Hafez Haidar, insigne scrittore e poeta, docente di Letteratura araba all’Università di Pavia, il 20 dicembre 2019 ha ricevuto la Laurea honoris causa in Scienze Umane conferitagli dalla World Humanistic University, ateneo con sedi a Miami (Usa) e Quito (Ecuador), e prossimamente a Luanda (Angola) e Milano (Italia). Il riconoscimento, l’ultimo in ordine di tempo, si aggiunge ad un già ricco palmares di prestigiosi premi letterari che sono stati tributati al poeta e scrittore.
Di origine libanese - è nato a Baalbek il 25 maggio 1953 – Hafez Haidar è da molti anni cittadino italiano. Ha studiato Filosofia greca ed araba all’Università di Beirut, poi, trasferitosi in Italia, ha fatto gli studi a Milano, dove all’Università Statale si è laureato in Lettere Moderne e specializzato in Archivistica, Paleografia e Diplomatica con il massimo dei voti.
Nel 1986, abbandonata la carriera diplomatica, si è dedicato all’insegnamento e alla scrittura, impegnandosi in un’intensa attività tesa a costruire collaborazioni tra popoli e culture, creando occasioni di conoscenza e di dialogo tra Cristianesimo e Islam. Rilevante la sua attività editoriale come poeta, romanziere, saggista e traduttore. Ha pubblicato per Mondadori, Piemme, Rizzoli, Bompiani, Fabbri, Tea, Guanda, Mondolibri ed altri editori.
Per la sua attività culturale, mirata a favorire in campo internazionale il dialogo interreligioso e la convivenza pacifica tra popoli di culture diverse, è stato Candidato al Premio Nobel per la Pace negli anni 2016 e 2017, e nel 2018 al Premio Nobel per la Letteratura. Considerato uno dei maggiori studiosi delle religioni monoteistiche a livello mondiale, è anche il massimo studioso di Khalil Gibran, per le cui opere - e per quelle di altri autori arabi - è stato traduttore e curatore delle edizioni in lingua italiana. Componente di prestigiose istituzioni culturali, in Italia e all’estero, è anche direttore generale della Camerata dei Poeti di Firenze. Qui di seguito si propone una significativa nota, sulla Poetica di Hafez Haidar, del prof. Orazio Antonio Bologna. (Goffredo Palmerini)
Breve riflessione su due poesie di Hafez Haidar
di Orazio Antonio Bologna *
Leggere la poesia, che limpida, sofferta e, nello stesso tempo, a lungo meditata, sgorga dalla penna magistrale di Hafez Haidar, per dirla con Dante, fa tremar le vene e i polsi. Per l’intenso lirismo, del quale è permeato ogni lessema, ogni sintagma, ogni strofa lascia anche nel lettore più attento e avveduto un certo disorientamento. Non è, infatti, solo il lirismo ad avvincere la mente, ma la profondità e l’universalità del messaggio, che con parole semplici e ben calibrate, riesce a veicolare a un pubblico sempre più vasto e idoneo a recepire quanto è ora chiaro ora velato nei singoli versi formati, a volte, da una sola parola.
In tutta la raccolta dei carmi, non a caso intitolata Il nuovo profeta, si avverte e vibra in tutta la sua ampiezza l’arcano e misterioso mondo orientale, intriso di sapienza e saggezza, che affondano le radici in civiltà solo da poco, e in parte, recuperate. In ogni lirica si avverte impercettibile il profumo delle spezie, che, col loro etereo avvincente alone, avvolgono l’anima e la sollevano verso un’atmosfera rarefatta; e, nella penombra d’una parola appena sussurrata, rivela il mistero della poesia e di quanto questa si pone come interprete e ne diviene portavoce. Per avere una pallida idea del complesso mondo interiore del poeta, è necessario tener presente la complessità della sua formazione sia umana che spirituale. Orientale di origine, Hafez Haidar ha bevuto personalmente e direttamente alle fonti stesse di quelle culture, che costituiscono le radici della nostra società. Pochi, forse, oggi sono coscienti di quanto la cultura occidentale, con la mediazione dei Greci, sia debitrice di quelle civiltà e culture fiorite millenni addietro nella Mezzaluna fertile.
