di Giuseppe Lalli - L’AQUILA - Poco meno di un mese fa, domenica 25
agosto, organizzata dalla sezione aquilana del CAI e dall’Associazione
San Pietro della Jenca, con la collaborazione di altri gruppi associativi
locali e con il patrocinio del Comune dell’Aquila, si è svolta l’annuale Marcia del Perdono e della Pace,
che ha segnato l’inizio della festa della Perdonanza Celestiniana.
Circa un
centinaio i partecipanti alla partenza, molti tenuti a casa dalle condizioni
del tempo, che si prevedevano assai incerte e che invece si sono mantenute
buone fino alla fine. Chi scrive ha avuto il piacere e l’onore di fungere da
guida storico-artistica lungo tutto il percorso, che ai gioielli dell’arte
della stupenda valle del Raiale
ha aggiunto le antiche e suggestive chiese di San Giustino,
a Paganica, e di Santa
Giusta, a Bazzano.
La carovana, sotto la guida esperta del paganichese Nando
Galletti, simpatico, vigile e a tratti, secondo il bisogno, ringhioso cane
pastore abruzzese, e allietata da tante simpatiche presenze, come quelle di
altri due paganichesi, Raffaele Alloggia, appassionato cultore di storie
del suo paese, e Raffaele Vivio, che, col suo immancabile cappello di
alpino, non ci ha risparmiato esplosivi scoppi di allegria, ha preso le mosse
dalla chiesetta santuario di San
Pietro della Jenca. Il piccolo tempio, risalente al XIII secolo,
caro alla memoria di Giovanni Paolo II, cui è dedicato, fu chiesa
parrocchiale dell’antico omonimo castello. I successivi rimaneggiamenti nel
portale e all’interno non ne hanno snaturato il fascino, ben riscoperto da un
sapiente restauro degli ultimi decenni. La carovana ha fatto la sua prima sosta
nella radura antistante la chiesetta a capanna di San Clemente,
che una consolidata tradizione vuole antichissima e legata alla memoria dei
primi cristiani, tanto da far ipotizzare la sua edificazione sopra una grotta
creduta catacomba dei martiri.
L’occhio esperto nota la forma ogivale dell’elegante
finestrella monolitica che si apre sul muro della piccola abside, carattere
inconfondibile del primo gotico, che al pari dell’ampia finestra esistente
sulla parete sinistra della vicina e sopra citata chiesetta di San Pietro della
Jenca, denuncia la presenza di quella cultura cistercense che fu realtà
dell’intero territorio del Gran Sasso a partire dal Milleduecento. Dopo una
ulteriore breve sosta nel fontanile detto «La
fonte dei tre olmi», nella campagna di Assergi, in prossimità di Grotta
a Male, in una zona di notevole interesse archeologico che nei primi
decenni dello scorso secolo fu oggetto di indagine da parte di Angelo Semeraro,
geniale archeologo dilettante e poeta paganichese, siamo giunti nel borgo di
Assergi, passando attraverso una porta dell’antico castello e costeggiando le
mura bellamente restaurate.
Qui, ad attenderci, sullo sfondo di quella piazza
dal sapore leopardiano, c’era la Chiesa
di Santa Maria Assunta, con la sua luminosa facciata in levigata
cortina a pietra concia, il portale finemente romanico, il leggiadro gotico
rosone e il superbo campanile dalla doppia tessitura muraria. All’interno, dove
un coraggioso restauro dei primi anni ‘70 del Novecento ha riportato alla luce
un delicato pur se a tratti frammentario manto decorativo, si ammirano
affreschi di pregio, databili tra il XIV e il primo XVI secolo, alcuni dei
quali attribuiti a Francesco da Montereale e Saturnino Gatti,
protagonisti di primo piano, insieme a Silvestro dell’Aquila e al grande
Cola dell’Amatrice, del
Rinascimento aquilano. All’interesse del visitatore si offre inoltre la cripta,
con la sua scarna e mistica bellezza, autentico gioiello nel gioiello,
antichissima, parlante il linguaggio misterioso del Medioevo. In essa, a fianco
dell’altarino, poggiata sopra un interessante duecentesco pluteo di pietra e
custodita all’interno di una cassetta di ferro, si scopre l’urna contenente le
ossa di San Franco, ricalcata
sull’opera, gelosamente conservata in altro luogo, di Giacomo di Paolo da
Sulmona. Sull’altro lato, dolcemente adagiata su un cassone di noce che
funge da reliquiario, ecco la statua lignea raffigurante una misteriosa donna
coronata su cui è fiorito attraverso i secoli un’affascinante racconto popolare
(regina del Cielo o regina della Terra?), diretta erede, quanto a stile
scultoreo, della cosiddetta scuola francese “Ile de France”, e che
potrebbe, da sola, giustificare un’intera sala museale.
Subito dopo, abbiamo consumato un’abbondante e
gustosa colazione offerta dall’Associazione
culturale “Insieme per
Assergi” nell’orto attiguo alla casa canonica, con vista sull’amena valle
del Raiale. Altra gradita sosta a Camarda e, come da tradizione,
rinfrescante “cocomerata” curata dalle associazioni culturali “Il Treo”
e “Insieme per Camarda”. A concludere il percorso lungo la valle del
Raiale, con i suoi angoli di incontaminata bellezza, immancabile la visita alla
chiesetta della Madonna d’Appari,
autentica gemma incastonata nella roccia e lambita dalle acque di un
gorgogliante ruscello. Nel cinquecentesco portale principale, la lunetta
raffigura una Madonna col Bambino. Analogo affresco, ma più bello,
compare sul portale laterale, a due passi dal ruscello. A poca distanza, sulla
stessa parete, si scopre un antico disegno scolpito nella pietra dal
significato profondo: un simbolo pagano dell’eterna lotta tra il bene e il male
che la sapienza cristiana, secondo un collaudato costume, rivisita alla luce
della Rivelazione.
