di
Goffredo
Palmerini - L’AQUILA
- Recentemente il Corriere
della Sera, il
più antico e prestigioso quotidiano italiano, ha dedicato mezza
pagina del suo inserto “Innovazione”
con un
bell’articolo
di Andrea
Marinelli,
all’esperienza
di i-Italy,
network multimediale in forte crescita con sede a New
York
e interamente dedicato all’Italia.
In dieci anni la “rivoluzione” portata nel mondo
dell’informazione e della comunicazione in generale da i-Italy,
nata come testata on line e approdata dopo qualche tempo alla carta
stampata e alla televisione, ha cambiato radicalmente il modo di
raccontare l’Italia all’America, interessando nuovi ambienti e
lettori, raccogliendo consensi ed attenzione fino a diventare un vero
e proprio punto di riferimento.
Lo dicono il numero crescente degli
accessi al portale bilingue (www.i-italy.org)
che supera abbondantemente il milione l’anno, le 50 mila copie
dell’elegante rivista bimestrale, l’apprezzamento per i programmi
di i-Italy
Tv
sul canale televisivo del Comune di New
York
e per gli speciali Tv che raccontano i maggiori eventi culturali e di
costume nella metropoli americana, il gradimento sui social network.
Insomma,
un fenomeno multimediale che riesce a raggiungere sempre più vasti
strati di popolazione comunicando il volto migliore dell’Italia, le
sue eccellenze, le sue bellezze, la cultura e l’arte attraverso i
più prestigiosi interpreti, e dall’altro lato dando voce alle più
significative espressioni della comunità italiana a New
York
e negli States. La straordinaria avventura di i-Italy
nasce nel 2007 con un corso di formazione di giornalismo in inglese
su temi italiani, con fondi europei, in collaborazione con
l’Università di Roma “La Sapienza”. L’iniziativa, promossa
da Ottorino
Cappelli,
docente di Scienze politiche all’Orientale di Napoli, e dalla
giornalista Letizia
Airos,
da quel momento è stata una continua scommessa nel campo
dell’informazione, vincente. Chi scrive ha avuto il privilegio di
seguire dall’Italia questa avventura, sin dal dicembre 2007 quando
a Palermo
conobbi Letizia
nel
corso d’un convegno internazionale sull’emigrazione organizzato
dall’ANFE. Da allora iniziai una libera collaborazione con la
testata che dura tuttora che mi ha consentito d’essere anche
osservatore attento dell’eccezionale affermazione del network in un
mercato complicatissimo e selettivo, quale quello dell’informazione,
in un Paese dove la competizione è la regola numero uno e in una
città come New York dove l’innovazione è primordiale ragion
d’essere. Per approfondire l’argomento abbiamo raggiunto a New
York
la direttrice editoriale Letizia
Airos
e il project manager Ottorino
Cappelli,
i fondatori
del network. Ecco
la nostra conversazione.
TUTTO
COMINCIAVA DIECI ANNI FA…
Letizia,
dev’essere una grande soddisfazione aver richiamato l'attenzione
del Corriere
della Sera
sul “sistema” i-Italy. Immagino che quando una decina di anni fa
con Ottorino avete avviato il progetto i-Italy, sperimentando con
coraggio in un settore difficile come l’informazione e la
comunicazione, peraltro in crisi, mai avreste immaginato quel che
sarebbe diventato oggi il network che dirigi. Quanto hanno contato
l’audacia innovativa e la ricerca di nuovi linguaggi?