Da quel mondo tanto lontano, eppure così vicino, il poeta attinge il messaggio, che, secoli fa, quando l’Impero Romano era all’apice della sua potenza e grandezza, con valori nuovi ha plasmato l’uomo e dato un avvio diverso, una sterzata decisiva alla società. Il nuovo Messaggio, fondato sull’Amore, ha inaugurato una nuova e feconda stagione, che ancora non conosce tramonto, ma solo qualche lieve e breve offuscamento, dovuto alla cecità e alla cupidigia dell’uomo, alla sua sfrenata sete di potere e, soprattutto, al suo egoismo. In tutta la breve raccolta Hafez ritorna con insistenza e profonda convinzione all’antropocentrismo cristiano, il quale ha un solo superiore, cui tende le orecchie: Dio, il Padre, il Creatore. Questi, nella sua infinita bontà, impartisce all’uomo, come si legge in Marco 12,31, un solo precetto: «Amerai il prossimo tuo come te stesso. Non c'è altro comandamento più importante di questo».
L’uomo, in virtù del battesimo, vive in pieno la duplice dimensione: divina nel rapporto filiale col Padre e umana nel rapporto fraterno con i suoi simili, perché creati dallo stesso Padre, anche se sono diversi per colore, lingua, religione e nazionalità. Sostenuto da questa convinzione, Haidar vede l’uomo solo nella sua sostanza e nella sua bidimensionalità e, volutamente, lo spoglia di quegli accidenti, in nome dei quali commette, fin troppo spesso, brutalità e crimini indegni del suo essere figlio del Padre, che inculca solo Amore. Haidar si pone, oggi, come nuovo Diogene, che va in cerca dell’Uomo, smarrito nei meandri del mondo costruito sulla frivolezza, sull’odio, sui rancori e, peggio, su una pretesa superiorità. Nel tessuto dei moderni centri urbani, a differenza di qualche tempo fa, non molto remoto, serpeggia la diffidenza, il malumore, il timore, l’odio verso l’altro. Oggi, alla luce dei testi sacri, ogni battezzato deve cercare l’Uomo con gli occhi del rinnovamento operato dal mistero della comunità ecclesiale. Di tale mistero, però, a uno sguardo più attento, si è perduto tutto, soprattutto il senso della nuova humanitas, fondato sull’amore reciproco e l’apertura incondizionata verso quanto viene non solo dall’esterno, ma soprattutto dall’alto. Il messaggio è uno e lo stesso: è, come dice Orazio, alius et idem.
Nel mondo orientale, fin dai secoli più remoti, la figura del maestro, persona saggia, affidabile e rispettabile, rivestiva un ruolo di primaria importanza. Questa figura, spoglia di ogni incrostazione temporale, si trova nella prima parte del volume e, come Cristo, del quale calca le orme e ripete gli insegnamenti, impartisce lezioni di vita, ancora attuali e vitali. Questi insegnamenti, nella loro essenza più immediata e plastica, si concretizzano nella preghiera e nell’amore. Oggi, in preda a una vita frenetica, l’Uomo non ha più tempo per pregare, per rivolgere al suo Creatore un pensiero di ringraziamento. E pure in sé sente urgente questo impellente bisogno dell’anima, soprattutto in alcuni momenti della giornata e della vita. Nella cieca rincorsa delle chimere, l’Uomo dimentica di essere ens naturaliter religiosus e rinnega in ogni istante della vita la dipendenza dall’Altro per rivolgersi ad altro, nella vana speranza di appagare con la miseria della pereunte caducità la sua sete del divino e del soprannaturale.
