L’AQUILA
– Molti gli eventi tenutisi a L’Aquila
per
ricordare i 750 anni dalla sua prima rinascita, il cui incipit fu
proprio l’11 aprile 1266, dopo la distruzione operata nel 1259 da
Manfredi
ad appena cinque anni dalla fondazione della città sancita nel 1254
con decreto dell’imperatore Corrado
IV di Svevia,
figlio di Federico II.
Inseriti nel cartellone della Perdonanza
Celestiniana, gli eventi sono stati promossi, in collaborazione con
la Municipalità, dal Gruppo di azione civica “Jemo ‘Nnanzi”,
presieduto dall’infaticabile Cesare
Ianni,
e dalla Sezione dell’Aquila dell’Archeoclub. Gli eventi
spettacolari con sbandieratori, cori medioevali, arcieri e falconieri
si sono svolti nella giornata di sabato 9 aprile nell’ampia
scalinata davanti la Basilica di San Bernardino, e sono stati
accompagnati da due pomeriggi culturali con interventi di insigni
studiosi, che hanno affrontato aspetti storici, tematiche di costume
e società relativi al primo periodo angioino della città. Il 9
aprile il primo incontro con le relazioni di mons. Orlando
Antonini,
dei docenti universitari Fabio
Redi e Carlo
De Matteis, del
presidente della Deputazione
di Storia patria
Walter Capezzali e
di Beatrice
Sabatini di
Archeoclub. Il secondo incontro l’11 aprile con le relazioni di
Paolo
Muzi di
Italia Nostra, di
Maria
Grazia Lopardi dell’Associazione
Panta Rei, di Sandro
Zecca
e Mauro
Rosati
dell’Archeoclub. Nutrita la partecipazione della comunità
aquilana, che ha colto in tale commemorazione un ulteriore elemento
nella ricostruzione della propri identità civica, dopo il terribile
sisma del 2009. Qui
di seguito l’intervento di mons. Antonini, Nunzio
apostolico e studioso di architettura religiosa e urbana. (Gopalmer)
ARCHITETTURA
SACRA AQUILANA DELLE ORIGINI
di
Orlando Antonini
Per
origini della città dell’Aquila intendo il periodo storico che va
dal 1229 dei primissimi trasferimenti di popolazione sul colle di
Accula al 1316 dell’elevazione delle Mura Urbiche definitive, con
al centro la distruzione 1259 della città sveva e la rifondazione
angioina di essa a partire dal 1266 – Buccio
di Ranallo
scrive 1265. Circa
la fondazione dell’Aquila io com’è noto condivido la tesi di
quegli autori secondo i quali la città – a parte la sempre più
fondata ipotesi di una città romana scomparsa, forse Prifernum,
esistente pressappoco sullo stesso sito – in quanto centro abitato
dev’essersi formata non a seguito del 1254 del diploma di Corrado
IV
ma del 1229 della bolla di papa
Gregorio IX.
Il famoso 1254, cioè, rappresenta non la data del materiale
inurbamento, bensì solo quella dell’elevazione ufficiale a città
ed a capoluogo di nuovo Comitatus
di un abitato già esistente, formatosi appunto nei trent’anni
precedenti. Creare infatti dai due Comitatus
di Amiterno
e di Forcona
un
unico nuovo Comitatus
con i suoi indispensabili uffici politico-amministrativi ma su un
capoluogo ancora da fondare, come vuole la tesi tradizionale, non ha
senso. Né pare aver senso una città che, se iniziata a costruire
nel 1254 o solo qualche anno prima, appena cinque anni dopo possa
aver costituito una minaccia per il potere imperiale tanto da venirne
assediata e totalmente distrutta come si sa nel 1259. L’obiezione
poi secondo cui Federico
II
nella sua concezione autocratica non avrebbe mai consentito alcun
eventuale insediamento autonomista, si fa aleatoria sia in quanto non
si sa fino a che punto l’imperatore controllasse effettivamente il
territorio di frontiera amiternino-forconese in quel periodo di note
ribellioni dei conti locali, sia in quanto in quel 1229 la citata
bolla papale aveva revocato al demanio della Chiesa il territorio
medesimo, rimuovendone pertanto la giurisdizione imperiale e
sciogliendo gli abitanti dal giuramento di fedeltà; inoltre vi aveva
ormai autorizzato l’inurbamento in parola. Infine, neppure la tassa
di 10 mila once posta per il rilascio dell’autorizzazione papale
alla fondazione può considerarsi una somma esorbitante per le
popolazioni, atteso che una condizione del genere si suppone fosse
usuale e comunque sia stata accettata già in sede di negoziato. In
breve per noi, stanti le varie accezioni che del vocabolo Città
si riscontrano nelle fonti, la ‘città da costruire’
documentalmente aggiudicata come si sa nel 1253 al Conte di Mareri,
non fu altro che la sede
della Città, ossia i Palazzi Pubblici e le Mura Urbiche, simboli
cittadini per eccellenza. In ogni caso un dato di fatto è
l’esistenza, inglobati nelle chiese successive, di
resti di sezioni edilizie anche cospicue anteriori non solo al 1259
della distruzione della città per mano di re Manfredi, ma anteriori
anche al summenzionato 1254. Questi resti strutturali indicano che se
esisté sul colle di Accula una storia edilizia anteriore alla data
ufficiale della ‘fondazione’ della città, dové esistere altresì
una sua storia urbana in quel periodo.
