di Nicola F. Pomponio. TORINO - Sono stato in India
per la prima volta, non molto tempo fa.
È stato un viaggio particolare, organizzato
in proprio, con amici stranieri con cui comunicavo in inglese o tedesco e con
un percorso ottimamente alternativo alle “rotte” commerciali del turismo di
massa. E’ stata un’esperienza, sotto tutti i punti di vista, entusiasmante.
L’India è sempre un po’ un mondo lontano e affascinante e per me, appassionato
di storia e culture, questo continente mi ha colpito con la forza del tuono e
la potenza del fulmine.
Non credo abbia senso ripercorrere tutte le tappe di un
viaggio durato tre settimane e che si è snodato nel nord di questo continente
tra Rajastan, Punjab e Himalaya; così
tanti sono i luoghi, le persone, le situazioni con cui mi sono confrontato. C’è
un elemento che credo riassuma tutto: lo straripante. L’India straripa, deborda dappertutto. E’ un turbinìo continuo di
colori, suoni, sapori, odori, volti, espressioni. Nulla è semplice, tutto è
composito, iper-decorato, sovrabbondante. Anche là dove la semplicità dovrebbe
regnare, il “genius loci” afferra il
tutto e lo ripropone con colori accesi, smaglianti, quasi violenti.
La frustra espressione secondo cui l’India è un luogo dalle “forti contraddizioni” svela così il suo
momento di verità: donne in sari coloratissimi e affascinanti, razzolano tra la
spazzatura in compagnia di mucche, templi induisti rigurgitano di dei, dee,
offerte, pellegrini e …… denaro, così come quegli strani (per me!) dei e dee
con tante braccia e tante teste.
L’India appare come
il luogo della sovrabbondanza, direi quasi, utilizzando un termine forse troppo
occidentale, del barocco. Cammelli addobbati quasi come spose camminano lenti e
costanti lungo strade polverose, elefanti con abbellimenti coloratissimi
risalgono strette viuzze apparentemente senza nemmeno essere guidati, solo un
uomo, in groppa, vicino alla testa, si muove, quasi delicatamente, per
indirizzarli sulla via, matrimoni (vi ho partecipato in ben due occasioni) in
cui bellissime donne (quasi completamente coperte di preziosi) dai volti di
sogno e uomini dall’espressione al contempo virile e amichevole, vestiti in
abiti da “Mille e una notte”, danzano al ritmo di musiche strane e penetranti.
L’India sommerge, sbalordisce, spiazza. Vi è sempre qualcosa
di eccessivo, come la sua ottima cucina sempre speziata, come la sua
religiosità sempre presente. La cerimonia delle abluzioni nel Gange è qualcosa di spettacolare sia
per la profondità della fede che qui si manifesta, sia per il brulicare di
persone e atteggiamenti: coppie con i piedi in acqua si fanno fotografare in
pose esprimenti “pietas” e fervore
religioso, giovani, vicini a un santone, meditano a lungo e poi, all’improvviso
s’immergono nella corrente tumultuosa aggrappandosi a delle catene e poi tanti,
tantissimi oranti affidano alle acque dei piccoli cesti contenenti petali di
fiori con bastoncini accesi.
E così, mentre si assiste a uno spettacolo multicolore e
caleidoscopico, improvvisamente delle scimmie (onnipresenti) si parano davanti
e con calma “camminano” sul bordo di un ponte o uomini con gravi malformazioni
o vere e proprie mutilazioni si avvicinano “camminando” su braccia e moncherini
di gambe con movimenti che ricordano al contempo sia quelli delle scimmie sia
quelli dei ragni: l’eccesso, il perturbante, quel che l’occidente (nel bene e
nel male) ha saputo risolvere o, talvolta, solo nascondere, qui si mostra con
una crudezza a cui non si è abituati.
Così come la prossimità tra uomini e animali. Tutti sappiamo
della sacralità dei bovini, ma vederli camminare tranquillamente sulle
“autostrade” o nei vicoli fangosi delle città è una vera e propria esperienza.
Sono diversi dai nostri bovini, hanno come una gobba sul dorso, così come i
tantissimi maiali, neri, irsuti, con qualcosa che assomiglia ad una cresta
anche loro sul dorso e poi le scimmie, dappertutto, i pachidermi, i cammelli nel
traffico delle grandi città.
E’ tutto un bizzarro giardino zoologico e un affascinante
quanto ricco mondo vegetale che si squaderna alla vista di un occidentale
abituato alla rigida separazione degli ambiti. E questa vicinanza la si ritrova
nell’induismo con i suoi dèi teriomorfi, le sue divinità in cui il confine tra
umano e animale è valicato. I sontuosi, meravigliosi palazzi visitati
utilizzano così figure, per noi, bizzarre e le divinità si appropriano delle
caratteristiche animalesche in un processo che mi riporta alla mente (in modo
superficiale, ovviamente) le divinità egizie o le figure mesopotamiche dove dèi
barbuti hanno il corpo di leone o altri animali.
C’è qualcosa di proteiforme, di eternamente cangiante, ma
anche eternamente stabile nel lussureggiante pantheon induista e questa ricchissima collezione di divinità, è
quasi il contraltare del rigido monoteismo islamico (i cui capolavori artistici
sono commoventi) o del pensiero Sikh
con i suoi guru e il suo stupendo Tempio
d'oro dove migliaia di pellegrini ogni giorno sono gratuitamente sfamati
(anch’io ho mangiato con loro), o della semplicità buddista che però non
rifugge anch’essa dai colori accesi e dalla moltiplicazione dei bodhisattva o, infine, dal demonico del
buddismo tibetano.
Ma, imponente e affascinante, si manifesta il tempio baha’i di Delhi, l’ultima in ordine cronologico delle tante religioni che
s’incontrano in India. E nel
silenzio della grande area interna di questa costruzione in cui la foglia di
loto è l’elemento architettonico principale, nella totale mancanza di simboli
religiosi perché tutte le religioni devono essere presenti, nel Nulla che viene
evocato e che tanto mi ha ricordato la mistica sia cristiana, sia islamica, sia
buddista, il contraltare definitivo alla spumeggiante, vitale, esuberante vita
indiana si presenta in modo al contempo plastico e discreto.
Un ultimo elemento (ma quanti altri ancora potrebbero essere
evocati!) mi preme sottolineare: i volti dei bambini. Volti curiosi, desiderosi
di contatto umano e di conoscenza, aperti al mondo, furbi di un candore
disarmante. Abbiamo visitato una scuola: centinaia di bimbi in divise dai
colori diversi secondo le classi ci hanno accolto con l’espressione di chi
vuole sapere, conoscere. Volti non ancora contratti nei ghigni prodotti dai
giochi elettronici, ma aperti al futuro, desiderosi di sapere. Una realtà
antichissima e una nazione giovane, con enormi problemi (primo fra tutti il
tentativo di imporre il concetto unificante di Stato-Nazione a situazioni dalle
infinite sfaccettature, donde gli scontri tra diverse comunità e i soldati
armati fino ai denti) ma dal ricchissimo fascino che spero di aver, anche solo
in parte, evocato.