Haidar, per veicolare un messaggio così importante per la vita dell’uomo, pur avendo sotto gli occhi il vangelo, mette in bocca a Maria, una delle tante seguaci del Maestro, una donna qualunque, queste semplici parole: «Maestro, prima di far salpare la tua nave, ti prego, insegnaci a pregare!». La presenza del vangelo è più che ovvia: nel vangelo di Luca 11,1-2, infatti, si legge: «Gesù si trovava in un luogo a pregare; quando ebbe finito, uno dei discepoli gli disse: “Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli”». Il Maestro nel vangelo insegna il Padre nostro, il poeta, senza alcun preambolo, invita l’uomo al raccoglimento e alla preghiera con semplici, ma efficaci parole:
Prega in silenzio
Nel tempio del tuo cuore,
Dove la tua anima e il tuo spirito
Volteggiano nello spazio sconfinato
Del tuo corpo
Ardente d’amore.
Da una richiesta apparentemente banale e senza senso il poeta spicca il volo verso un orizzonte inesplorato e luminoso con immagini e, in modo particolare, un ritmo, che, nella loro semplicità, trasportano immediatamente il lettore nel vasto orizzonte dell’infinito. E, pur chiuso nell’interno del proprio cuore, nel suo tempio, il sancta sanctorum di ogni battezzato, senza mediazione alcuna l’uomo incontra il divino e trova sé stesso.
In questa sentita e umana parenesi il poeta riassume in modo magistrale quanto l’evangelista Matteo, 6,5-6, mette in bocca a Gesù: «Quando pregate, non siate simili agli ipocriti, che nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, amano pregare stando ritti, per essere visti dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Invece, quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà». Ma, perché ciò possa avvenire, secondo gli insegnamenti dell’ascetismo, presente in tutte le religioni, l’uomo ha bisogno del silenzio, che, nel vangelo, per lo più, è rappresentato dal luogo solitario, dal deserto, dalla montagna. Ma il poeta, acuto interprete delle Scritture, pone il silenzio all’interno dell’uomo, nel tempio del suo cuore.
Quando l’uomo, lontano dal frastuono del mondo che lo circonda, entra nel suo tempio e rivolge la mente al divino, trova la sua vera dimensione, perché quando prega, attimo dopo attimo, si avvicina sempre più al Signore, fino a identificarsi con lui. All’uomo di oggi, travolto da impegni e preoccupazioni spesso inutili, sembra che sia negato il tempo per pregare e pensare soprattutto a sé stesso. Pur uscire da questo labirinto, nel quale si aggroviglia sempre più, basta tener presente ciò che Seneca scrive al suo allievo Lucilio: vendica te tibi, prendi pieno possesso di te, non permettere che altri ti usino e ti distolgano dal fine verso il quale devi tendere. Quando l’uomo riesce ad essere pienamente padrone di sé, a controllare e amministrare il suo tempo, trova anche il tempo per incontrare il Padre, che lo aspetta a braccia aperte. A questo punto prende la parola il poeta, il quale così esorta l’uomo ormai libero:
Prega,
Spalanca le porte del tuo cuore
Al sole, alla luna e alle stelle.
Sei luce nella luce,
Sei spazio nello spazio,
Sei il frutto dell’amore.
La breve pericope si commenta da sé con immagini di pretto sapore orientale, disseminate con grazia nel ferreo controllo del ritmo e nella successione dei versi, nell’accurata scelta dei singoli lessemi. Il poeta opera un sapiente intreccio tra luce e spazio, tra realtà temporale e metatemporale e incentra il tutto su due perni fondamentali, costituiti dall’apertura del cuore con la preghiera e dall’amore. Al lettore attento non sfugge l’influenza esercitata da Dante sulla bella creazione poetica. Per il Sommo Poeta Dio è luce e irradia di luce tutti gli uomini, che, con la purezza di cuore e con la sincerità della preghiera si accostano a Lui.
Su questa lirica si potrebbe parlare ancora molto; ma, per non tediare il lettore, preferisco passare alla seconda poesia, incentrata sull’amore. Anche in questo caso, alla semplice domanda: «E un giovane innamorato domandò: “Spiegaci che cos’è l’amore!”» il Maestro impartisce insegnamenti di particolare importanza, soprattutto nel nostro tempo, nel quale, come sembra, si è perduto il vero concetto di amore, frainteso e sostituito solo e unicamente dall’appagamento dei sensi. Con amore i più, oggi, intendono la sfrenatezza sessuale, i facili approcci, il piacere fisico. Questo, se bene inteso e incanalato, può essere un aspetto né secondario né vituperabile dell’amore.