Letizia
Airos (LA): Veramente
non mi ricordo cosa mi aspettavo all’inizio. Cominciammo con un po’
d’incoscienza un viaggio in cui abbiamo bruciato le tappe, giorno
dopo giorno, crescendo e accettando le sfide. Evitando, come oggi
dicono tutti citando il grande Umberto
Eco,
di essere sia “apocalittici” che “integrati”. Non so se sia
stata audacia la nostra. In fondo per noi era naturale. L’idea
nacque a New York nei primi anni 2000, e nacque sulla rete, quando in
Italia c’era ancora tanta diffidenza verso questo mezzo, anche tra
i giornalisti. Ma vivendo qui avevi la consapevolezza di essere al
passo con i tempi. Così innovare era una necessità assoluta. Il
mondo del’editoria stava cambiando e noi abbiamo scelto di pensare
come una testata americana, o se vuoi con una “testa” americana.
Mancava all’Italia in America una via di mezzo tra vecchi e nuovi
media. E’ su questa che abbiamo puntato noi.
Ottorino
Cappelli (OC): Quelli
che tu chiami ‘nuovi linguaggi’ in realtà sono nati anche da
motivi economici. All’inizio scegliemmo la rete e i social media
non solo per l’affinità che avevamo, come generazione, con la
“novità del secolo”, ma anche perché era meno caro! Ma non
volevamo fare un sitarello amatoriale low-cost. Volevamo mantenere il
massimo della qualità possibile. In questo Paese, dall’Italia ti
aspetti innanzitutto qualità ed eccellenza. E specie nel campo dei
media, se non lavori al massimo della qualità il mercato ti relega
in un ghetto e poi non ne esci più. Dopo, quando ci siamo sentiti
più solidi, abbiamo deciso di far convergere tutte le nostre risorse
sull’integrazione tra quello che avevamo costruito e i media
tradizionali, TV e carta stampata. Non abbiamo mai pensato che i
“nuovi” media avrebbero rottamato i “vecchi”, casomai li
avrebbero trasformati. Il risultato è stato la via di mezzo di cui
parlava Letizia: oggi i-Italy, anche nelle sue dimensioni ancora
relativamente piccole, è un network multimediale e multicanale, come
“i grandi”. L’informazione del futuro non può essere che così.
Un solo canale non regge la sfida.
PASSIONE,
FATTORE UMANO E DIFFICOLTà
E
certamente ha contato la passione, il fattore umano di una redazione
giovane e fortemente motivata…
LA:
‘Passione’
non è solo una parola, in questo lavoro. E’ uno stato mentale. Nel
primo editoriale del nostro magazine scrissi – rischiando di essere
considerata anche un po’ naif – che era un magazine “fatto con
il cuore”. Lo è sempre di più. Cerco di trasmettere questo
entusiasmo anche ai miei collaboratori, molti dei quali giovani. Sono
molto esigente e per questo non sempre ci riesco! Lavorare con noi
non è una passeggiata, anche se le soddisfazioni sono assicurate. E
quando si crea sintonia fra me e le persone che lavorano – a volte
anche fino a notte – si realizzano progetti eccellenti.
Quali
le difficoltà incontrate, e superate, da i-Italy in un contesto
competitivo come New York e gli States?
LA:
Le
maggiori difficoltà erano (e sono ancora) nell’aspetto per così
dire ‘imprenditoriale’, soprattuto nel rapporto con l'Italia.
Aziende, ma anche istituzioni. Lavorando su argomenti legati
all'Italia, il primo riferimento per avere sponsorizzazioni è
ovviamente quello italiano. Devi spiegargli chi sei, e perché devono
investire su di te per raggiungere il pubblico americano che gli
interessa. A volte ti capiscono immediatamente. Ho visto consoli
brillanti, giovani imprenditori, professori universitari e perfino un
anziano viceministro afferrare a volo il concetto di i-Italy e
puntare su di noi senza riserve. In altri casi è stato più
difficile.
Perché
difficile?