Giova
ricordare
che le popolazioni si trasferirono sul colle di Accula, per formare o
riformare la città, a criterio non individualista ma comunitario: i
castelli in quanto tali, cioè, i cui abitanti all’interno
dell’area murata formarono ognuno il proprio rione, detto ‘locale’,
una maglia di abitazioni attorno alla chiesa e alla piazza. Unendosi
in un unico nuovo centro urbano i leggendari 99 castelli riprodussero
ciascuno, in esso, le strutture religiose ed altresì amministrative
dei paesi di origine, chiamandoli con lo stesso nome dei castelli di
provenienza e costruendo le proprie chiese ‘dentro’ intitolate
agli stessi santi delle rispettive chiese ‘fuori’. Con quelli
pertanto ognuno restando corpo unico indiviso e promiscuo sul piano
ecclesiastico come su quello civile e catastale, e ognuno
conservando, all’interno delle mura, la propria precedente identità
sia ecclesiale sia civica.
Questo
connubio tra comunità politica e comunità cristiana faceva in
maniera che gli edifici parrocchiali assumessero anche una chiara
funzione civica, oggi diremmo ‘laica’. Era nelle parrocchie che
si risultava cittadini appartenenti ad un determinato ‘locale’ –
l’anagrafe – da lì potendosi fornire, quando richieste, le
cosiddette ‘fedi’ per i censimenti. Lì si raccoglievano tasse e
collette civiche. Lì si arruolavano i soldati per le milizie
cittadine. Era nelle chiese parrocchiali che si svolgevano le
elezioni. Lì si stabilivano i rappresentanti locali ai parlamenti e
alle ambascerie. In particolare, esse costituirono la sede ufficiale
di parlamento delle università.
I cittadini vi si radunavano periodicamente per trattare problemi
d’ogni genere del rispettivo ‘locale’, da quelli di politica
‘interna’ del comune a problemi più spicci delle singole
università,
quali l’aggregazione di ‘forestieri’ al locale o il fitto degli
erbaggi della montagna. E furono le chiese principali di essi a
intitolare i quattro Quarti in cui nel 1276 la città e il territorio
furono suddivisi, per questo appellate chiese
capo-quarto,
ed a fungere da loro luogo di parlamento, avendo bannera
propria con proprio colore, mentre la bannera
della
città aveva aquile bianche in campo rosso – come sapete, gli
attuali colori cittadini nero e verde furono introdotti a seguito dei
lutti del terremoto del 1703: non sarebbe male a mio giudizio,
proprio allo scopo di esorcizzare le ricorrenti devastazioni sismiche
della città, tornare ai colori originari bianco e rosso.
Nel
1259 la prima Aquila viene totalmente distrutta. Nella forma
urbis
della seconda Aquila, l’Aquila angioina risorta nel 1266, la trama
abitativa si dimostra meglio impostata rispetto alla precedente in
quanto si seguì un preciso progetto urbano. Si tratta, come si vede,
di una bella maglia ortogonale attorno alla grande piazza del
Mercato, generatrice del tessuto urbano, e con isolati per lo più
rettangolari, entro un’area totale intra
moenia
di circa 160 ettari. Essa è tuttora fruibile nel suo impianto anche
se non nelle forme medioevali originarie, armoniosa, razionale e
serrata sì da evocare, nell’aura simbolica tipica della concezione
gotico-cistercense del ‘200, la Gerusalemme del salmo 121 “in se
compacta tota”. Uno schema abitativo che riproduceva in
contemporanea e quasi ad
litteram
gli schemi urbanistici e i caratteri architettonici e formali, di
matrice cistercense, delle coeve due-trecentesche città nuove
d’Europa, segnatamente quelle della Francia del centro-sud, le
bastides
di Montpazier, di Monflanquin e di molte altre, su cui vari autori
francesi, dal Lavedan-Hugueney 1974 al Répérant 1993, al Bernard
1993 ed altri, hanno scritto diffusamente.