Come nella lirica precedente, anche in questa il poeta con un breve brano in prosa, che giustifica e, per così dire, anticipa la poesia, spiega i motivi contingenti della composizione. Con questo sapiente artificio il poeta si accattiva dapprima la mente del lettore e, successivamente, desta in lui l’interesse verso la lirica. Le sue parole risultano tanto più vere e autorevoli quanto più importante è il personaggio che le pronuncia. Anche qui è il Maestro, che dice esattamente come, oggi, bisogna intendere l’amore. Oggi, molto più che nei tempi passati, si parla di amore, che viene proposto e decantato sotto molteplici aspetti, vissuto nella sua dolcezza e nella sua drammaticità, nel suo calore e nella sua freddezza. Ma qual è il verso senso dell’amore alla gran parte sfugge, perché immensa è la sua ampiezza semantica. Per cui il poeta si spoglia delle nozioni della filologia e della filosofia e pone sulla bocca del maestro poche, semplici parole, dettate dall’esperienza:
Quando l’amore bussa alla porta del tuo cuore
E senti il tuo corpo tremare
Come una foglia autunnale
In balìa alle passioni
E il tuo cuore ardentemente palpitare
E non riesci a trattenere le emozioni
Né a frenare i sentimenti
Né a chiudere gli occhi,
Al calare della notte
Lasciati trasportare
Sulle ali dell’amore
In un mondo fatato
Dove non esistono leggi.
Nel leggere questa breve e intensa pericope, sembra sentire Sant’Agostino, quando dice: Dilige et quod vis fac, ama e fa’ quello che vuoi. Haidar, al quale non sono ignote né le Scritture né le opere dei Padri della Chiesa, ricalca molto da vicino ciò che l’evangelista Giovanni insegna nella prima lettera. Il verso dove non esistono leggi, come il sintagma agostiniano appena riferito, potrebbe essere inteso in modo erroneo, nel senso che l’amore, per la libertà che concede, potrebbe dare adito alla violenza, alla sopraffazione della persona amata. Come nell’apoftegma agostiniano fac è in diretto rapporto a dilige, così l’espressione di Haidar è in precisa rispondenza e conclusione dei versi precedenti, nei quali, mediante una serie incalzante di asseverazioni, una conseguenza e presupposto dell’altra, la mancanza di leggi vincolanti o impedienti permette a chi ama di non trovare nell’amore ostacolo alcuno per la piena e perfetta realizzazione.
L’amore, che il Maestro propone alla riflessione del richiedente, è insito nell’insegnamento evangelico: San Giovanni, infatti, definisce Dio caritas, amore senza ricambio, disinteressato, perché per amore ha creato l’uomo e con amore infinito lo ha redento dal peccato. Il poeta in questo caso ripete e interpreta liberamente ciò che Gesù stesso, Giovanni 14,21, ha detto: «Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama» e poco dopo, in 14,23, afferma: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola». Lungi da un’esegesi teologica dello scritto, la lirica di Haidar permette di osservare la presenza, ancora viva e attuale, del profetismo. Chiunque ama nel vero senso voluto dalla natura diviene annunciatore e propugnatore della Verità, nella quale affonda le radici l’amore.
Con questi insegnamenti universali Haidar è il profeta dell’amore, della fratellanza, dell’accoglienza. Alla luce di questa realtà, le parole del nuovo profeta sembrano spirate dal vento del deserto, dal sussurro d’una foresta di cedri nel lussureggiante paesaggio del misterioso Oriente. Nei versi, infatti, aleggia la leggerezza e la delicatezza della più bella e sentita poesia araba, che tanto ha dato alla formazione della lingua poetica italiana e presente nella corte di Federico II, in Sicilia. Il poeta, con finezza e sensibilità, coniuga due culture che tendono al medesimo fine: all’Amore. L’amore per il poeta, e come in realtà è, non è rivolto verso sé stesso, ma verso un altro, diverso da sé. E qui, richiamando alla mente le sollecitazioni suscitate dalla lettura di Saffo 2D e LI di Catullo, il poeta per il tramite del Maestro non esita a dire:
E quando senti il tuo corpo scottare di calore
E fremere bagnato di sudore,
Dimentica tutto,
Dove sei nato e dove sei cresciuto.