OC:
Innanzitutto,
considera che dall’Italia arrivano somme enormi per mettere una
pubblicità sui grandi media americani, il che serve troppo spesso
solo per farlo vedere agli amici o a giustificare i budget
promozionali, ma non ti porta da nessuna parte a livello di
comunicazione. Come si suol dire si ‘spara nel mucchio’ e non si
mira alla giusta “nicchia”. Gli States sono un paese grande e
molto diversificato. Tutto il mercato è diviso in nicchie, non è un
mercato “di massa” come si pensa. Una volta capito, con molto
ritardo, che qualcosa non funzionava, gli italiani hanno preso ad
assumere consulenti (sempre italiani), cosiddetti Brand
Ambassador,
esperti di Public
Relations,
e a corteggiare piccoli bloggers che si vendono il loro giornalino
online gonfiando i numeri. C’è
in giro un pullulare di casi così.
Sembra
che tu descriva un Far West…
OC:
Alcuni
imprenditori ci cascano. E non solo loro. Vuoi per scarsa
informazione, vuoi per pigrizia, vuoi per fare un favore a qualche
amico di amico… E così se ne vanno milioni di euro, pubblici e
private, nel capitolo “promozione e comunicazione”.
LA:
Vai
a uno di questi eventi, vai a un altro, e trovi sempre le stesse
200-300 persone: italiani che vivono qui. Non un americano. Non uno
che parli inglese e comunichi la notizia al di là
del ghetto “etnico”
degli italiani
all’estero.
La
comunicazione del nostro “sistema paese” in America è stata in
gran parte un’occasione mancata, finora. Non sempre, ma spesso.
Troppo spesso.
CHE
FARE?
Dunque,
che fare? Quali sono le scelte vincenti?
LA:
Innanzitutto
la multiculturalità. Se il tuo target
sono gli italoamericani (soprattutto i giovani) e gli americani che
amano l’Italia, bisogna raccontare l’Italia in inglese e in modo
onesto, senza retorica, evitando linguaggi stereotipati pur di
suscitare l’immaginario sul nostro Paese. Ma bisogna evitare la
tentazione di “tradurre” in inglese contenuti scritti e pensati
con una testa italiana. Per farsi capire e apprezzare c’è bisogno
di un mediatore culturale, a New York come a Shanghai. Non ci si
pensa, perché noi siamo tutti imbevuti di cultura americana, siamo
tutti cresciuti ascoltando Prince, Bob Dylan o Louis Armstrong. Ma è
così. Non puoi raccontare agli americani o agli italoamericani né
la politica italiana né la Nutella,
senza immergerli in un “bagno”
di cultura
italiana.
Ma
fare come dici non è molto costoso?
LA:
Dipende.
Un nostro punto di forza è stata la grande attenzione al budget,
ai costi. Noi non sprechiamo niente. Siamo attenti anche al tipo di
carta che usiamo. Ma,
lo dico con orgoglio, per
i giovani - anche quelli bravi che fanno periodi di stage - c’è
sempre un rimborso spese e poi, se rimani con noi, uno stipendio.
Certo non si arricchiscono, ma ho sempre pensato prima agli stipendi
dei miei collaboratori, poi a me.
GIOVANI
GENERAZIONI E UNIVERSITà
Oltre
all’innovazione, la qualità, la multimedialità, un tratto
caratteristico di i-Italy è l’attenzione verso le giovani
generazioni. Per questo avete stabilito importanti collaborazioni con
prestigiose università, in Italia e in America. Quali risultati
avete avuto, specie nel campo della promozione e diffusione della
cultura italiana?
LA:
Sì,
abbiamo sempre avuto un forte rapporto con il mondo universitario.
Siamo nati 10 anni fa da un progetto europeo di cui era capofila il
Dipartimento di Sociologia e Comunicazione de La Sapienza di Roma.
Era un corso di giornalismo italiano in lingua inglese, rivolto a
ragazzi italiani residenti a New York. La nostra sede, fin da quel
corso, è stata presso il John D. Calandra Italian American Institute
della CUNY: il più grande istituto di studi sull’esperienza
italiana nelle Americhe esistente negli USA. Questo ha ci ha
consentito di conoscere dall’interno il mondo della cultura
italoamericana. Il preside del Calandra Institute, Anthony
Tamburri,
è stato il nostro mentore principale. Importantissima è anche
l'attività comune con la Casa Italiana Zerilli-Marimò della New
York University, che è proprio la “casa degli italiani” a New
York. Con il direttore Stefano
Albertini
c’è una grande intesa e la condivisione di una missione comune.
