di Andrea Giostra. «La scrittura come
mezzo di conoscenza ha per me il suo punto di partenza nell'incomunicabile e
nella sofferenza che ne comporta, un incomunicabile che è disagio e che per
questo viene sondato e portato alla luce»
Ciao Chiara, benvenuta e grazie per
la tua disponibilità. Come ti vuoi presentare ai nostri lettori?
Le presentazioni mi sono risultate
sempre difficili, non so mai cosa dire di me perché mi sperimento in tante cose
e sono sempre convinta di non dare mai abbastanza. Di una cosa poi sono certa:
noi non sappiamo mai chi siamo, sappiamo solo quello che facciamo. Ecco perché secondo
me rimane giusto il dannunziano “Memento audere semper”: bisogna sempre
ricordarsi di osare, non rinunciare mai; da troppo tempo non osavo la
pubblicazione e per me - che poi in realtà mi sento molto timida e pigra - è
una prova. Credo di aver vinto tante paure grazie a questo.
Chi è Chiara nella sua passione per
l’arte della scrittura?
Credo di trovare espressione
autentica proprio nell'arte. Ho sempre amato la letteratura, la pittura, la
fotografia, la musica, l'arte in genere e ne sono una buona – anche se non
esperta -fruitrice. Ho imparato a leggere prestissimo e sono stata sempre
affamata di sapere e curiosa di esperienze; la vita ha percorsi più tortuosi
della letteratura e della fantasia e spesso sono stata delusa dalla fame di
comunicazione e scambio umano. Il mondo poi ti suggerisce spesso un ruolo fisso
e io sono a questo un po’ refrattaria. Cosa meglio del teatro per aver
occasione di esprimere quello che la quotidianità non ti permetterebbe di fare.
La scena ci permette di dare espressione a quella tanta parte di noi che rimane
sommersa, ci permette di dare sfogo alla fantasia e di sentire e trovare, con
l'anima e con i sensi, luoghi inesplorati e non visibili neanche a noi stessi; entrare
nei panni di un altro ci rende al contempo più riflessivi, più attenti ai tempi
del compagno di scena, soprattutto ai tempi del gruppo e del pubblico, ci
riporta ad una dimensione più completa - ed empatica, diremmo oggi - di cui io
sento spesso bisogno. La scrittura nasce con me, scrivo da quando ho imparato a
scrivere, è una necessità non troppo esternata, una dimensione molto privata,
intima quando si tratta di poesia. Vivo quasi quotidianamente questa necessità,
specie ultimamente. Ho tanto altro oltre a questa raccolta. Ho avuto il
coraggio di mettermi a nudo aiutata da questa rielaborazione quasi eretica
dell'haiku. Riuscirò a ordinare anche altro, fra cui alcuni racconti
“visionari”.
Qualche settimana fa, nel mese di
settembre 2019, hai pubblicato con la casa editrice Kimerik di Patti (Messina),
una racconta di Haiku dal titolo “Cinquantadue
Settimane e Frammenti dell'Anima”.
Intano ci spieghi cos’è un Haiku?
Gli haiku sono una forma di
poesia che nasce in Giappone, probabilmente nel Diciassettesimo secolo, formati
da tre versi costituiti in totale da 17 more – e non sillabe - secondo lo
schema 5-7-5. Una mora, nella metrica classica, era una unità di misura di
durata simile alla sillaba. Sono componimenti che esprimono
l’armonia/disarmonia con la natura e attraverso essa dicono di chi scrive. Per
questo spesso dell’haiku è da cogliere in non detto. L'haiku è stato amato da
alcuni dei più grandi scrittori del Novecento, da Rainer Maria Rikle a Paul
Eluard, Giuseppe Ungaretti e Salvatore Quasimodo. Negli haiku
ha più peso il non detto, che è comunque espresso, rispetto a quello che viene
detto. Sono componimenti molto codificati, all'interno una parola che potremmo
definire chiave, il kigo, dà precisa indicazione delle stagioni e del momento –
anche se io non obbedisco molto al codice e utilizzo poco correttamente il
kigo, aggiungendo spesso anche la punteggiatura. Sono stati definiti componimenti
dell’anima. Forse è per questo che mi sono avvicinata all'haiku dopo aver letto
Ungaretti. La metrica antica e i frammenti dei lirici greci mi hanno fatto
decidere di dedicarmi da occidentale a questo metro orientale per ritrovare la
mia parte di anima.
Adesso parlaci di questa silloge, qual
è stato il tuo progetto editoriale e di cosa parlano le tue poesie, se possiamo
definirle così? Raccontaci qualcosa su questo libro per incuriosire i nostri
lettori.