Orbene,
fin dalla prima fase fondativa i cittadini, in quel medioevo di fede
e di maggiore apertura alla trascendenza, fornirono i loro primi
insediamenti degli adeguati servizi religiosi, quindi specialmente la
costruzione di chiese. Nell’iniziale trentennio 1229-1259 ci si
dové avvalere di edifici di culto preesistenti sul colle e che
dovevano certo mostrare forme stilistiche e spaziali romaniche, come
attestato dai resti strutturali o scultorei che per brevità vi
invito a trovare nelle mie pubblicazioni. Furono invece elevate
chiese di pianta negli anni Trenta e Quaranta del ‘200 in ragione
dell’urbanizzazione che s’andava intensificando e non a caso,
quindi, recando forme borgognone proto-gotiche: ad esempio la chiesa
le cui tre absidi su pianta retta cistercense i castellani di
Sant’Anza più tardi riutilizzeranno per propria parrocchiale di
San Nicola, oppure il San Giorgio della fiancata Nord di Santa Giusta
su via del Grifo, tessuta in arcaico apparecchio
aquilano di
selci e includente un portale sestiacuto tipicamente proto-gotico
cistercense. Più cospicuo numero di chiese parrocchiali e
monasteriali dové naturalmente elevarsi tra 1254 e 1259. Si pensi a
quelle deducibili dai documenti di poco anteriori a tale anno: un San
Pietro di Sassa in piazza del Mercato, una Cattedrale che doveva
essere sul posto del San Giorgio poi Santa Giusta, un San Francesco,
un San Domenico, un San Marciano, mentre per il 1257 si citano una
Santa Giusta, un San Vittorino e/o San Biagio, un San Pietro di
Coppito, un San Paolo di Barete, una Santa Maria di Forfona; altre
sono attestate monumentalmente, come la chiesa cui appartennero il
portale e la rosa gotico-borgognoni poi riapplicati sulla facciata di
Santa Maria di Roio.
***
Nella
seconda fase fondativa, dal 1265 o 66 in poi, dopo nemmeno tre lustri
dall’aver inaugurato la prima, grazie all’autorizzazione angioina
ed alla certa presenza dei loro urbanisti francesi e dei nostri
Cistercensi, gli Aquilani si rimisero in movimento per costruire una
seconda città. Quantunque secondo le nostre ricerche questa fu meno
vasta di quella del 1229-1259, si trattò di un cantiere enorme
perché i castelli dovettero materializzare, in poco tempo e in
contemporaneità, sia l’edilizia privata, sia quella civica e
‘statale’ (la sede del Comune, il palazzo del Capitano, il
palazzo regio), le opere di pubblica utilità e di difesa (la Fonte
della Rivera, le Mura Urbiche) e sia l’edilizia parrocchiale. Dato
che nel 1259 re
Manfredi
aveva incendiato e distrutto tutto quanto amiternini e forconesi
avevano costruito fra 1229 e 1259 accanto notate alle rovine di
quella che crediamo fu Prifernum,
gli Aquilani poterono impostare senza troppo condizionanti
preesistenze abitative il nuovo piano urbanistico. Nel 1272-75 il
capitano Lucchesino assieme alla Fonte della Rivera costruì la nuova
cinta di difesa in muratura.
