Mostra "Amara terra mia" sulla grande emigrazione italiana fra ‘800 e ‘900 - Atessa (Chieti)
di Antonio Bini -
La vicenda storica del Titanic è presente nell’immaginario
contemporaneo nel colossal di James Cameron che vide protagonisti Leonardo
di Caprio e Kate Winslet nei ruoli, rispettivamente, di Jack e
Rose, espressione di due differenti condizioni sociali. In effetti, accanto a
personaggi della aristocrazia britannica, banchieri, industriali, sul
transatlantico viaggiavano, stipati in terza classe, numerosi emigranti
provenienti da vari paesi, non solo europei, in cerca di fortuna negli Stati
Uniti. Tra i superstiti del viaggio inaugurale del Titanic, partito da Southampton e diretto a New York,
c’era anche Luigi Finoli, che faceva rientro a New York, dove era
emigrato nel 1899.
Finoli era nato ad Atessa (Chieti)
nel 1870 e negli Stati Uniti svolse soprattutto l’attività di commerciante,
prima a New York e New Haven e quindi a Philadelphia, una delle città storiche
dell’emigrazione italiana in America, dove era presente una consistente
comunità abruzzese. Quel 14 aprile 1912 si salvò dal naufragio, ritenuto
il più disastroso della storia, riuscendo ad aggrapparsi ad una scialuppa. Nel
1935 rientrò definitivamente in Italia, morendo nella sua Atessa tre anni dopo.
Apprendiamo queste notizie da un pannello, corredato da una rara foto del
superstite, della mostra “Amara terra
mia”, sulla grande emigrazione italiana fra '800 e '900,
organizzata dalla Fondazione MuseAte, con il patrocinio del Comune, ed
esposta nel Palazzo Ferri di Atessa, in Corso Vittorio Emanuele, n. 116. Un
lavoro accurato, ben sviluppato da un team che ha operato con passione e
dedizione, composto dalla presidente della Fondazione, Adele Cicchitti e
da Anna D’Antino, Nicola Ciliberti, Anna Pia Apilongo e Mario
Fornarola.
La mostra fornisce uno sguardo generale sull’emigrazione italiana, con
finalità soprattutto didattico-formative, al fine di avvicinare, in
particolare, le giovani generazioni ad un fenomeno complesso che non sempre è
sufficientemente conosciuto e soprattutto studiato, proprio in una terra
che ha storicamente rappresentato una delle aree di provenienza dei maggiori
flussi in uscita rispetto alla popolazione residente, sin dal periodo
post-unitario. Probabilmente ciò è dovuto anche al desiderio di rimuovere quegli
aspetti della vita sociale inscindibilmente legati allo stato di miseria che
costituì la causa fondamentale dell’esodo. Un oblio che
sembra saltuariamente interrotto solo dalla riscoperta di personaggi di
successo o in coincidenza con visite di discendenti che si sono particolarmente
affermati, come avvenuto nel recente caso di Mike Pompeo, primo
segretario di stato USA di origini italiane.
Il picco nelle uscite fu raggiunto all’’inizio del ‘900. Un fenomeno che,
nello specifico dell’Abruzzo, fu descritto in modo inequivocabile come “l’improvviso
erompere di una corrente migratoria così gagliarda e nutrita da rendere
l’immagine di un fiume in piena” (cfr. Inchiesta parlamentare sulle
condizioni dei contadini nelle provincie meridionali e della Sicilia, Roma,
1909). In effetti nel solo periodo 1901-1910 lasciarono la regione,
allora unita al Molise, ben 417.775 persone, considerando la sola
emigrazione transoceanica. Anche la scrittrice inglese Anne MacDonell, nel
suo racconto di viaggio riscontrò con curiosità che “la più comune
decorazione sui muri dei paesi abruzzesi è l’avviso delle linee transatlantiche
per emigrare» (In the Abruzzi, London, 1908).
Per altro verso Pascal D’Angelo, nel suo romanzo autobiografico Son of Italy,
pubblicato a New York nel 1924, scrisse
non senza amarezza che “Un tempo non c’era scampo... oggi la via d’uscita
esiste e si chiama America”. In questi ultimi anni il flusso migratorio in
uscita è peraltro ripreso, sia pure con caratteristiche diverse rispetto al
passato e con riflessi sempre più evidenti relativamente allo spopolamento
delle aree interne.
