Una tv italiana realizza un programma per cercare gli ‘italiani
puri’ partendo dalla scelta di piatti. Il risultato? Supponenza, arroganza e
scarsa conoscenza. di Letizia
Airos Soria *
Non sono riuscita a guardarlo tutto. Probabilmente non capiterà la
stessa cosa ad altri. Soprattutto in Italia. Tutto sommato New York tira ancora, qualsiasi cosa si racconti di lei. Ma i miei
25 anni negli Stati Uniti si ribellano, chiedono giustizia, si indignano. Parlo
di quel programma italiano dove un ristoratore diventa il conduttore, si auto proclama ‘guru del gusto italiano’ e
quindi della cultura culinaria italiana Il format non ha niente di
nuovo. Si tratta di una di quelle gare, ormai trite e ritrite, che vengono proposte
in maniera insistente negli ultimi anni. Lo scopo apparente è quello di
assegnare il premio/titolo al miglior ristorante italiano nel mondo fuori
dall’Italia. Lo scopo vero, forse, è semplicemente quello di seguire quel
filone che comunica urlando, provocando, usando male i social, senza troppa
fatica. Basta andare su YouTube e vedere con che volgarità viene poi commentata
una concorrente, Rossella Rago. Questo solo perché colpevole di aver portato
all'attenzione un piatto italo-americano. Questo il format. Tre
concorrenti e anche giudici, scelti sul luogo, si sfidano in ogni puntata,
accompagnando il conduttore nel ristorante preferito. Così mangiando
commentano, si raccontano, votano i piatti. La puntata di cui vi voglio parlare
è la prima (ma immagino non sarà l’ultima) girata a New York. Sono fuori Manhattan. Impossibile quindi non
affrontare il tema della cucina italo-americana. Dico affrontare e non usarlo
per i propri scopi, come accade nel programma di cui vi parlo.
Il tono di superiorità, paternalistico, da grande sapiente ma neanche
tanto professionale e quindi non convincente, del conduttore, non promette bene
fin dalle prime battute della puntata. Non è proprio simpatico. Tanto meno
autorevole. Il ristoratore e ‘guru autoeletto’ cerca, in qualche modo, di
copiare l’atteggiamento degli chef di Masterchef, ma proprio non lo sa
indossare. E’ lui il portavoce e il
rappresentante di una sorta di autenticità dei piatti, dunque, secondo lui, di
italianità. Lo fa con atteggiamento di superiorità incalzante e banale.
Dunque tutto gira intorno al voto sull’italianità che viene dato ai
ristoranti, ma anche agli stessi giudici. Voto su quella che il guru-conduttore
del programma ha deciso essere la vera cucina italiana. “La parmigiana, un grande classico. Ma non si possono mettere le
melanzane nel piatto vicino alla pasta!”. “Hai scelto come piatto preferito il pollo al marsala?” Dirà
rimproverando Rossella Rago, giovane
italo americana. Lei risponde con la grinta di chi sa cosa vuol dire vivere le
proprie radici lontana dall'Italia, risponde con il cuore: “L’ho scelto perché racconta la storia
italo-americana”.
Prendersela solo con il conduttore certo è sbagliato. Nella scrittura
di questo programma ci sono veramente dei problemi se le domande che si fanno
per giudicare se si è veramente italiani sono del tipo: “Chi conduce la trasmissione Amici? Non lo sai, ma è una famosissima
star italiana! Dunque non sei abbastanza italiana!". Il tono generale
dunque è quasi sprezzante e, in un certo senso, razzista. C'è grande superficialità, per esprimermi in
maniera gentile, ma andrebbe detto grande ignoranza.
Lo so, non tutti hanno vissuto 25 anni a New York, non tutti hanno al proprio attivo un periodo di
collaborazione intensa all'interno del John D.
Calandra Italian American Institute. Ho avuto la fortuna di approcciare la cultura
italo-americana. Per questo devo ringraziare il Dean Anthony Tamburri, lo studioso di tradizioni popolari, Joseph Sciorra e molti altri. Ho ancora
tanto da imparare, tantissimo. Ci vuole umiltà quando si entra in un mondo non
nostro. Mi sono stupita tante volte, ho riflettutto sulla mia stessa italianità,
e per questo arricchita.
La diaspora italiana è qualcosa di molto delicato, sempre così poco
conosciuta, ha a che fare con l’identità ed un rapporto molto complesso con le
proprie radici che molti, per una sorta di integrazione forzata, hanno dovuto
nascondere. Nella cucina, spesso era celato il desiderio inconscio di essere
ancora legati a quelle radici. Sarebbe dunque, secondo me, opportuno che le TV
che, mettono in mano ai loro scrittori tematiche delicate, provassero a
chiedere consulenze, se non a studiare direttamente. In ogni caso facessero un
semplice esercizio di umiltà.
Esiste poi un’etica nella comunicazione, anche se mi rendo conto che
il confine tra onesta informazione, poi
comunicazione e spettacolo, ormai la televisione, non solo italiana, lo ha
confuso da tempo. Sono comunque tematiche delicate. Non riguardano solo un
piatto di meatballs o di fettuccine
Alfredo, ma tutta la cultura della nostra Italia fuori dall’Italia.