La piccola fiabesca chiesa, monumento vivente della
devozione popolare alla Vergine, riserva al visitatore, appena dentro,
un’autentica e insospettata fantasmagoria di colori: dalle volte e dalle pareti
emana un profluvio di luce degno di una chiesa rinascimentale fiorentina. Una
suggestiva Crocifissione e scene della vita di Maria, forse opere di Francesco
da Montereale, affrescano la volta del Presbiterio, mentre in fondo
alla parete destra un pregevole dipinto raffigurante una Comunione agli
apostoli nell’ultima cena – autorevolmente attribuita al figlio del
suddetto Francesco - fa da sfondo ad un’edicola semicircolare con imbotte a
cassettoni e archivolto riccamente modanato a ghirlande. Altri affreschi, sulla
stessa parete, raffigurano Sant’Antonio e San Bernardino da Siena, molto
popolare nelle chiese dell’Aquilano. In fondo alla parete di sinistra, vicino
alla porta d’ingresso principale, si ammira l’unico dipinto ad olio presente
nel piccolo tempio, una grande e bella tela di fine cinquecento ascritta al
pittore aquilano Pompeo Mausonio: Madonna del Rosario, inquadrata
nei 15 pannelli dei Misteri, che molto ricorda la Madonna di Pompei.
Sulla controfacciata, completa la scena un monumentale ottocentesco organo a
canne, tuttora funzionante. Di fronte a tanta bellezza si rimane letteralmente
avvinti, e quasi non ci si staccherebbe da questo piccolo angolo dove sembra
che natura, fede e poesia si siano date appuntamento.
Dopo una riposante pausa con pranzo nella villa
comunale di Paganica offerto dalla
locale sezione donatori di sangue del VAS, la comitiva, un po’ ridotta nel
numero ma non nell’entusiasmo, ha sostato brevemente di fronte alla Basilica di San Giustino, antichissima, edificata sull’antico sepolcro
del santo cui è dedicata. Ricostruita compiutamente nel periodo romanico, con
le sue tre navate, mostra, al pari della sua ancor più vetusta cripta, una
scarna e severa bellezza che invita al raccoglimento. In fase di restauro e
provvisoriamente chiusa al pubblico per motivi di sicurezza, ne abbiamo potuto
pur sempre ammirare lo svettante torrione con campanile della facciata,
impreziosito alla base da un’edicola con arco a volta sorretto da eleganti
pilastrini tardo-rinascimentali e riproducente, sullo sfondo, un bell’affresco
dedicato alla Trinità.
Dopo una merenda nella vicina Bazzano offerta
dal Circolo Bocciofilo, abbiamo dedicato l’ultima sosta di interesse
culturale alla Basilica di Santa Giusta, antichissima
anch’essa, ed edificata, analogamente alla chiesa di San Giustino,
inglobando le antiche piccole basiliche ad corpus sorte sulle ancor più
vetuste tombe dei martiri Giusta, Fiorenzo e Felice. Ne abbiamo ammirato la
originalissima facciata, che per la ricchezza dei motivi scultorei in stile
casauriense, il disegno a griglia delle colonnine e dei cornicioni, l’elegante
portale ad arco falcato con colonne ed architrave stupendamente ornati, ne
fanno un irripetibile capolavoro dell’architettura romanica abruzzese.
Momentaneamente chiusa anch’essa al pubblico per motivi di statica, ne abbiamo
potuto immaginare solo con gli occhi della mente l’interno, con la piatta
parete di fondo dietro l’altare sfavillante di affreschi tardo-rinascimentali e
le pareti laterali, ricche di pitture databili tra il XIII e XV secolo; mentre
un ambone, a sinistra dell’altare per chi guarda, florido di sculture,
casauriensi anch’esse, del XII secolo, poggia sopra un archivolto sotto il
quale c’è l’accesso all’antica cripta, costituita da una monoaula con volte a
crociera, e dove figura un altare abbellito da una statua lignea trecentesca
raffigurante Santa Giusta.
L’illustrazione della chiesa di Santa Giusta, che ha
dato il nome ad uno dei quarti dell’Aquila, ha offerto l’occasione per
rievocare la singolare caratteristica urbanistica del capoluogo abruzzese,
voluta sul finire del secolo XIII dal genio del capitano militare Lucchesino
da Firenze, che, di concerto con il vescovo Nicola da Sinizzo,
facendo tesoro dell’esperienza maturata in terra toscana, volle che all’Aquila
i castelli fondatori, pur non smobilitando dai loro luoghi d’origine, serbassero
una significativa traccia entro le mura della nuova urbe. Ultimo abbondante
ristoro a Gignano, frutto della generosità degli animatori del Centro
Sociale Anziani e, a seguire, il tratto finale della lunghissima ed
esaltante passeggiata, passando lungo il corso di una città, L’Aquila, che mostra, evidenti, i segni
della rinascita. All’arrivo, nella stupenda Basilica di Collemaggio, ad attenderci e ringraziarci c’era,
in rappresentanza del sindaco dell’Aquila, l’assessore Daniele Ferella,
che, nell’accomiatarsi, ha promesso che l’anno prossimo l’amministrazione
comunale saprà fare di più e meglio. Il tempo, come si diceva, si è mantenuto
buono lungo tutto il percorso. Solo alla fine un accenno di pioggerella che,
più che un inizio di temporale, ci è parsa una rinfrescante benedizione del
Cielo.