterlo. Cosa intendo per tradizioni? Tutto... usi, costumi, odori, cibi, sensazioni, emozioni, racconti, leggende, detti popolari, dialetti, musiche, modi di vivere e, soprattutto, l'arte.
Io ho avuta la fortuna di vivere da zingaro vagando per il territorio italiano dal nord al sud, dal sud al centro, dal centro alle isole e ancora al nord. Tutto questo grazie al lavoro peregrinante della mia famiglia, di mio padre.
Ho così imparato a conoscere persone, volti, sguardi e soprattutto animi e tradizioni popolari. Queste sono l'anima della nostra civiltà. Toglieteci le tradizioni e ci toglierete l'anima di appartenenza prettamente italica.
Pensate solamente a una canzone qualsiasi come la pizzica. Oggi la conoscono bene o male tutti, e questo è un bene, ma è un canto tradizionale salentino che canticchiavano i contadini che lavoravano nei campi per ammansire i loro corpi accaldati dal sole africano che picchiava sulle loro teste.
Questo motivo popolare nel tempo divenne un tipo di musica in cui ci aggiunsero strumenti musicali quali violini, fisarmonica, voci e… il re della canzone stessa... il tamburello con la sua ritmica forsennata.
Pensate, inoltre, che con l'avvento degli strumenti musicali, quando la pizzica si trasformò in canzone popolare, venne utilizzata per far muovere i contadini a sua volta morsicati dalla tarantola, il cui veleno faceva cadere in trance. Per liberarsene il rimedio era ballare, ballare e ballare, in modo tale che il sudore lo facesse trasudare dai pori della pelle. Da qui il nome della pizzica.

Approdi poi al genere horror con “Lumina Tenebrarum”… nello svelarcene per sommi capi la storia non intravedi delle analogie con quanto di “apocalittico” stiamo vivendo in questi giorni per il Coronavirus?

Bella domanda. Effettivamente io sono sempre stato molto attratto dai film e libri con scenari apocalittici. Ad esempio, in gioventù ho amato film catastrofici tipo “Airport” e altri ancora più vecchi, come “L’inferno di cristallo” con il mitico attore americano Paul Newman. Mi riferisco agli anni Settanta. Per poi adorare anche film moderni con altrettante visioni apocalittiche come “Io sono leggenda”. Quanto ai libri, faccio un nome su tutti, e dico “L’ombra dello scorpione” di King. Però, a dire il vero, sono sempre stato un profondo ammiratore di film e libri del genere, ma mai avrei immaginato di scriverne proprio uno. Quando lo iniziai a tirare giù, in effetti, doveva essere solo un libro (racconto lungo) di genere horror, con sequenze velocissime che dessero ansia, claustrofobia, come il fatto di essere incastrato in solitudine, tra mura, mattoni e calcinacci, assolutamente impotente nel trovare aiuto. L’idea iniziale era di fare una sorta di diario angosciante in cui il trascorrere di ore in situazioni claustrofobiche potesse far sprofondare una persona all’interno di se stessa, con la conseguenza di voler aspirare alla libertà, all’aria, come una boccata necessaria di ossigeno vitale. Però in fase di scrittura cominciai invece a pensare a qualcosa di diverso che potesse ostacolare il percorso del protagonista. E, successivamente, iniziai a pensare a una storia, cinematografica, apocalittica, che potesse coinvolgere più persone e anche piccoli esseri cannibali, scatenati a seguito di un episodio sciagurato.
Di cosa tratta?
Roberto, il protagonista, in seguito a uno sciame sismico che colpisce la periferia di Milano, si ritrova insieme alla famiglia presso le cantine di un fabbricato imploso su se stesso. Nonostante molteplici pericoli dovuti ai continui crolli, la famiglia riesce a cavarsela e a incontrarsi con altri sopravvissuti ma, tra le mura diroccate, comincia a avvicinarsi una miriade di bestie carnivore, precedentemente allevate in cattività da un pazzo condomino di uno degli appartamenti crollati.
Non voglio dire altro anche in questo caso se non: riusciranno i nostri eroi a sopravvivere a questa furia omicida? Mah…

Infine, a settembre 2019 è uscito “URU”, anch’esso di genere horror ma con un alone di spiritualità e religiosità per la location che hai scelto. Trovi che l’horror abbia necessariamente un richiamo diabolico tra il Bene e il Male?

URU è il mio terzo e ultimo romanzo. Tra i tre pubblicati credo sia quello che rappresenta in toto la mia maturità artistica (dal punto di vista della scrittura), nel senso che attraverso questo manoscritto sono riuscito a esprimere una commistione tra emotività totale a livello di sensibilità di animo umano e una trepidazione e angoscia tipiche del genere horror. Ricordo che si tratta certamente di un genere horror in senso classico, alla Lovecraft per intenderci, ben diverso dall’horror moderno, totalmente fantasioso. Nei miei scritti cerco sempre di mantenere un senso di legame con la realtà, in modo tale da far rimanere il lettore ben attaccato alla pagina.
Il fatto che mi dicevi dell’alone di spiritualità e religiosità mi è stato ispirato in seguito a un personale viaggio meditativo presso un monastero benedettino. Lì trovai la mia Musa, tale da infondermi una forza interiore capace di farmi immediatamente esprimere in musica e anche in scrittura, facendomi portare alla luce questo scritto.
L’horror generalmente ha un richiamo naturale verso il male. È un genere strano, ancora poco seguito in Italia, anche se in fase di grande avanzamento. Diciamo che è figlio del dopoguerra. Le persone vissute al tempo del conflitto bellico di fronte a queste situazioni cosiddette “orrorifiche” probabilmente sorridono dall’alto dei cieli, avendo vissuto certamente ben di peggio.
In questo romanzo in realtà ho voluto creare un vero e proprio legame tra il sacro e il profano, tra il bene e il male, come se fossero loro i veri protagonisti del libro, a volte superando anche i personaggi stessi.
Di cosa parla?
Il protagonista, in crisi di mezza età, decide per l’appunto di recarsi presso un monastero benedettino, ove scopre che la sacralità di facciata mostra delle crepe essenziali al suo interno, tali da far urlare il male insito. Lì ha origine il tutto. Lì tra quelle mura perfette nasce la creatura diabolica capace di uccidere.
L’unica cosa che mi sento di aggiungere è che grazie a questo romanzo sono riuscito a trasmettere il mio grande amore per le tradizioni regionali, di cui abbiamo parlato a inizio intervista, e che rappresentano il cuore pulsante dell’Italia.
In ultimo, cosa vuole dire Uru? Chi è?
Uru è il folletto diabolico che “…compare durante la notte quando uno ha brutti pensieri…”.

Se ci fosse una trasposizione cinematografica, quale dei tre lo vedresti meglio in pellicola?

Devo essere sincero. Sono sceneggiatore cinematografico, oltre che scrittore, e riconosco che il mestiere di sceneggiatore è ben diverso dallo scrittore perché vedere in testa un film è tutt’altra cosa dallo scrivere un libro. In sostanza, i sentimenti non li puoi certamente mostrare tanto facilmente. Pensate a un sentimento di tristezza, di allegria, di amore per qualcuno. È complicato, devi costruirci una storia per farlo capire.
Per questo dico che probabilmente quello più facilmente trasportabile sui grandi schermi è sicuramente Lumina Tenebrarum. Molto diretto, pieno di colpi di scena e, soprattutto, assai veloce nelle azioni. Anche Uru è alquanto celere, però risulta davvero complicato per una eventuale ricerca di attori. Dovrebbero essere artisti di livello troppo elevato per esprimere determinati concetti e emozioni.


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