Proscenio, Dario Postiglione parla di Mummy “commedia lynchiana”. L'intervista di Fattitaliani

Dario Postiglione è l'autore di "Mummy" spettacolo in scena dal 16 al 18 dicembre al Teatro de’ Servi, nell’ambito della Stagione Fuoriclasse dedicata alla drammaturgia contemporanea, con la regia di Renato Civello. Fattitaliani lo ha intervistato per la rubrica Proscenio.

"Mummy" in che cosa si contraddistingue rispetto ad altri suoi testi?
“Mummy” è il primo testo che scrivo su commissione, su invito del regista Renato Civello. Parte dalla suggestione di un breve atto unico di Ayckbourn ma reinventandone radicalmente i personaggi, il contesto, il senso e il registro. Per me è stata una sfida nuova: scrivere all’interno di una griglia preesistente ma entro cui avevo una grande libertà. Rispetto ad altri miei testi è un lavoro molto compatto, che tira dritto al fine come un meccanismo a orologeria. Sembra ripercorrere la commedia borghese con punte di assurdo e grottesco, ma progressivamente si altera fino a svelare il suo cuore nero. Mi piace pensarla come una “commedia lynchiana”.   
Quale linea di continuità, invece, porta avanti (se c'è)?
Una prima continuità è nel processo compositivo: quando scrivo, non posso fare a meno di far agire più livelli di senso. Tutti gli elementi della drammaturgia, anche i dettagli della scena e le battute più funzionali, tendono almeno a un doppio significato. La realtà che rappresento non è mai trasparente, è sempre opaca o cifrata. In secondo luogo, più scrivo e più mi rendo conto di alcune ossessioni, o temi, che tornano nei miei testi: la casualità del male, l’angoscia per il futuro, i paradossi etici di un tempo sempre più confuso, l’ambiguità costitutiva dei legami. Il mondo ipermoderno come una macchina schizofrenica, che elabora forme sempre più bizzarre e efficienti di alienazione.      
Com'è avvenuto il suo primo approccio al teatro? Racconti...
Frequento il teatro fin da piccolo grazie a mio fratello maggiore, che è attore e regista teatrale. Mi ha sempre affascinato la natura dei testi teatrali, la loro consistenza vocale e corporea, la virtualità delle parole. Ma è stato solo di recente che ho deciso di entrarci in prima persona, frequentando un master in drammaturgia alla Silvio d’Amico. 
Quando scrive un testo nuovo può capitare che i volti dei personaggi prendano man mano la fisionomia di attrici e attori precisi?
Certo, nei casi in cui il testo non è scritto a priori, ma concertato per un progetto di messa in scena. La parlata, la fisionomia e la dinamica di un attore offrono molte possibilità per la costruzione di un personaggio. A teatro i personaggi sono corpo e voce individuati, questo è sia un limite che una risorsa per la scrittura.  
Per un autore teatrale qual è il più grande timore quando la regia è firmata da un'altra persona?
Probabilmente il più grande timore è che alcune battute chiave, alcune escursioni termiche del testo siano travisati, e che il senso complessivo venga tradito o semplificato. All’inverso, è sorprendente invece quando un regista o un attore riescono a fare proprio il testo e offrono soluzioni inattese che lo potenziano. 
Quanto è d'accordo con la seguente citazione e perché: "A volte è solo uscendo di scena che si può capire quale ruolo si è svolto" di Stanislaw Jerzy Lec?
Non ho esperienza da attore, ma quando seguo le prove di un mio lavoro mi sforzo quanto più possibile di mantenere una distanza. In ogni processo creativo è fondamentale saper uscire e entrare dalla materia che si manipola. Anche nella scrittura, spesso capisco la vera posta in gioco quando esco di scena come autore. E capita anche che impari a conoscermi meglio nella vita.
Il suo aforisma preferito sul teatro... o uno suo personale...
Non ho un aforisma preferito e gli aforismi mi insospettiscono sempre. Ora però mi viene in mente questa frase del regista e drammaturgo Wajdi Mouawad, che descrive la sua prima esperienza di scrittura: “le parole diventavano cartucce; le frasi caricatori; gli attori mitragliatrici; e il teatro giardino”. 
Assiste sempre alla prima assoluta di un suo lavoro ? 
Sì, sono troppo curioso di vedere come andrà; talvolta quando si va in scena si liberano energie prima impensate. E credo sia importante anche per chi è lì sul palco a combattere col tuo testo, sapere che ci sei. Stare col fiato sul collo. 
L'ultimo spettacolo visto a teatro? 
Preferisco parlare dell’ultimo che mi ha aperto nuove prospettive. Si tratta di “All inclusive” di Julian Hetzel, portato in scena alla Biennale Teatro quest’estate. In sintesi, una finta visita in una galleria d’arte contemporanea. Le opere sono rielaborazioni estetiche di frammenti, scatti e scenari di guerra dal Medioriente. La guida espone tutto l’armamentario retorico della critica per legittimare le installazioni, che di quadro in quadro si fanno sempre più eticamente discutibili. Fino a un finale violento e corrosivo. Intelligentissimo e perturbante. 
Degli attori del passato chi vorrebbe come protagonisti ideali di un suo spettacolo? 