Il libro è dedicato
“A tutti coloro che amano.” È la storia di un amore scandita dalle settimane di
un intero anno. La
raccolta è composta di 52 haiku - poco ortodossi - e 22 componimenti aventi lo
stesso metro (5/7/5) che costituiscono una silloge. L’haiku ha la pretesa di
dire in maniera da unire suono, colore e anima, l’universale e insieme il transeunte
in modo semplice ma evocativo. È per tutti. Le 52 settimane di un anno, che ha
inizio in piena estate, scandiscono la storia sentimentale che si snoda nella
silloge complementare Frammenti dell’anima - dove il numero
dell’utopia, 11, è moltiplicato per due. Un confronto fra due mondi e due modi
di sentire che si esplica anche nel diverso modo di intendere, nelle due parti,
il componimento poetico, sebbene identica sia la forma metrica.
Una domanda un po’ difficile Chiara:
perché i lettori di questo magazine dovrebbe comprare e leggere il tuo libro?
Cosa diresti loro per convincerli a comprare e a leggere “Cinquantadue
Settimane e Frammenti dell'Anima”?
Il libro ha in sé molteplici forme:
la forma di questo particolare componimento che è l'haiku, vissuto in maniera eretica
da un’occidentale con animo irruento e per questo meno attenta ai formalismi
codificati dell'haiku; ha poi una seconda forma: il racconto di una storia con
la sua chiusa dopo un sogno vissuto per due. Entrambe queste forme sono analogiche,
procedono cronologicamente e raccontano. Il libro ha però una terza forma
digitale. Può essere inteso come un insieme di momenti che illuminino senza
raccontare, momenti che rassicurino, avvertano o consolino. Una mia amica mi ha
detto che ogni haiku può servire da pensiero positivo per il giorno. Lei apre
il libro a caso e il libro sembra parlarle. Ho trovato lusinghiero ma vero
quest’aspetto.
Stai lavorando ad un nuovo libro?
Cosa puoi anticiparci dei tuoi prossimi progetti editoriali e artistici?
Come dicevo ho già diversi lavori da
consegnare alle stampe. Uno è dedicato a mio figlio, Valerio Stancanelli,
ed è, alla maniera jodorowskiana un insieme di favolette che rispondono
a delle domande “morali “, l'altro è un insieme di racconti visionari, il
viaggio di un’anima attraverso diverse vite, o forse una sola. Sto finendo il
lavoro di limatura in entrambi e si sa che è la parte più faticosa e più lunga.
Qual è stato il tuo percorso
artistico letterario e quale la tua formazione professionale che ti hanno
permesso di avere gli strumenti per scrivere questa raccolta e di realizzare opere
che interessano i tuoi lettori e i tuoi follower?
Ho sempre scritto versi, e letto poesia. Ho
adorato i frammenti dei greci e mi sono tuffata, da adolescente melanconica,
sui versi di Leopardi e poi di Lorca. Passato il feel blue
adolescenziale -grazie anche alla dimensione sociale del teatro - dopo la laurea
con una tesi su Dante, ho continuato le mie letture arrivando fino alla
letteratura orientale. Il mondo del frammento greco rimaneva. Mi sono occupata
di poesia femminile e ho frugato nel mondo antico occidentale e orientale
insieme ad un gruppo femminile nazionale che si occupava di letteratura
femminile. Il libro porta questi segni. È nato nel corso di due anni anche se
le cinquantadue settimane ne segnano solo uno; ha dentro la misura immediata
dell'haiku e la vita interiore del frammento greco della lirica femminile. È un
haiku non convenzionale. Io sono siciliana, non giapponese e da siciliana
(seppur nell'epoca fluida dei social) posso esprimermi. Il mio mondo non può
rispettare un kigo - nel dettaglio - se non in maniera artificiosa. Dell'haiku
sento e respiro il legame con la bellezza della natura e dell'universo, la
necessita del cogliere il particolare universale del quotidiano ma il resto è
non convenzionale e me ne scuso ma sarebbe stata una forma priva d'anima.
«Quando la lettura è per noi l’iniziatrice
le cui magiche chiavi ci aprono al fondo di noi stessi quelle porte che noi non
avremmo mai saputo aprire, allora la sua funzione nella nostra vita è salutare.
Ma diventa pericolosa quando, invece di risvegliarci alla vita individuale
dello spirito, la lettura tende a sostituirsi ad essa, così che la verità non
ci appare più come un ideale che possiamo realizzare solo con il progresso
interiore del nostro pensiero e con lo sforzo del nostro cuore, ma come
qualcosa di materiale, raccolto lfra le pagine dei libri come un miele già
preparato dagli altri e che noi non dobbiamo fare altro che attingere e
degustare poi passivamente, in un perfetto riposo del corpo e dello spirito.» (Marcel Proust, in “Sur la
lecture”, pubblicato su “La Renaissance Latine”, 15 giugno 1905).