Una serie di immagini, documenti, pubblicità delle compagnie di
navigazione, biglietti di viaggio, passaporti e permessi, illustrano il
“rito” della partenza, con il distacco dalla propria terra e spesso dalle
proprie famiglie verso destinazione prevalentemente sconosciute. Oltre al
naufragio del Titanic, ricordiamo il
pannello che ricostruisce il dramma della nave Utopia, partita da Trieste e colata a picco nei pressi di
Gibilterra il 17 marzo 1991, nella quale persero la vita molti emigranti
italiani, tra cui 15 provenienti da Fraine, piccolo paese della
provincia di Chieti e 14 partiti da Carovilli, in provincia di
Isernia. Varie immagini ricostruiscono il passaggio obbligato di Ellis Island, una volta giunti a New
York.
Un’interessante ricerca, esposta alla riflessione dei visitatori, riepiloga
pregiudizi, etichette e luoghi comuni, intrisi di ostilità, razzismo e
addirittura d’odio, che caratterizzavano “l’accoglienza” e la vita degli
italo-americani. Una vita assai difficile, che indusse gli italiani e
soprattutto quelle comunità provenienti dalla stessa aerea a legarsi
attivamente, dando forma a strutturate modalità di solidarietà, come nel caso
della “Società di Mutuo Soccorso degli Atessani di Philadelphia”,
fondata nel 1906, la cui storia è ricostruita in uno specifico pannello, mentre
in un altro si espongono alcuni documenti della raccolta dei fondi per le feste
patronali in paese.
Ma la Società raccolse generosamente fondi anche in occasione del terremoto di Messina (1908) e quello
della Marsica (1915), mantenendo in
ogni occasione forti legami con l’Italia. Negli anni trenta facevano parte
della Società oltre 300 famiglie, tra cui quella di Roberto Carlo Venturi, padre di Bob Venturi, uno dei più
prestigiosi architetti americani del ‘900, scomparso nel 2018 e pure legato
alla terra di origine del padre.
Una sezione interessante riguarda le rimesse degli emigranti, che ebbero un
ruolo fondamentale per il sostegno delle famiglie rimaste in Italia, attraverso
l’esposizione di documentazione bancaria sui trasferimenti in denaro da
Argentina, Stati Uniti, ecc. In proposito occorre sottolineare l’importanza dei
documenti provenienti dall’archivio di Duilio
e Mario Fornarola, costruito
pazientemente nel corso del tempo e comprendente atti a partire dalla fine
dell’800, come circolari ministeriali, ricerche di personale, istruzioni
limitative dei visti per gli Stati Uniti,
ma anche giornali e riviste d’epoca, foto di famiglia e cartoline spedite ai
familiari rimasti in Italia.
Alcune informative ministeriali permettono, in particolare, di comprendere
i meccanismi della divulgazione di notizie sulla disponibilità di lavoro
all’estero come, ad esempio, alcune che mettevano in guardia le autorità locali
(1884) sulla presenza di “speculatori”, tra gli agenti locali delle compagnie
di navigazione per l’orientamento di emigranti verso l’America e l’Australia, o
come l’appello (1889) in cui si partecipava l’interesse ad arruolare di 2000
operai per la costruzione della ferrovia Salta-Jujuy, nel nord dell’Argentina, espresso dall’impresa di John
Jackson, che aveva inviato in Italia un suo rappresentante, il quale
avrebbe assicurato l’anticipo della metà delle spese della traversata, venendo
incontro al problema che molti incontravano nel raccogliere i denari necessari
per l’acquisto del biglietto.
Al tempo stesso, l’informativa assumeva caratteri contraddittori, laddove
di fatto sconsigliava apertamente di aderire all’offerta, poiché i lavoratori
sarebbero stati impegnati a lungo in “aree tra le meno salubri”
dell’Argentina, sottoscrivendo
contratti con vincoli temporali che avrebbero impedito di venir meno al
rapporto di lavoro.
Qualche considerazione è necessaria, infine, sul titolo della mostra - “Amara
terra mia” - che per molti richiama quello della canzone che Domenico Modugno riprese dalla
tradizione popolare abruzzese. Il canto, riproposto recentemente anche da Ermal Meta, era originariamente
diffuso soprattutto tra le raccoglitrici di olive dell’area frentana come “Addije, addije amore”, ricordando,
appunto, storie di sofferenza e di separazione comuni a generazioni di
emigranti.
La mostra, allestita nel Palazzo Ferri di Atessa - che in altre sale ospita anche
la straordinaria collezione di opere di Aligi
Sassu - è visitabile fino al 28 marzo 2020, nei giorni di
sabato e domenica, dalle ore 18 alle 20, con ingresso libero. Visite di gruppi
in altri giorni sono possibili dietro prenotazione.