Non ho un particolare feticismo per gli attori del passato. Certo, sarebbe stato magnifico collaborare alla creazione di uno spettacolo con un attore-autore, di quelli con cui ci si scontra, che si portano dietro un mondo intellettuale e poetico. Tipo Carmelo Bene, o - di un passato relativo, che è ancora presente - Danio Manfredini.  
Il miglior testo teatrale in assoluto qual è per lei?
Domanda impossibile, non credo esista un “miglior testo teatrale in assoluto”. Posso rispondere col testo che mi è più caro, Il Gabbiano di Cechov. 
La migliore critica che vorrebbe ricevere?
“Mi ha turbato seriamente”.
La peggiore critica che non vorrebbe mai ricevere?
“Appena esci da teatro te ne sai già dimenticato”. 
C'è un passaggio, una scena che potrebbe sintetizzare in sé il significato e la storia di "Mummy"?
Provo a evitare gli “spoiler”. C’è un momento in cui l’euforia delirante della protagonista s’incrina e lei supplica i due visitatori di non lasciare solo il suo bambino. È una crepa che fa trapelare il nocciolo del dramma. Giovanni Zambito.
LO SPETTACOLO
Lo spettacolo nato nel 2015 in occasione del “Festival Contaminazioni” organizzato dall’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico” e tratto da “Figura Materna” di A. Ayckbourn , è stato ampliato e riscritto totalmente.
Marial Bajma Riva, Caterina Bonanni, Renato Civello, Fabrizio Milano sono, dunque, i protagonisti di un testo completamente inedito, ispirato al genere tragicomico e ambientato in un mondo surreale, ma nonostante tutto inverosimilmente vicino a noi.
In un appartamento sinistramente asettico, una donna tagliata fuori dal mondo ripete ossessivamente le sue mansioni domestiche, riordina, prepara colazioni per dei bambini di cui si vedono solo le tracce. Quando una coppia irrompe nel suo loop, presentandosi come i nuovi vicini di casa, l’equilibrio s’incrina. La fissazione della donna per l’infanzia ha qualcosa di morboso: i vicini provano ad assecondarla, ma vengono trascinati in un vortice di assurdità e ridicoli malintesi, che vira la comicità verso il grottesco. Ma intanto, segni incongrui invitano a pensare che dietro il velo di un esaurimento piccolo-borghese la realtà sia tutt’altra: da quanto tempo la donna è chiusa in casa? Cosa sanno i vicini? Dove sono i bambini? Perché il tempo sembra fermo come in un carillon? Qualcosa parrebbe indicare che questo non è il nostro mondo, o non lo è del tutto – forse ne è solo il negativo comico e cupo, in cui i concetti di maternità, umanità, ragione e follia sono radicalmente messi in discussione.   
Il distopico mondo in cui vivono i personaggi, è surreale ma tuttavia molto vicino alla nostra quotidianità. In questo grottesco microcosmo ogni elemento ha una doppia faccia, ogni cosa è diversa da come sembra, proprio come la nostra vita. Ed è così che il pubblico viene accompagnato in un onirico viaggio in cui il traguardo nasconde qualcosa di molto più cupo. L’assurda comicità si evolve in grottesco, la spensieratezza in dramma. Ogni personaggio pone importanti quesiti e la tenera signora Lucy è forse vittima di qualcosa più grande e crudele, qualcosa di inimmaginabile che potrebbe non essere poi così lontano dalla realtà, vittima della società stessa, di chi guarda e di chi ascolta, o di chi semplicemente entra in casa per un caffè.
”Lo spettacolo è un circo di emozioni e colori in cui scienza e filosofia si mescolano ponendo importanti dubbi nello spettatore. Cosa è giusto e cosa no? Cosa sono veramente il bene e il male? Tante le domande e tanti i meccanismi che accompagnano i personaggi in cui ognuno di noi si può rispecchiare, personaggi che rendono costante e “ripetitivo” il nostro “essere umani”: senza epoca e senza contesto”- annota il regista Renato Civello.
“Uno degli aspetti che più amo della vita è il doppio: nulla è mai come sembra, c’è sempre un lato diverso in ogni cosa. Nello spettacolo si ride e si piange allo stesso tempo. Si ride attraverso il ridicolo che comincia a delineare e caratterizzare i personaggi, in situazioni inverosimili che non smettono di stupire; si piange amando Lucy, una figura che incarna in qualche modo ogni aspetto dell’umanità.”
 “Mummy” è un vortice di emozioni e sorprese, in cui un linguaggio ricco di diversi “espedienti” e metafore la fa da padrone. La follia nel frattempo è ovunque nel meccanismo “futuristico” in cui ha luogo la vicenda, ogni tassello è al punto giusto in una perfetta “piramide” più grande di noi. Basta togliere un mattone per far crollare un mondo, basta cambiare un dettaglio per modificare un intero punto di vista.
DARIO POSTIGLIONE
Dario Postiglione si è formato alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Dopo un dottorato e un periodo d’insegnamento all’università, ha frequentato il master in Drammaturgia e sceneggiatura dell’Accademia d'Arte Drammatica Silvio D’Amico e da poco più di un anno scrive per il teatro. È stato finalista del Bando Autori under 40 della Biennale College Teatro di Venezia 2018-2019. È autore e dramaturg del collettivo BEstand. Per la stagione 2019-2020 ha in programma spettacoli prodotti da Casa del Contemporaneo e dal Teatro Stabile di Napoli. Vive a Roma. 

Fattitaliani

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