a cura di Andrea Giostra - Il secondo capitolo de “La luce negli occhi” narra dalla fuga
di Haria e della sua corsa verso il bosco… I successivi capitoli saranno
pubblicati a cadenza settimanale. Buona lettura a tutti voi…
2° capitolo
653 d.C.
Ho visto i maghi deridere gli indovini, i veggenti disputare il senso del
tempo con gli astrolo-ghi, giocolieri volteggiare i loro trucchi e sorridere
beffardi. E il popolo ascoltare la parola di tutti e trovare coraggio in un
multiforme e credulo silenzio.
Io, Haria, figlia di Drusca la Selvaggia e Marvio il
Selvolano, non credo. Non ho creduto, e sono in fuga.
In fuga, in fuga, fuga, fuga, questa parola mi
ossessiona. Fuggo da un mondo che mi avrebbe voluta stupida e ignorante,
sottomessa a un piccolo uomo e madre silenziosa di molti figli.
Fuggo per un’altra parola: vita.
E corro verso
il bosco, liberatore di sorti.
Bedo la Grande e l’Eterna sta per essere sepolta
sotto i macigni del Rago, il monte sacro; nessuno ha creduto alla profezia di
Luna, l’antica donna Yol.
Ero una bambina quando mia madre mi insegnò la sacra
danza dei suoi antenati. Disse che un giorno avrei dovuto ripeterla davanti a
Madre Terra come prova della mia voglia di vivere. Allora non potevo capire le
sue ragioni, ma ora sì, ora che sto danzando: la mia fuga è la mia danza.
Mi lascio alle spalle un mondo inutile e caotico,
arrogante e perverso; all’alba di domani, quando le pietre immortali metteranno
la parola fine su Bedo, io sarò lontana. Il Consiglio ha deciso la mia morte,
l’ordine dato ai soldati è raggiungermi, il comando urlato ai cani è sbranarmi.
Ma i cani scoveranno solo la mia veste infangata, abbandonata in un intrico di
rosa di macchia.
E corro verso
il bosco, focolare di anèliti.
Nacqui con un’intensa luce verde negli occhi. Gli
indovini urlarono la mia sacrilega diversità, gli astrologhi predissero anni di
sventura e delirarono la mia futura colpa e il Consiglio decretò la mia
cacciata dal villaggio.
Uomo onesto e vero mio padre si oppose; da solo affrontò i soldati del
Consiglio che gli sbarravano il passo: cinque uomini armati di picche e spade
non bastarono a fermarlo, il suo lungo coltello
drusco vendicò la mia innocenza. Ferito gravemente da un arciere appollaiato
sul campanile della torre, mio padre si trascinò fino alla stanza del
Consiglio, sollevò da terra il Saggio dei Saggi e gli fece vomitare la verità:
avevano paura di me e mi cacciavano per difendere se stessi. La corta e spessa
lama del coltello di un eunuco finì mio padre alla schiena.
Mia madre non si sfinì in suppliche, né si perse in
chiacchere; legò il corpo del suo uomo alla slitta, mi infagottò nel suo ampio
zaino di pelle e lasciò quel lupanare senza sprecare una parola. Era una
drusca.
E corro verso
il bosco, guardiano di energia.
I miei occhi verdi scoprivano i misteriosi canaloni
sul monte Nero mentre mia madre affondava i passi nel vergine letto di neve,
nel fitto dei boschi del nord estremo. Il suo respiro si faceva sempre più
affannoso, il suo fiato rotolava nel vento, ma non si fermò e non abbandonò il
corpo di mio padre; lo immolò al fuoco sacro sulla vetta del Rago, e con me
sulle spalle riprese la sua marcia in solitudine, guidata dalle stelle e dalla
sua fiera ragione di donna.
E corro verso
il bosco, protettore di sogni.
Una profonda caverna sul Nero fu la nostra prima dimora, e in mia madre
riemerse l’abilità dei druschi nella caccia con le
trappole: il cuore e il fegato di un daino furono i miei primi bocconi di
carne, il latte di capra selvatica il mio nettare. Più tardi ci spostammo a
sud, lungo l’antico sentiero del Pen, il monte un tempo abitato da un dio. Un
cucciolo di lupo abbandonato dal branco divenne il mio inseparabile compagno e
la mia voce selvaggia; era un lupo nero, razza rara e temuta. Mia madre lo
accolse e nelle notti di inverno la udii parlargli e sussurrargli in una lingua
sconosciuta. Yok fu il suo nome, ‘fedele’, in lingua drusca; crescendo cacciò per
me e per me dimenticò il branco.