Qual è la riflessione che ti porta a fare questa frase di Marcel Proust sul
mondo della lettura e sull’arte dello scrivere?
Mi fai tornare sui banchi di scuola.
Mi sembra la traccia di un tema come si facevano fino alla fine degli anni Novanta,
ma questo mi piace, e anche tanto. Proust si e ci pone un problema a me caro:
l’estetica come valore e come ricerca, non come rifugio. Difficile far
diventare universale il particolare, scendere nell’abisso e risalire sani e più
forti, conoscere comporta questa discesa. È più facile il confortevole mondo
della fantasia sfrenata e allucinata dove i nostri desideri sono soddisfatti,
le nostre sconfitte dimenticate e trasformate in vittorie. La scrittura come
mezzo di conoscenza ha per me il suo punto di partenza nell'incomunicabile e
nella sofferenza che ne comporta, un incomunicabile che è disagio e che per
questo viene sondato e portato alla luce: è questo riflettere su noi e sul
nostro adattarci all’universo che vorrei arrivasse al lettore. Non mi piace
fornire belle vie d'uscita in figure vincenti ed eccezionali. Io sono una come
tanti. Il tempo dei supereroi è finito qualche anno fa, non ci crede più
neanche mio figlio che per anni mi ha dipinta come un supereroe.
«Per scrivere bisogna avere immaginazione.
L’immaginazione non si impara a scuola, te le regala mamma quando ti
concepisce. Non ho fatto nessuna scuola per imparare a scrivere. Ho visto tanti
film e letto tanti libri.» (Luciano
Vincenzoni (Treviso 1926), intervista di Virginia Zullo, 12 aprile 2013,
YouTube, https://www.youtube.com/channel/UCDiENZIA6YUcSdmSOC7JAtg ) Tu cosa ne pensi di queste parole di
Vincenzoni, grandissimo autore di opere cinematografiche del Novecento
italiano?
La fantasia puoi educarla o aiutarla, Munari
insegna. Per il resto io non so. Io so che la parola è una delle possibili
strade e che studiando Aucouturier ho imparato che l’uomo pensa per
storie. Credo però di essere stata fortunata e aver trovato il modo per aiutare
la fantasia ad incanalarsi.
«Non mi preoccupo di cosa sia o meno una poesia, di cosa sia un romanzo.
Li scrivo e basta… i casi sono due: o funzionano o non funzionano. Non sono
preoccupato con: “Questa è una poesia, questo è un romanzo, questa è una
scarpa, questo è un guanto”. Lo butto giù e questo è quanto. Io la penso così.» (Ben Pleasants, The Free Press Symposium:
Conversations with Charles Bukowski, “Los Angeles Free Press”, October
31-November 6, 1975, pp. 14-16.) Sei d’accordo con Bukowski? Tu cosa ne pensi?
Penso che Bukowski avesse ragione. Anche per me
la forma è relativamente importante. Come ti dicevo prima quello che mi
interessa è l’anima, il respiro, il sentimento che sia quando scrivo che quando
leggo – anche quando rileggo me stessa - mi deve arrivare.
«Direi che sono disgustato, o ancor meglio nauseato … C’è in giro un sacco
di poesia accademica. Mi arrivano libri o riviste da studenti che hanno
pochissima energia … non hanno fuoco o pazzia. La gente affabile non crea molto
bene. Questo non si applica soltanto ai giovani. Il poeta, più di tutti, deve
forgiarsi tra le fiamme degli stenti. Troppo latte materno non va bene. Se il
tipo di poesia è buona, io non ne ho vista. La teoria degli stenti e delle
privazioni può essere vecchia, ma è diventata vecchia perché era buona … Il mio
contributo è stato quello di rendere la poesia più libera e più semplificata,
l’ho resa più umana. L’ho resa più facile da seguire per gli altri. Ho
insegnato loro che si può scrivere una poesia allo stesso modo in cui si può
scrivere una lettera, che una poesia può perfino intrattenere, e che non ci
deve essere per forza qualcosa di sacro in essa.» (Intervista di William Childress, Charles Bukowski, “Poetry Now, vol. 1,
n.6, 1974, pp 1, 19, 21.). Tu cosa ne pensi delle parole del grande poeta del
Novecento Bukowski? Qual è la tua opinione in merito? È davvero così la poesia
contemporanea? Disgustosa e nauseabonda perché superficiale e scopiazzata dalle
grandi opere dei secoli scorsi?
