di Mario Narducci - Il vecchio Papa attraversò il selciato livido di San Pietro come fosse una
sua personale Via Crucis, sotto un cielo di piombo che pioveva a scroscio.
Era
barcollante a tratti, per la zoppia che lo affliggeva da tempo. Non un ombrello
pietoso a ripararlo, non vestiva mantelli rubei che pure gli spettavano, non
camauri sul capo che pativa il freddo della sera inoltrata. Procedette malfermo
ma deciso verso la scalinata della Basilica, e la salì solitario, appena
sorretto da un improvviso cireneo, come fosse il suo Calvario. Sedette esausto,
il volto dolente e smarrito come mai, e fu come si distendesse sulla Croce.
La Piazza era vuota. La gente se ne stava rintanata nelle case come se da
un momento all’altro dovessero passare i caccia a bombardare la città. Non un
cardinale a fargli corona. Si è sempre soli nell’ora del patibolo. E Lui si
stava offrendo per l’umanità intera, invisibile davanti agli schermi dei
continenti. Sopra la piazza ora la pioggia diluviava. Il selciato ed il cielo
diventavano sempre più neri. Poi al termine di una lunga e silenziosa
immobilità, Lui si scosse per riemergere al tempo come da abissi di interiore,
spirituale angoscia.
Io ripensavo, guardandolo, a papa Montini, quando le Brigate Rosse uccisero
Aldo Moro. Egli aveva pregato fortemente per la sua salvezza, senza averne
risposta. “Tu o Dio non mi hai ascoltato”, gridò al cielo e sulle sue labbra
apparve come un rimprovero disperato, un pianto irrefrenabile, singhiozzi che
squarciavano il petto. No, non veniva meno la fede, se a vincere fu allora la
delusione. Non si crede in Dio perché egli ci sovviene nelle nostre urgenze, si
crede in lui perché si è consapevoli del suo amore, i cui percorsi non sempre
seguono i nostri.
Il vecchio papa ora si alzava a parlare. E sulla sua bocca, come fosse una
fioritura di speranza, comparve la barca di Pietro e di altri apostoli in preda
alla tempesta, mentre Gesù dormiva. La tempesta cresceva e cresceva la paura
dei discepoli che se ne uscirono nel grido che ciclicamente ripete l’umanità di
ogni tempo di fronte al dolore: Signore salvaci. E il Signore si levò, e gridò
alla tempesta di placarsi e quando la bonaccia tornò, con dolce rimprovero
disse loro: perché avete avuto paura? Non avete ancora la fede?
Ma la fede non toglie la paura. La paura è nella natura umana. Egli stesso
in preda alla paura sudò sangue tra gli ulivi del Getsemani e pregò il Padre
perché non gli facesse bere il calice amaro della crocifissione. Anche la paura
è un diritto. Quando però Cristo si avvicina agli uomini, la paura si tramuta
in affidata speranza. Che è frutto del suo amore.
Il vecchio papa levò l’ostensorio sopra gli invisibili quattro angoli della
terra. E tornai bambino al tempo delle “rogazioni” di primavera, quando, tra i
campi attorno alle pievi, parroci in cotta e stola lanciavano benedizioni sopra
le messi in divenire perché abbondante fosse il raccolto. E quando i contadini
erigevano croci di sterpi tra le distese ancora acerbe di grano perché non
venissero compromesse da nembi tumultuosi. Allora c’era il sole, sulle messi, e
attorno al prete si affollavano i contadini lieti di mettersi nelle mani di
Dio.
Il vecchio papa, invece, era solo. Si avvertiva l’assillo dell’invisibile
che aveva fatto chiudere gli usci delle case e azzeppare gli ospedali, che
aveva serrato le fabbriche, chiuso gli uffici e i negozi, rese deserte le
piazze ed i vicoli, inutili le fontane dei parchi se non c’erano più ragazzi a
bere alle cannelle, che aveva fatto sciogliere le nevi, senza prima vederle
solcare da frotte di sciatori. La pioggia anziché cessare veniva ora giù a
raffica. I lampioni della piazza sembravano inariditi e bui. Il selciato si
confondeva con il cielo. La primavera sembrava essersi mutata in tregenda. I
getti della fontana erano una sola cosa con il diluvio.
Poi, mentre il vecchio papa si allontanava per il ritorno a casa,
improvvisamente uno spiraglio piccolissimo di cielo si aprì e prese forma
umana. Come un refolo bianco con le braccia aperte ad accogliere le pene degli
uomini e del tempo. La piazza deserta parve trasalire dei battiti di una folla
enorme e invisibile che raccoglieva il soffio angoscioso delle case. In basso,
sul sagrato, era rimasto solo il Cristo Crocifisso di San Marcello al Corso,
che aveva salvato i romani dalla peste del millecinquecento.
***
Mario Narducci è nato
nel 1938 all'Aquila. Giornalista professionista, ha lavorato per Il Resto del
Carlino, La Gazzetta del Popolo, Avvenire e Il Popolo, seguendo per
quest'ultimo, come vaticanista, i viaggi apostolici di Paolo VI nell'ultimo
scorcio del pontificato e, per dieci anni, quelli di Giovanni Paolo II, poi
raccontati nel volume, esaurito, Le
ragioni dell'anima (Calderini, Bologna, 1989). Ha fondato
e dirige Novanta9,
periodico di lettere, arti e presenza culturale. E' presidente dell'Istituto di Abruzzesistica e
Dialettologia e promotore del Premio L'Aquila intitolato
ad Angelo Narducci,
direttore storico del quotidiano Avvenire. E' componente di numerosi Premi
letterari. Ha pubblicato tra l'altro i seguenti testi di poesia: La Ragazza di un mese (Ceti,
Teramo), Se insiste la speranza (Cannarsa,
Lanciano), Il deserto e i giorni (IAED,
L'Aquila) con un contributo critico di Alda Merini, Le offese stagioni (Confronto,
Fondi), Tempo di Passione (IAED, L'Aquila).