di Nicola F. Pomponio - TORINO
- Abbiamo incontrato, a margine della mostra sull’emigrazione italiana in
Germania “L’Italia negli occhi” che
si tiene a Settimo Torinese dal 15
febbraio al 17 marzo 2019, gli organizzatori dell’esposizione, Rocco Artale emigrante in Germania e Aldo Corgiat, presidente della
Fondazione Ecm, potendo così porre loro alcune domande sull’iniziativa.
A Rocco Artale, cittadino
onorario di Wolfsburg e presidente
della locale associazione di Abruzzesi, chiediamo cosa ha significato emigrare e
cosa ha significato per la Germania l’emigrazione italiana.
Io
sono emigrato quando avevo 20 anni. Allora, negli anni ’60, mancava
completamente il lavoro sia nel mio paese, Alanno
(Pescara), sia negli altri paesi dell’entroterra abruzzese. Scelsi così di
andare in Germania perché non volevo
dipendere economicamente da mio padre e non volevo andare troppo lontano
dall’Italia. Pensavo, all’inizio, di tornare ma poi il lavoro sicuro e ben
retribuito alla Volkswagen mi convinse a restare in Germania dove mi sono
sposato e ho avuto due figli. Per rispondere alla seconda domanda ritengo che
l’emigrazione in generale, e quella italiana in particolare, abbia enormemente
contribuito alla ricostruzione dell’economia tedesca. Se noi ricordiamo
l’accordo bilaterale italo-tedesco del 1955 ci rendiamo subito conto del grande
bisogno di manodopera che l’industria tedesca aveva: questa manodopera è stata
fornita anche dall’Italia.
E oggi com’è vista la comunità
italiana?
Oggi,
a sessanta anni da quando andai per la prima volta in Germania si può dire che
la comunità italiana è integrata nel tessuto sociale tedesco. I nostri figli sono
parte integrante della vita tedesca e molti, grazie agli studi svolti,
ricoprono ruoli importanti e dirigenziali; ora siamo giunti alla terza
generazione e i nipoti dei primi emigranti sono, anche grazie alle scuole,
tedeschi a tutti gli effetti. Certo, questo quadro odierno non può far
dimenticare che quanti emigrarono, come me, in quegli anni, si scontrarono con
forme di razzismo e marginalizzazione; abbiamo vissuto sulla nostra pelle la
diffidenza, talvolta la xenofobia ma, fortunatamente, questa situazione, nel
corso degli anni, si è superata. Questo è anche il senso della mostra ed è
plasticamente rappresentato nelle pitture qui esposte di Morena Antonucci: a partire dal buio dei primi anni, attraverso un
processo lungo e faticoso, siamo giunti all’integrazione e l’ultima generazione
ha potuto archiviare l’oscurità della partenza.
Com’è noto, è ripresa
un’emigrazione giovanile dall’Italia; fino a poco fa la Gran Bretagna era la
meta preferita, ora, anche per via della Brexit, la Germania è tornata ad
essere una meta importante. Cosa pensa di questo fenomeno e che consigli darebbe
a chi vuole partire?
Io
penso che l’emigrazione attuale sia profondamente diversa da quella che ho
vissuto perché siamo davanti a un’emigrazione di persone spesso con una
notevole preparazione scolastica (vi sono molti laureati) e, in un certo senso,
più “consapevole” di quanto li aspetta. Ciò però non toglie che questi ragazzi
vanno comunque incontro a notevoli difficoltà; spesso fanno lavori umili e
sottopagati e non sempre ci si può integrare in tempi brevi. Potessi dare loro
un consiglio, è questo: pensateci bene prima di partire perché la stessa
economia tedesca sembra essere entrata in una fase di debolezza e la Germania
non è in grado di assorbire facilmente la manodopera, anche qualificata, che
aspira a stabilirvisi. Resta una grande amarezza che vale sia per la mia
generazione, sia per l’attuale: il fatto che l’Italia non sia in grado di
offrire una sistemazione ai suoi figli. Questo dovrebbe essere l’obiettivo
principale di una sana politica: rendere possibile il lavoro in Italia senza
costringere i propri figli ad emigrare. Il lavoro è il problema principale.