Poi, rimane certo fermo il rapporto con alcuni atenei
italiani, ad
esempio l’Università
per Stranieri di Perugia che utilizza la nostra redazione come sede
di stage.
Ma
il corso di giornalismo da cui siete nati, non lo riprenderete?
Sembra sia stata un’esperienza eccellente, una best
practice.
OC:
Ti do un’anticipazione. Proprio in questi giorni abbiamo siglato un
accordo con la National Italian American Foundation, la più
prestigiosa organizzazione italoamericana con sede a Washington. La
NIAF
offrirà due borse di studio rivolte a giovani laureati americani di
origine italiana per svolgere uno stage formativo da noi di 10 mesi.
Stiamo pensando di affiancare a questi studenti alcuni altri
provenienti dall’Italia
o residenti qui
e comporre una “classe” che ripeta quell’esperienza: corsi di
livello universitario di giornalismo, di social media, di
video-giornalismo, ma anche di comunicazione istituzionale e di
marketing territoriale. Più un’immersione full-time nella nostra
redazione. Così nascemmo, e ci piacerebbe tornare su quei passi con
tutta l’esperienza accumulata nel frattempo. Stiamo cercando i
fondi…
LA
COMUNICAZIONE ISTITUZIONALE
La
vostra Tv, anche nel campo della comunicazione istituzionale, si è
distinta enormemente e ha dato brillanti risultati, grazie alla
singolare creatività del messaggio. Ritieni che la comunicazione
istituzionale possa essere un settore di possibile espansione per il
network?
LA:
È
già così, anche se si dovrebbe fare di più. E' successo su alcuni
recenti progetti, come un video per la promozione della lingua
italiana nel mondo patrocinato lo scorso anno dal Ministero degli
Affari Esteri. Non è facile però. Il fatto è che la
comunicazione istituzionale, soprattutto quella rivolta all'estero,
non è una forma di propaganda e non è neanche semplice pubblicità.
Ecco perché non si adatta per nulla a questo settore l’espressione
‘brand
ambassador’.
Un Paese non è un semplice marchio! Ti metti in mano a
questi sedicenti “esperti”
italiani, e alla fine ti si ritorce contro come un boomerang. Allora
la soluzione sembrerebbe quella di affidarsi a una grande società di
comunicazione americana. Ma non sempre va bene, perché loro sono
esperti del mestiere, sì, ma non “vivono” la realtà che stanno
comunicando. E ti spennano senza portare a casa il risultato. Quindi
la risposta è sì, è un filone importante per noi, a patto che si
prenda atto su un piano di parità della nostra competenza.
Soprattutto della nostra conoscenza del territorio e della cultura in
cui operiamo. E ci risiamo: c’è una nicchia di milioni di
americani interessati a conoscere l’Italia e disposti a investire
sul Made in Italy. Per comunicare con loro ci vuole onestà, umiltà
ed esperienza.
i-Italy
racconta anche - con i suoi giornalisti e con libere collaborazioni
dall’Italia - le meraviglie della provincia italiana, quasi sempre
sconosciuta agli americani, mostrando gli innumerevoli volti del
Paese. Rispetto ai dati di lettura e gradimento della testata, quanto
può essere utile il servizio che rendete alla promozione d’un
turismo di qualità?
LA:
Il
turismo! E’ fondamentale. Gli americani non aspettano altro. E non
si può continuare a lasciare questa informazione alle agenzie di
viaggio e ai loro siti online! Perché non esiste ancora un “Travel
Channel” italiano capace di parlare al pubblico americano?