In
questa epopea costruttiva le architetture parrocchiali si suppone
debbano aver iniziato ad essere riedificate fin dal 1266, giacché,
come s’è detto, erano parte integrante della struttura portante
del Comune, necessarie al suo funzionamento a livello cellulare. Dové
trattarsi, già, di alcune decine di chiese, una per ciascun castello
e frazione di castello reinurbato in quel primo periodo degli
Angioini. Dalla documentazione, ben scarsa, che si possiede, quindi
basandosi per lo più sul confronto di elementi stilistici e tecnici
come il tipo di tessitura muraria ad apparecchio
aquilano leggibile
su alcune di esse con qualche sporadica data di riferimento è
possibile dedurre l’appartenenza di varie di queste chiese a
medesime maestranze edilizie, e dunque ad una medesima fase
ricostruttiva, quella degli anni sessanta e settanta del ‘200. Così
abbiamo un San Silvestro del 1265 o 85 precedente all’attuale, un
San Liberatore del 1268 (poi San Ludovico, oggi la Concezione), San
Marciano del 1276, la coeva Santa Maria di Roio, il demolito San
Giustino poi San Martino di Chiarino, Santa Maria di Paganica, una
adesso quasi scomparsa Santa Maria di Cascina del 1283, la pure
demolita Santa Maria di Tempera del 1285, il San Pietro di Sassa del
1289 di cui resta solo la base della torre campanaria, il San Pietro
di Coppito che vediamo dopo il ripristino morettiano, l’odierna
Santa Giusta costruita sul posto della cattedrale del 1256 e
precedentemente del San Giorgio di Goriano Valli, San Vittorino/San
Biagio di Amiterno, San Quinziano oggi denominato San Biagio, la
nuova Cattedrale sulla Piazza del Mercato, ed altre parrocchiali di
cui non si ha memoria monumentale.
Nel
frattempo si elevarono anche le chiese degli ordini religiosi tornati
all’Aquila dopo la riedificazione o introdotti dopo il 1266: un
secondo San Domenico – quello i cui resti nel corso dell’esemplare
recente restauro condotto sotto la direzione dell’arch. Maurizio
D’Antonio sono stati riscoperti a fianco dell’attuale, un San
Francesco circa il 1270, una Santa Maria di Acquili circa il 1280,
Santa Maria di Collemaggio nel 1275-87, Santa Maria Nova nel 1292 e,
attorno al 1295 e non nel 1309 come riscoperto ultimamente dagli
studi miei e di Maurizio D’Antonio, un terzo ed ultimo San
Domenico, quello monumentale che ammiriamo in tutta levigata pietra
concia, a tre navate e ben cinque absidi, l’esemplare
architettonico più perfetto e rifinito in città, voluto e
finanziato da Carlo II accanto al vecchio San Domenico divenuto
cappella confraternitale di San Sebastiano.
Dal
1294 al 1316, quando cioè la città angioina fu ampliata alle
attuali dimensioni e recintata dal circuito difensivo che ora
possiamo riammirare con le sue torri (e spero fra breve anche nel suo
unico antemurale rimasto, quello di Porta Barete), vi fu la terza e
definitiva fase costruttiva di chiese. Ignoriamo quali e quanti
locali si aggiunsero alla maglia urbana del 1266, perciò anche quali
e quante chiese si costruirono. Esiste in proposito, tuttavia, la
possibilità di individuarne alcune se nelle costruzioni sacre
antiche, ancora esistenti all’esterno di quel che dové essere il
perimetro urbano 1272-75, si riscontrino per esempio riferimenti
dimensionali e tipologici attribuibili alle direttive urbanistiche
statuarie del 1290. Crediamo dunque, nella fattispecie, edificate nel
periodo in parola le chiese intus
di
Forfona, del Guasto, di Assergi, Tornimparte, Rascino, che appunto si
apparentano nelle dimensioni e nella semplicità tipologica
rettangolare che sembrano standard,
e in quanto tali riferibili a detta programmazione degli anni
novanta. Segnalo qui solo le principali caratteristiche
dell’architettura sacra aquilana delle origini: l’impianto
crociato dell’edificio a transetto più alto rispetto al corpo
longitudinale, la facciata squadrata e il simbolismo architettonico.