Un aspetto particolare: negli
Usa un ruolo fondamentale per le nostre comunità fu svolto dalla Chiesa
Cattolica. È successo lo stesso in Germania?
Noi
emigranti eravamo tutti cattolici e ci siamo trovati in posti dove il
Cattolicesimo era minoranza. Ma questo non ha mai costituito motivo di
discriminazione, anzi ti racconto un episodio che dà l’idea dell’importanza
delle relazioni tra tedeschi e Vaticano. Il direttore generale della Volkswagen
era un conoscente di Papa Pio XII e, grazie a questa conoscenza, nel 1962 più
di 3000 italiani poterono andare a Wolfsburg senza intoppi burocratici e
difficoltà per le pratiche d’immigrazione!
Un’ultima domanda: in Italia
nei confronti degli immigrati si sta assistendo a fenomeni fino a poco tempo fa
sconosciuti. Com’è la situazione in Germania?
Anche
in Germania vi sono partiti apertamente xenofobi, se non razzisti e per me che
ho vissuto sulla mia pelle queste situazioni è triste vedere la storia che si
ripete, stavolta a danno di stranieri a cui non si vuole riconoscere lo status
di rifugiato. Io credo invece che ciò che serve a noi tutti è rimettere al
centro i valori della tolleranza e del rispetto di chi è diverso: senza
tolleranza, io credo, i paesi europei non possono andare avanti!
Ad
Aldo Corgiat, presidente della
Fondazione Ecm ed ex sindaco di Settimo, chiediamo invece quali siano, a suo
avviso, i temi che, insieme all’emigrazione, sono centrali in questa mostra.
L’emigrazione
è un grande tema a cui sono legati molti altri elementi. Ne ricorderei almeno
tre. Innanzi tutto il tema del lavoro. Si emigra perché non c’è lavoro,
esistono squilibri territoriali ed economici profondi e l’emigrazione
rappresenta una possibile soluzione, però a vantaggio delle aree economicamente
più avanzate, a questi squilibri. Il lavoro inoltre, grazie agli stimoli
provenienti con i nuovi arrivati, diventa il luogo fondamentale per almeno altri
due aspetti. Da un lato la contaminazione culturale (preferisco questo termine
a quello di integrazione, che talvolta sembra prospettare una sorta di
superiorità di una cultura rispetto alle altre) e dall’altra è la sede in cui
emergono nuovi bisogni interni al lavoro stesso o esterni all’ambiente di
lavoro ma ad esso più o meno collegati (dal tema dei trasporti, all’assistenza
medica ecc.). Vedrei quindi l’emigrazione strettamente intrecciata alle
questioni dello sviluppo e sottosviluppo economico, della disoccupazione e
della necessità di rivedere, reinventare, sia gli assetti lavorativi di dove si
emigra, sia il tessuto sociale e urbano dei luoghi di immigrazione.
A proposito di quest’ultimo
punto, qual è stata l’esperienza di un sindaco che ha dovuto confrontarsi con
notevoli flussi migratori?
È chiaro che, soprattutto all’inizio, ci si trova
davanti a problemi notevoli dovuti a un grande aumento della richiesta di
servizi da parte dei nuovi arrivati. Le strutture del welfare cittadino si
trovano sotto pressione e il primo compito è quello di cercare di rispondere
alla crescita della domanda. E’ un processo che, ovviamente, non si risolve
velocemente, ma si innescano dei meccanismi che, se gestiti bene, possono
condurre a situazioni di notevole miglioramento rispetto a quanto si offriva ai
cittadini prima dell’arrivo degli immigrati. Non a caso i luoghi che hanno
vissuto l’esperienza dell’immigrazione spesso hanno uno standard di servizi
superiore a luoghi che sono rimasti ai margini di questo fenomeno, penso, ad
esempio, agli squilibri che si sono approfonditi tra la città e la campagna.