Sorrido. Non sono davvero
nessuno per giudicare. Io scrivo e basta ma la borghesissima forma non mi
appartiene. Certa poesia femminile che parla di Leopardi come pensatore e non
come poeta mi inorridisce ma non per la forma stavolta, ma per il contenuto
poco nobile – a dispetto del nome -del giudizio antileopardiano.
Secondo te perché un romanzo, un libro, una raccolta di poesie abbia
successo è più importante la storia (quello che si narra) o come è scritta (il
linguaggio utilizzato più o meno originale e accattivante per chi legge)?
Mi aspettavo questa domanda. Io non credo sia poco importante la forma, tutt'altro.
Credo che però la forma sia il guscio di pirandelliana memoria. Deve vedersi
anche la forma, l’espressione deve essere incanalata ma deve rimanere viva. Se
l’anima e la sua espressione sono un fiume e la sua corrente, la forma deve
riuscire a canalizzare l'anima, a farla arrivare, con la forza della sua
espressione ancora intera, a chi ascolta. Dante oppure Ungaretti, così lontani nel
tempo, sono stati poeti che hanno codificato moltissimo, in modi diversi. La
forma in entrambi è un canale di comunicazione, contiene il non esplicitamente
detto.
Quali sono secondo te le
caratteristiche, le qualità, il talento, che deve possedere chi scrive per
essere definito un vero scrittore, un vero poeta? E perché proprio quelle
qualità?
Vivi la verità e racconta il
necessario. Non appartenere nel narrare neanche a te stessa, non concederti
comodi angoli visuali. Sono queste le cose che ripeto a me stessa. Ognuno poi
sceglie per sé. Non so definire, mi spiace.
Perché secondo te oggi è importante
scrivere, raccontare con la scrittura?
Non io ma Lamberto Maffei, presidente
e accademico dell’Accademia Nazionale dei Lincei e neuropsichiatra, scrive Elogio
della Parola. È importante non perdere la parola e la sua ricchezza.
Sono un patrimonio conservato nella pagina scritta. Oggi stiamo perdendo le
parole.
Chi sono i
tuoi modelli, i tuoi autori preferiti, gli scrittori che hai amato leggere e
che leggi ancora oggi?
I greci, i classici, Saffo, Orazio,
Seneca, Dante - esempio della codificazione poetica significativa e non
solo nel medioevo - Leopardi, Foscolo, Pasolini, Calvino, ma anche Rilke,
Lorca, Borges, Jarry, Queneau, anche quello degli spassosissimi Esercizi
di stile , la Sachs, Celan, Anne Sexton, e poi sopra tutti Pessoa,
in cui a volte mi perdo, e Ungaretti che adoro e che spesso in classe,
quando lo studiamo, faccio ascoltare ad occhi chiusi, stando attenta a darne
corretta lettura.
Gli autori e
i libri che secondo te andrebbero letti assolutamente quali sono? Consiglia ai
nostri lettori almeno tre libri e tre autori.
Insegno
lettere e sicuramente per me la domanda è difficile. Di autori da consigliare
ce ne sono troppi. È importante leggere e studiare. Lo stile si impara
scrivendo, esercitandosi. Ma se proprio devo dare un consiglio direi di leggere
“Poesie esoteriche" e “Il libro dell’Inquietudine” di Pessoa,
la poesia di Rilke e la prosa
asciutta ma magistrale di qualsiasi libro di Sciascia. Cinque anni
fa mi ero unita ad un gruppo di promozione di letteratura femminile e insieme a
Dona Amati, cercavamo di promuovere la
letteratura scritta dalle donne. Credo sia una cosa importante.
Non sono social nel senso
tecnologico e ho lasciato Facebook. Sono per una comunicazione non tecnologica.
Credo talmente in quella frase – non so come tu abbia fatto a saperlo – che sto
studiando per scrivere un saggio sul bello etico, su una bellezza necessaria,
che comunichi e trasmetta dignità, armonia e verità come in alcuni secoli ha
fatto l’arte.
Dove potremo seguirti?
Cosa vuoi dire? Non sono social,
te l'ho detto ma ci proverò, magari adesso mi iscrivo a Instagram! In realtà,
come Pessoa, ho un eteronimo, ma su Facebook Artemis Luts
è un essere virtuale come il social stesso. Provo davvero, chiusa l’intervista
a creare un profilo Instagram e magari una pagina Facebook. Per adesso mi
trovate in libreria e online sulle maggiori piattaforme di vendita libri –
anche Amazon - e sul sito della casa editrice, la Kimerik. Uscirà anche
l'ebook.
Come vuoi concludere questa
chiacchierata? Come vuoi lasciare i nostri lettori?
Vorrei non lasciarli. Spero di poter
pubblicare presto i racconti. Prometto che proverò anche i canali social.
Chiara
Bentivegna
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