Volerebbe, come d’altronde un “Food Channel”. Gli USA sono la
patria della TV di settore. Che aspettiamo? Purtroppo anche noi
facciamo ancora troppo poco in questo campo. Ma ci stiamo lavorando.
Siamo aperti a tutte le collaborazioni possibili dall’Italia. Noi
abbiamo i numeri, l’audience,
ma siamo qua. La bellezza infinita del paese è lì. Su tutto il
resto siamo autosufficienti, su questo no. L’importante – lo dico
a costo di risultare noiosa – è l’onestà del racconto e la
capacità di mediazione culturale. Gli americani non sono quei
turisti danarosi e sprovveduti che si fanno vendere da Totò la
Fontana di Trevi!
I-ITALY
E LE STORIE DI EMIGRAZIONE TRA IERI E OGGI
Avete
moltissimi utenti, non solo in America. La testata online e la webTV
sono visitate da ogni parte del mondo. Qual è il contributo di
i-Italy per far conoscere
la storia dell’emigrazione italiana e sopra tutto quale servizio
può assolvere verso la nuova emigrazione?
LA:
Questo
è uno dei nostri cavalli di battaglia, naturalmente. Il racconto
dell’esperienza italiana in America è di vitale importanza per
l’Italia di oggi e per tutta l’Europa, vista la crisi attuale
riguardo all’immigrazione. Abbiamo appena finito la prima serie di
un programma televisivo prodotto insieme all’ANFE
(Associazione Nazionale Famiglie Emigranti) e con il patrocinio del
Ministero per gli Affari Esteri. Si chiama “Nonni
e nipoti nell’America italiana”.
Sono conversazioni tra un nonno e un nipote sulle tradizioni
italoamericane e la loro trasmissione attraverso le generazioni. La
nonna più famosa della serie, conosciuta anche all’estero, è
Matilda
Raffa Cuomo,
moglie e madre di due governatori italoamericani dello Stato di New
York. Qui il programma andrà in onda presto e sarà raccontato in un
evento pubblico. Speriamo di presentarlo presto anche in Italia. Al
tempo stesso credo che sia importante far sapere anche qui cosa sta
accadendo nel Mediterraneo! Abbiamo dedicato due speciali del nostro
magazine ad un dibattito a puntate tra due esperti del campo: Il
prof. Marcello
Saija
dell’Università di Palermo e il prof. Jerry
Krase
della CUNY. Però questo discorso sull’emigrazione va fatto senza
paternalismi. Sull’emigrazione più recente, che è in forte
ripresa come sappiamo, c’è la retorica sulla “fuga dei cervelli”
che va evitata come la peste! Recentemente ho intervistato il nuovo
Console Generale italiano a New York, Francesco
Genuardi.
Mi ha detto una cosa che condivido pienamente. Parlando dei tanti
giovani italiani che vengono qua a studiare in prestigiose università
e fare esperienze lavorative importanti – non come i loro avi, ma
non senza sacrifici – mi ha detto: “Sono convinto che molti di
loro torneranno in Italia. L’Italia è il nostro Paese, il Paese al
quale siamo legati. Ma se qualcuno non tornerà in Italia noi non lo
consideriamo un cervello in fuga, ma in un mondo sempre più globale,
un asset
da valorizzare qui a New York con grande impegno e intensità”.
Insomma non ricordiamoci che l’emigrazione è una risorsa solo
quando vogliamo vendere i prodotti italiani o chiedere donazioni a
chi ha avuto successo. E non pensiamo che nel mondo globale chi
“emigra” sia una risorsa persa per l’Italia e bisogni solo
cercare di farlo rientrare. Noi dobbiamo mettere a sistema tutta la
nostra presenza all’estero, quella vecchia e quella nuova, quella
che ritornerà e quella che resterà. Sono loro i nostri
ambasciatori: del paese e della sua cultura, non di un “marchio”.