Per
la prima caratteristica, all’Aquila si constata una generalizzata
preferenza per transetti incrocianti il corpo delle navi non a
medesima quota, come di consueto, ma emergendo nettamente,
campeggianti pur senza tiburio, sul colmariccio del piedicroce,
determinando così organismi a croce immissa, innesto di due corpi
contrapposti, uno longitudinale e l’altro trasversale più alto ed
ampio. Questo sollevamento della massa prismatica produce,
all’esterno, un movimento volumetrico originale e più dinamico
rispetto ai comuni innesti a medesima altezza, e, all’interno, un
effetto di dilatazione in spazio e luminosità, nel passaggio tra
aula e nave traversa, più emotivo. La soluzione era abbastanza
diffusa nel periodo romanico, ad esempio la basilica cassinese
dell’Abate Desiderio, in Campania la Cattedrale di Salerno, e, sul
versante adriatico, alcune note cattedrali pugliesi, quale quella di
Trani, tuttora godibile, che hanno appunto transetti continui,
indipendenti e sopraelevati sulle coperture longitudinali. In Abruzzo
lo echeggiavano le romaniche Santa Maria di Ronzano presso Castel
Castagna, la chiesa abbaziale di San Clemente a Casauria se fosse
stata completata, la Cattedrale di Sulmona. Quanto al contado
forconese, l’esempio più compiuto di tal fatta era il San Paolo di
Peltuino prima delle superfetazioni, il quale, essendo di poco
anteriore alla fondazione dell’Aquila, avrà fatto testo per le
costruzioni aquilane. È questo preciso motivo tipologico che mi ha
spinto ad intervenire sulla ricostruzione del transetto di
Collemaggio. Non si è purtroppo accolta la mia proposta, ma pare si
sia almeno sventato il primitivo riduttivo progetto: quello del tetto
della navata centrale che continua senza interruzione fino
all’abside, annullando in tal modo la dialettica tra corpo
longitudinale e corpo traverso di cui ho detto, il che alla fine
avrebbe assimilato la basilica ad un lungo interminabile capannone
industriale. Notate, poi, che le testate di questi transetti
terminavano invariabilmente a capanna. Si vedano quelle ancora
esistenti pur se rimaneggiate di Santa Giusta e di San Pietro di
Coppito, nonché, documentate figurativamente sul Gonfalone cittadino
del 1579, quelle della Cattedrale e di Santa Giusta. E questo lo dico
per la testata Est del transetto di San Domenico. Vi è ben noto che
nei miei lavori io l’avevo fatta riprodurre a coronamento piano. A
questo errore ero stato tratto dalla terminazione settecentesca del
tetto, che scendendo a padiglione, ne taglia bruscamente in piano la
parete. Ma Maurizio d’Antonio, direttore del restauro della grande
chiesa, leggendo col suo occhio clinico i filari trecenteschi in
pietra da taglio sotto la gronda che lo copriva, ha scoperto il segno
chiaro delle due originarie pendive del frontone, che dichiarano come
anche le testate del transetto domenicano terminavano a capanna.
Il
contributo maggiore che l’architettura sacra aquilana offre a
quella italiana consiste nell’originale ben noto schema di facciata
chiesastica a coronamento orizzontale, sviluppatosi in città da fine
‘200 ma soprattutto nel primo ventennio del ‘300. Il singolare
stilema, schermo quadrangolare che nasconde le forme a capanna
dell’organismo interno delle chiese e per ciò stesso si
costituisce a corpo architettonico a sé stante, simmetrico e
dialettico al corpo traverso dei transetti e rivolto allo spazio
esterno che filtra, non è esclusivo delle chiese dell’Aquila, né
si può dire sia nato nella regione abruzzese. Lo troviamo infatti
presente, tra XII e XIII secolo, nell’area pugliese ed in quella
umbro-marchigiana e laziale ed a Roma stessa, dovendo essere gli
esemplari ivi comparsi che, per la loro immediatezza e vicinanza,
poterono determinare l’adozione della soluzione quadrangolare anche
in Abruzzo e all’Aquila. Senza parlare di casi di facciate a
coronamento piano fuori d’Italia, in Spagna, in Francia, persino in
Olanda. Se però facciate a schermo quadrangolare esistono in
Abruzzo, in Italia e fuori Italia, anche più antiche, la
particolarità aquilana è che soltanto in questa città la tipologia
si è applicata sistematicamente per tutte le sue chiese, e se ne è
potuto lavorare ed elaborare lungamente lo schema in svariate
versioni; sicché mentre fuori esso è eccezione, all’Aquila è
regola. L’originale invenzione fu recepita all’Aquila già a fine
‘200 – lo sappiamo da quella di San Giustino o San Martino di
Chiarino demolita nel 1935 – e diffusa poi in tutto l’Abruzzo
come nota dominante fino al Seicento. Si giunse anzi, caso più unico
che raro nella storia dell’arte abruzzese, a riesportarla nelle
regioni vicine e addirittura nel Ticino, nel San Lorenzo di Lugano,
dove fu certamente riportata nel secondo ‘500 dai mastri ticinesi
da noi accomunati sotto la generica qualifica di ‘lombardi’ o
‘milanesi’, che fin dal XII secolo si erano stabiliti nella
nostra zona e facevano continua stagionale spola tra l’Aquila e le
valli alpine. Le eccezioni timpanate alla tipologia quadrangolare
suddetta, apparse soltanto nel tardo ‘400 sulla facciata di Santa
Maria del Soccorso e, nel ‘500, sulla fronte della Misericordia,
non fanno che confermare la regola.