E corro verso
il bosco, luce del passato e del futuro.
Mia madre morì un mattino d’autunno; il suo sguardo
volò a nord, verso il Rago. Poco prima di spengersi la luce nei suoi occhi mi
guardò e la sua voce mi disse che dovevo accettare la mia sorte fra gli uomini.
Era già lontana mia madre, era con mio padre. Era una drusca.
Yok mi guidò a valle, fino ai margini del villaggio;
si fermò e mi guardò: fiutava il pericolo, ma le parole di mia madre
risuonarono nel mio animo, così guidai Yok nel villaggio.
La gente vide una giovane selvaggia drusca attraversare la piazza e un lupo
enorme trotterellare al suo fianco come un cane
fedele. Un vecchio uscì dalla torre - strana e colossale dimora che attirava il
mio sguardo - e mi fissò: i suoi occhi si colmarono di sorpresa, la sua bocca
disegnò sdegno e rabbia. Lui, mago e membro del Consiglio, mi aveva
riconosciuta. Puntò un dito contro di me e urlò. Gente dalle lunghe barbe e
vestita di stracci accorse da ogni parte, seguita da uomini armati di lance. Mi
circondarono minacciosi. Trassi il coltello di mio padre e mi disposi a difesa.
Yok si tese in posizione di attacco. A un segnale quattro armati si
avventarono, e Yok balzò alla gola del più vicino, mentre io affondavo la lama
nel petto di un altro. I due rimasti mi assalirono alle spalle; prima che
potessi voltarmi un colpo alla testa mi fece cadere in ginocchio e i miei occhi
videro Yok volare sull’uomo che mi aveva colpita...
In una fetida cella fui presa a calci, derisa, insultata
per tre giorni. Al quarto mi trascinarono davanti al Consiglio. Occhi
spaventati, occhi increduli, occhi crudeli mi fissavano. Occhi. Mi fu detta la
mia vecchia colpa, ricordata la mia cacciata dal villaggio e inflitta una nuova
condanna per il sangue che avevo versato: essere sbranata da cani selvaggi,
come il mio lupo demonio aveva sbranato due cristiani prima di fuggire. Yok. I
miei occhi risero.
Guardai i tre cani carnefici: erano
affamati più che belve fameliche; conoscevo benegli occhi della fame. Due
guardie mi slegarono e mi dissero di correre. Fu così che cominciai la mia
danza, poi i cani cominciarono la loro.
*
L’ululato di un lupo lacera la notte: è Yok, lo
riconosco, mi sta aspettando per guidarmi sulle sacre montagne. Il mio tempo
fra gli uomini è finito e già la terra è scossa dai primi boati del Rago.
Immagino gli occhi devastati della gente, il terrore, l’incredulità, l’orrore
pànico nei loro sguardi mentre Bedo l’Immortale scompare per l’eternità nelle
insondabili pieghe di Madre Terra.
E corro verso
la vita.
In copertina, Silvia Beltrami, “Prospettiva accidentale” (2004)
(particolare), 80x100x0,5 cm.
Per leggere i precedenti capitoli, clicca qui:
Note dell’editore:
«Haria vive ritirata sull'appennino ligure-emiliano, e comunica
con il mondo esterno mediante i suoi libri, in cui dispensa la conoscenza di
cui è portatrice. Ove giovani donne, in secoli diversi, in fuga dal proprio
tempo, in fuga per la consapevolezza e la libertà. Nove vite, una vita, e una
luce negli occhi che le guida e le accomuna. Nove donne oltre il varco
sull'ignoto, per un magico, solidale destino.»
“La luce negli occhi”, Haria, Collana
Letteratura di Confine, Proprietà letteraria riservata, © RUPE MUTEVOLE, prima
edizione 2004, ristampe 2009-2012-2018.
Cristina del Torchio
Silvia Beltrami
Andrea Giostra