Nella
plurisecolare vicenda della storia dell’Italia la emigrazione ne
rappresenta l’evento più terribile e traumatico e allo stesso
tempo più glorioso e importante: si calcola che negli anni a partire
dalla seconda metà del 1800, circa trenta milioni di italiani
hanno abbandonato le loro terre: una cifra spaventosa che
nessun’altra
nazione
registra di siffatta colossale entità! Calcolando i successori e gli
eredi di tutta questa umanità disperata ma intrepida e coraggiosa,
all’estero è presente, oggi, un’Italia numerosa una volta e
mezzo quella originaria!
La nemesi altrettanto terribile e
sconfortante vuole che questi circa ottanta-novanta milioni di
originari italiani sparsi in tutto il pianeta, specie quelli in
qualche modo sentimentalmente ancora legati alle antiche radici, in
questi ultimi anni sono obbligati a costatare, con umiliazione e
mortificazione, che l’Italia di oggi risulta collocata ai primi
posti nelle graduatorie internazionali per corruzione e latrocini e
privilegi ed inefficienza e agli ultimi per investimenti nella
cultura nella ricerca nell’arte. Un fallimento e una distruzione
di immagine imperdonabili.
E
la Ciociaria
nel gigantesco fenomeno della migrazione occupa il
primo posto.
Infatti tutto cominciò da qui, dalla Valcomino, inizialmente da
alcuni paesini e loro frazioni i cui nomi sono scritti, anzi
dovrebbero essere scritti, a caratteri cubitali nella storia
nazionale della
emigrazione: Picinisco e le sue frazioni di San Gennaro, di San
Giuseppe, di Immoglie, di Serre; San Biagio Saracinisco, Vallerotonda
e la sua frazione di Cardito nota in tutto il mondo,Villalatina e le
sue frazioni di Vallegrande e di Agnone. Tutto
è nato
qui, tra queste montagne ai piedi del Monte Meta, già nelle ultime
decadi del 1700. Gli avamposti, sempre più numerosi, anno dopo anno,
fino a divenire un flusso continuo, furono dapprima i padri di
famiglia, poi i giovani ed adolescenti, armati dei loro strumenti: il
piffero, la zampogna, l’organetto, il cane ammaestrato, i più
fortunati il pappagallo o la scimmia, qualcuno anche con il povero
orso marsicano e poi i mestieranti: ombrellaio, vasaio, arrotino,
impagliatore, calzolaio… tutta questa umanità, disperata e
affamata, abbandonò la propria patria ingrata, il Regno di Napoli,
e si riversò nello Stato Pontificio, uno stato straniero ma
sostanzialmente ricettivo: qui si disperse in tutto lo sconfinato
latifondo romano andando a procacciarsi di che sostentarsi perfino
nelle mefitiche e mortali Paludi Pontine, altri, migliaia, si
insediarono a Roma medesima, altri ancora prolungarono il loro
cammino fino al di là delle Alpi e dopo mesi di marcia, misero
piede a Londra, in Scozia, poi a Parigi, a Berlino, Duesseldorf…
Dalla Valcomino la diaspora si estese ad altre località: gli
abitanti di Terelle, per esempio, un comune a circa mille metri di
altitudine ai piedi del Monte Cairo, si riversarono a Terracina in
una zona al limitare delle Paludi e lì si stanziarono: i loro
successori sono ancora in molti nel medesimo luogo della città.
Particolari contingenze storiche del momento furono motivo dell’esodo
anche da
altre località dello Stato Pontificio medesimo
verso la Ciociaria Pontina cioè da Boville Ernica all’epoca
Bauco, da Monte S.Giov.Campano, da Veroli, da Ceccano, da Morolo, da
Patrica, da Sora medesima…E uno dei luoghi di destinazione di
queste creature in cerca del proprio pane o di migliori condizioni,
fu una zona della città di Sezze e cioè la Valle
di Suso,
particolarmente amena e fertile: in questa località già agli inizi
del 1800 si contavano circa tremila immigrati provenienti sia dallo
Stato Pontificio e sia dal Regno di Napoli: la semplice scorsa
all’elenco telefonico dei paesi e cittadine sui monti Lepini,
Ausoni, Aurunci, anche di Terracina, Anzio, Nettuno, Velletri, senza
calcolare Roma città, darà una idea incredibile di quanta e quale
sia stata la entità di tali presenze dei secoli precedenti! E quanto
avviene a Suso di Sezze è specialmente degno di attenzione: già ai
primi anni del 1820, anni terribili in tutta la zona in quanto
infestata da pericolose bande di briganti, la Chiesa sentì la
esigenza di offrire a questa umanità sofferente e abbandonata la
possibilità almeno del conforto della pratica religiosa per cui il
sensibile promotore di tale iniziativa, più tardi papa Gregorio
XVI, ordinò la costruzione di una chiesa, la cosiddetta Chiesa
Nuova,
che ancora si leva nei medesimi luoghi: doveva essere uno spettacolo
unico vedersi levare una chiesa in mezzo ad una distesa di centinaia
di misere capanne a forma di cono. Il valore simbolico
ma soprattutto storico
della Chiesa Nuova è completamente sfuggito all’attenzione degli
studiosi e degli esperti della materia ma anche, e più
semplicemente, delle istituzioni ciociare in generale: in effetti ci
troviamo di fronte al vero e fino ad oggi unico
memoriale della emigrazione italiana!
E’
senza dubbio alcuno motivo di rammarico che lo Stato non si sia fatto
fino ad oggi iniziatore e promotore di un simulacro commemorativo
della gigantesca diaspora di italiani al di là delle Alpi e
dell’Oceano, diaspora che, tra il tanto altro, per anni ed anni è
equivalsa ad una sensibile fetta di prodotto interno lordo, grazie
alle rimesse! Eppure, nulla e niente. E una parvenza, a mio parere
una parvenza, di museo nazionale dell’emigrazione si è registrata
solo un pugno di anni addietro, al Vittoriano di Roma: una parvenza
perché si fa iniziare il fenomeno migratorio solo dopo l’unità
nazionale, perché è da quegli anni che assunse progressivamente
dimensioni imponenti tali da spopolare mezza Italia, ma viene
ignorata ed omessa la transumanza
umana di cento anni prima,
vicenda che ha impresso ai luoghi interessati marchi e tracce oggi
più vivi che mai sia in Ciociaria e a Roma e sia nelle località
transalpine più sopra ricordate. Vano è stato ogni nostro tentativo
presso i responsabili di rivedere ed ampliare i contesti narrativi ed
esplicativi: a dirla ancora più semplicemente, il Museo Nazionale
della Emigrazione di Roma ignora o non conosce la Ciociaria: in
effetti è dunque un museo regionale! E la Chiesa
Nuova di Suso di Sezze
rappresenta oggi, dunque, il solo simbolo commemorativo reale della
emigrazione ciociara prima, nazionale dopo.
Michele
Santulli