Ciò
che particolarmente colpisce, in tale stilema aquilano medioevale, è
la sua decisa orizzontalità, affermata proprio nel pieno trionfo del
verticalismo gotico ufficiale francese e nord-europeo, più ancora
dello stesso gotico mediterraneo ed italiano, che già per conto suo
privilegia proporzioni placate e spazi e volumetrie misurate nei
rapporti. Non si tratta di un attardarsi sul passato romanico da
parte dei nostri mastri ed artisti, come spesso si sostiene e si
continua a ripetere, ma di una scelta intenzionale anti-gotica e
anti-platonica, riflettente una concezione di vita più confacente,
sul piano filosofico, alla visione realista di Aristotele e, sul
piano teologico, alla categoria evangelica dell’incarnazione, che
attraverso proporzioni equilibrate e serene delle masse murarie ed
architettoniche tende, con S.Francesco, a valorizzare le creature,
non ad alienare la realtà terrena formulandone un giudizio negativo
e pessimista. Uno stilema pertanto, questo della fronte quadrangolare
aquilana trecentesca, che potrebbe anzi vedersi come una delle prime
emersioni, in Italia, del movimento umanista e della corrispondente
esternazione artistica, il Rinascimento.
Un’ultima
caratteristica che delle architetture sacre aquilane dell’epoca
angioina è da segnalare è il carattere simbolico di molte di esse,
in forza del quale le chiese, nella loro ubicazione, orientamento,
planimetria, forme architettoniche e plastiche, numeri e misure,
possono esprimere categorie d’ordine teologico e antropologico,
cosmico e tellurico. L’architettura religiosa aquilana, nascendo
nel ‘200 in piena cultura simbolica, veicolata dai Cistercensi, ne
riporta suggestivamente i segni, costituenti una chiave
interpretativa necessaria da captare affinché le architetture sacre
possano essere lette, comprese e valutate anche sul piano stesso
della loro qualità spaziale, artistica e tecnica. Si tratta di
ripetute irregolarità strutturali registrabili in alcune chiese
due-trecentesche: il vistoso fuori-asse tra absidi e navate in Santa
Giusta e in San Pietro di Coppito, ad esempio, e la diversa ampiezza
delle navatelle non solo nelle chiese predette ma anche in Santa
Maria di Collemaggio, nella Cattedrale trecentesca, nel San Francesco
medioevale e in varie altre nel Contado come il San Michele a Villa
S. Angelo, fuori Contado come Santa Maria della Tomba a Sulmona o
Santa Maria della Vittoria a Scurcola, in Italia ed anche fuori
Italia, ad esempio, si noti, la stessa gotica Notre-Dame a Parigi.
Non
è da ammettere la ripetizione di identico errore di costruzione,
dipeso da presunta imperizia di mastri, in plurime differenti chiese
anche di fuori territorio, e tanto meno la ripetizione di uguali
anomalie in ricostruzioni e risistemazioni dopo i crolli dei
terremoti. Sola convincente conclusione è che si tratti di
planimetrie intenzionalmente anomale, di impianti spaziali
volutamente irregolari: diversamente ne sarebbe preclusa la stessa
razionale lettura. Planimetrie anomale scaturite, pertanto, da
motivazioni architettoniche nascoste di cui s’era persa cognizione
e coscienza: insomma, dai criteri del summenzionato ‘simbolismo
architettonico’, di cui le associazioni di costruttori si servivano
nell’intento di trasmettere iniziaticamente ai fruitori, talora
magari al margine anche delle intenzioni dei committenti, i grandi
temi biblici e teologici nell’architettura. Per
la sua cronologia 1274-82 non è difficile conchiudere che sia stata
la predetta architettura angioina di Santa Maria della Vittoria a
Scurcola, ora demolita e ridotta alle sole fondazioni perimetrali, ad
essere all’origine prima di tale simbolismo nelle planimetrie sacre
aquilane due-trecentesche, rappresentando un altro importante
contributo culturale degli Angioini all’architettura sacra
aquilana.