Stringi il suo corpo al tuo corpo
E naviga a lungo
Nell’orbita dell’amore.
L’amore non è solo un istinto. Questo stato di natura, insito in tutte le creature, nobilitato dalla razionalità e dalla consapevolezza verso l’oggetto, cui tende, rende l’uomo diverso dalle altre creature. Seguendo da vicino il Cantico dei cantici, un vero capolavoro della poesia erotica orientale, il poeta vela il carme d’una sottile e impercettibile sensualità, che, con la sua sfumata presenza, desta nel lettore quegli impercettibili impulsi, destinati a fondere in un unico essere due corpi diversi e a dar vita a un particolare stato dell’animo. Il vero amore, come dice l’antico poeta, non conosce confini, non guarda dell’amato né il colore della pelle, né la terra di appartenenza, perché, nella sua grandezza e unicità, è universale.
Il monito del poeta dimentica tutto, / dove sei nato e dove sei cresciuto è attuale oggi più di qualche lustro addietro: l’uomo attuale, infatti, ha dimenticato che i confini, che chiudono un territorio e separano gli uomini, non sono imposti dalla Natura, ma sono stati creati dall’uomo, per allontanare il vicino. I confini, inoltre, come il concetto di razza, sono categorie umane, che possono anche essere abolite senza che l’umanità se ne accorga o ne soffra. Su queste due categorie, falsamente intese e propalate come verità assolute, da parte di non pochi ciurmatori si continua a innescare odio, a seminare paura. L’uomo non avvezzo al ragionamento si chiude in sé stesso e si considera, a torto, la parte migliore dell’Umanità.
A questo punto i riferimenti con la lirica precedente sono innegabili, perché preghiera e amore, due concetti universali, non si escludono, ma si integrano a vicenda. Come il sole brilla su tutti senza badare né alla latitudine né al colore della pelle dell’Uomo, così la preghiera, rivolta a Dio, che è luce per antonomasia, sale identica da ogni angolo della Terra e l’Uomo, inondato di luce divina, ama senza distinzioni. Sarebbe bello e interessante poter esaminare anche altre liriche del volume. Ma ho cercato di scrivere quanto il poeta intende trasmettere all’uomo, che cerca di vivere coscientemente la sua avventura terrena, perché sotto l’egida dell’amore e della preghiera si senta unito a tutti gli altri uomini, qualunque sia la religione, il luogo di provenienza e il colore della pelle.
*Orazio Antonio Bologna è nato nel 1946 a Pago Veiano (Benevento, vive e risiede a Roma. Laurea in Lettere classiche conseguita nel 1975 presso l’Università Federico II di Napoli, si è iscritto al Pontificium Institutum Altioris Litinitatis presso la Pontificia Università Salesiana dove, nel 1978, ha conseguito magna cum laude la Licenza in Lettere cristiane classiche. Dal 1975 al 1986 ha insegnato lingua e letteratura latina e greca in istituti superiori e poi Composizione latina e Metrica latina e greca presso l’Università Pontificia Salesiana. Attualmente è professore emerito di Composizione latina e Letteratura latina presso l’Università Pontificia Salesiana di Roma. Vicedirettore scientifico della rivista Collectanea Philologica dell’Università Statale di Łódź (Polonia), è autore, tra le altre pubblicazioni, dei volumi Archiloco (A. Lalli, 1975); Manfredi: tra scomunica e redenzione (Sentieri meridiani, 2010); Manfredi di Svevia. Impero e Papato nella concezione di Dante (LAS, 2013). Ha inoltre curato l’edizione dell’opera di Giovanni Pietro Arrivabene Ad Sanctum Dominum nostrum Pium Papam II (IF press, 2014).