Indirettamente direi tutte le culture.
L’immagine dell’italianità all’estero ormai è schizofrenica. Usata
quando serve, fraintesa, piena di stereotipi. Che si tratti dei così detti
expat di oggi, che si tratti degli italo-americani di diverse generazioni fa,
che si tratti dei giovanissimi di origine italiana, dunque oggi americani. Non
è questo l'articolo dove argomentare e spiegare la storia, il valore della
cucina americana, e neanche per cercare le differenze con quella che oggi
sarebbe l’alta cucina italiana. Non è neanche il luogo per schierarsi da una
parte o dall’altra, come se si trattasse di due squadre di calcio.
A chiedere giustizia dovrebbe invece essere non solo la cultura
culinaria italo-americana, studiata a fondo, anche da accademici italiani e non
solo americani. A chiedere giustizia
dovrebbe essere la stessa cucina popolare italiana, inconfutabilmente
all’origine della cucina italo-americana. Era una cucina non povera,
poverissima, visto che gli autentici ingredienti italiani non esistevano in
America. La cucina delle donne di allora che si adattavano, parlando spesso
solo il dialetto, ad un mondo nuovo. Si doveva sfamare una famiglia, cercando
di ricordare i piatti di origine, mangiando insieme, magari in un basement.
Conteneva sicuramente tanta italianità, quel senso di appartenenza che
molti in Italia non sanno cosa sia. Un'italianità che raggiungeva e raggiunge
il suo culmine a Natale, quando si festeggia in ricchezza, mettendo in tavola
ben 7 pesci. Un rito che stupisce molto noi italiani che vivono in Italia. E
ricordo con tenerezza, poi, gli occhi illuminati di mia madre, di origine
siciliana. Era emozionata, ferma davanti ad una vetrina di Boston, nel corso di un viaggio per venirmi a trovare. In una
pasticceria, i dolci erano confezionati nello stesso modo in cui, lei
ricordava, veniva fatto a Caltanissetta,
quando era bambina!
Dunque la cucina italo-americana, nata da un esercizio di memoria ed
adattamento alla cucina locale, ha poi cercato certo la sua strada, una strada
più che dignitosa. Oggi raccoglie un vero patrimonio culturale da preservare.
Da questo lato dell’oceano, dopo aver lavorato da anni come giornalista sul
concetto di mediazione culturale, con i-Italy,
e fondato la società di comunicazione Your
Italian Hub (http://iitaly.org/magazine/focus-in-italiano/fatti-e-storie/article/nasce-your-italian-hub-la-nuova-comunicazione) che nella mediazione culturale ha il suo punto
di forza, provo a concludere con delle mie mie riflessioni.
Il tono paternalistico e autoreferenziale di questo programma è forse
la chiave per capire dove e come si sbaglia. E’ un errore che possono fare
tutti. Non solo gli italiani, ma tutti quando si trincerano dietro certezze,
senza studiare. Il mondo cambia ogni microsecondo, i giovani non riescono
neanche a toccarlo il presente, figurati il passato! La risposta ad un
programma così credo sia in un atteggiamento aperto, anche se con un certo
scandalo, che guardi alle ragioni degli
errori degli altri. C’è molto di più di un ‘attacco’ alla cucina
italo-americana in una puntata così.
E' una riflessione che deve essere fatta con attenzione, in una sorta
di ping pong culturale che aiuti le diverse Italie a conoscersi. E vi lascio
con due considerazioni non mie. Da un articolo sulla Voce di New
York del professor Stefano Albertini, italianissimo come me, direttore della Casa Italiana
Zerilli Marimò. (NYU) Scrive:
“L’idea subdola che sembra far passare il programma è che gli italiani
che emigrano, diventano in qualche misura, meno italiani, italiani di serie B a
cui gli italiani-italiani devono costantemente insegnare cosa vuol dire essere
italiani, cominciando con l’eliminare gli spaghetti con le polpettine. E io,
apposta, me li mangio e me li godo, perché altri emigrati italiani, come me e
prima di me, hanno combinato l’elemento base della loro dieta con la carne che
qui in America si trovava a prezzi accessibili. Paisà, non preoccupatevi: siamo
italiani almeno quanto i fighetti che mangiano il branzino al sale.”
Da una mia intervista a Mauro Porcini, Chief Design Officer di PepsiCo, anche lui italianissimo. Gli avevo chiesto gli errori, che secondo lui, di solito fanno
gli italiani nell’approcciare la cultura americana.
"Viviamo in tempi molto complessi, dobbiamo imparare a dialogare
con tutte le altre realtà. Dobbiamo capire che noi non abbiamo qualcosa che gli
altri non hanno, che è necessariamente migliore. Occorre meno arroganza e
maggiore rispetto"
Perché partendo da un piatto di meatballs si può parlare di molto
altro...
Un chiarimento finale. Questo articolo è stato scritto da una persona
che sa perfettamente cosa sia il 'Made in Italy 'e quanto sia importante farlo
conoscere nel mondo. Però lontano da me il pensare che la cucina
italo-americana, ma anche altre, possano
inquinare. Inquinare cosa?
* direttore responsabile del network i-Italy.org