Settimo ha vissuto almeno tre ondate migratorie: dalla campagna (da dove
provengo anch’io), dal Veneto e dal Meridione. Oggi, pur continuando ad essere
presente l’identificazione originaria, i cittadini si sentono settimesi a tutti
gli effetti e ciò è importante per tutto il tessuto sociale che non può che
beneficiare da questo atteggiamento.
Quando si può dire di aver
raggiunto una piena integrazione?
Io,
al riguardo, la penso come mi ha detto un mio amico somalo: mi sento integrato
quando scelgo liberamente se restare in un determinato posto o se andare via.
Credo che sia questo il segno dell’integrazione, quando vivo come libera scelta
il luogo dove vivere; a quel punto divento una sorta di cittadino del mondo e
non vivo più come costrittiva la mia residenza in un luogo anziché in un altro.
Ma attenzione, a questa risposta sono collegati veramente molti aspetti. Il
primo è la capacità/possibilità di un paese ospitante di restituire al paese da
cui si emigra energie che, attraverso l’emigrazione, gli sono state sottratte.
Quando si emigra, s’impoverisce il paese d’origine e si contribuisce a
costruire la ricchezza sociale del paese in cui si immigra. Una politica
lungimirante dovrebbe tener conto di dare la possibilità di tornare al luogo
d’origine con le capacità acquisite per renderne possibile lo sviluppo; se un
migrante sceglie liberamente di tornare a casa e lo fa dopo aver acquisito
capacità professionali che prima non possedeva, noi aiutiamo il suo paese
d’origine restituendogli anche una piccola parte di quanto l’attività
predatoria nel passato, e purtroppo ancora oggi, gli aveva sottratto. Quindi,
collegato al fatto che sono integrato quando mi sento libero di decidere dove
stare, c’è una grande questione di politica estera, di rapporti tra gli stati.
Continuare a pensare l’immigrazione come una questione solo di politica interna
(se non addirittura, ciò è veramente folle, solo di sicurezza) vuol dire non
prospettare una soluzione reale del problema che nasce dagli squilibri
economici tra zone diverse del pianeta, ma, nella migliore delle ipotesi,
impostare il problema solo sotto la rubrica dell’accoglienza. Il che è sempre
meglio dell’equazione immigrato uguale delinquente ma si limita a una risposta
moralmente alta, ma che non affronta il problema di base dell’emigrazione. Noi
dobbiamo contribuire a costruire una classe dirigente nei paesi d’origine senza
trascurare il fatto che, contrariamente a quanto si dice di norma, gran parte
dei flussi migratori sono composti da persone che hanno già, da parte loro,
notevoli capacità tecniche e professionali.
C’è ancora in programma
qualcosa, oltre questa bella mostra, come Fondazione Ecm sul tema
dell’emigrazione?
Sì.
Noi abbiamo organizzato un ciclo d’incontri sull’immigrazione a Settimo senza però
privilegiare un approccio legato alle realtà regionali di provenienza, anche
perché sono presenti qui quasi tutte le regioni d’Italia: probabilmente, a mo’
d’esempio, vi sono più ischitellani a Settimo che a Ischitella! Abbiamo pensato
fosse più utile parlare dell’emigrazione legandola a particolari contesti
d’origine che facessero emergere l’intreccio tra emigrazione e altre questioni
importanti (come dicevamo prima). In questo senso presentiamo, tra gli altri,
il libro di un autore calabrese, Santo Gioffrè “L’opera degli ulivi” (ed.
Castelvecchi), che ricostruisce la storia degli scontri tra estremisti di
destra e di sinistra a Reggio Calabria, ma sullo sfondo di faide tra famiglie e
di scontri all’interno della ‘ndrangheta; questo vuol dire tenere insieme
l’emigrazione con la storia del novecento italiano e alcuni aspetti
particolarmente bui dell’Italia di oggi (in questo caso la malavita prima e il
terrorismo poi).