Il
fuori-asse o inclinazione dell’abside, corrispondente al capo del
crocifisso, vuol simbolizzare il reclinamento del capo di Gesù
quando morì sulla croce (et
inclinato capite tradidit spiritum,
si legge in Gv.19,30)
e lo sfogo su un fianco di tutta la planimetria (espressa nella
maggiore ampiezza, o unicità, della nave) il costato di Gesù
trafitto e aperto dalla lancia del soldato (cfr. Gv.19,34).
Ferita, apertura, da cui sgorgano sangue e acqua, simboli a loro
volta dei sacramenti di battesimo ed eucaristia, quindi della Chiesa,
che da questi nasce come Eva dal costato del nuovo Adamo
‘addormentato’ (ossia Cristo in croce) e come la colomba di
Cantico
dei Cantici 2,14
invitata dallo sposo (Cristo) ad uscire dalle ‘fenditure della
roccia’ (che è il costato aperto di Gesù-roccia).
Detti simbolismi, si noti, erano correnti nel Medio Evo, rimontando
al tredicesimo-quattordicesimo secolo: l’epoca, guarda caso, della
fondazione dell’Aquila e delle sue prime chiese, nonché, altro
dato importante, l’epoca dello sviluppo della cistercense devozione
all’umanità di Gesù, particolarmente di quella al sacro Cuore
come espressa nelle forme del tempo da Santa Caterina da Siena e da
altri mistici, ovvero attraverso il simbolo del costato trafitto e
aperto, non ancora attraverso quello, magari oggi più noto ma
seicentesco, del cuore infiammato come diffuso da Santa Margherita M.
Alacoque. Anche
al disegno quadrangolare di facciata, dove il tondo della finestra
s’inscrive nel quadrato della parete, si attribuisce valenza
iniziatica per il sussidio di conoscenza simbolica di cui è
portatore. Infatti il binomio cerchio/quadrato, in quanto
rappresentazione del cielo e della terra, rinnova l’indistruttibile
ancestrale complesso simbolico di carattere cosmico, qui adattato ai
contenuti dottrinali cristiani come segno dell’incontro fra il
trascendente e l’immanente.
Rivendico
d’essere stato il primo all’Aquila, nel 1988, a riaprire a questa
lettura simbolica delle architetture sacre aquilane,
re-individuandone le tracce. Simbolismo che, ripreso
un quindicennio dopo in chiave più esoterica e da New
Age
da autori come Maria Grazia Lopardi, dal 2005 in poi il D’Antonio
dal campo teologico-biblico a noi più proprio, va estendendolo a
quello, più tecnico, dei rapporti geometrici.
Furono purtroppo il rinascimento prima, lo scientismo poi, e
specialmente l’illuminismo settecentesco e il positivismo
ottocentesco nonché lo strutturalismo novecentesco, a spazzar via
dalla forma
mentis
dei contemporanei la visione qualitativa del mondo che gli antichi
possedevano. D’allora in poi architetti e maestranze, divenuti
estranei, vennero avviati al mestiere edile con una formazione che
ormai trasmetteva soltanto il sapere tecnico, non più quello
olistico, dei tradizionali compagnonnages
in cui la conoscenza simbolica aveva un posto privilegiato. Col quasi
totale digiuno che si osserva oggi dei dati di fede di cui i
monumenti sacri sono sostanziati, la lettura di questi non potrà che
risultare distorta, falsata, nel migliore dei casi lacunosa, tale che
tanti non avvertono più che la
chiesa non è un contenitore murario qualsiasi suscettibile d’esser
considerato solo monumento d’arte ed essere usato ad altri scopi,
mentre invece essa intende riprodurre simbolicamente il mondo divino
e la Chiesa-comunità, sia la visibile che la invisibile, la presente
come la futura; anzi sarà il cielo stesso, il paradiso, la
‘Gerusalemme’ celeste presente in terra. Come reclama il Sequeri,
occorre urgentemente, sia da parte dei committenti ecclesiastici che
degli architetti, affrancarsi gli uni dalla “sprovvedutezza
teologica” e tirannia dell’economico e del funzionalistico, gli
altri dalla “sostanziale ignoranza religiosa della nostra cultura”
e tutti recuperare la cultura della trascendenza, quindi “il
sentimento della ineludibile densità simbolica di ogni percezione”.