di Riccardo Riccardi - Oggi 7 marzo, alla
vigilia della festa della donna, ricorre il 70simo anniversario dello
scellerato massacro alle sorelle Carolina e Luisa Porro accaduto ad
Andria nel 1946.
Una vicenda triste e violenta che ancor oggi
inquieta le coscienze. La storia accadde in un secondo dopoguerra
lacerato da devastanti sconfitte politiche ed economiche e provocò
dolorosi rimorsi in tutti gli ambienti della società civile del
tempo. La stampa, che provava a muovere i primi passi in una società
più libera e non soffocata dalla repressione fascista, dette
all’episodio una risonanza nazionale che varcò il confine del
nostro Paese. Molto si parlò – e per lungo tempo – delle gravi
condizioni economiche in cui versavano i braccianti andriesi e, pur
mettendo a fuoco una realtà inconfutabile che nessuno potrà mai
mettere in discussione, dove la miseria da una parte e le
rivendicazioni politiche dall’altra le facevano da padrone, molto
poco, invece, si sono esaminate le personalità delle sfortunate
sorelle Porro, e, di tutte quelle anime – furono trucidati anche
tre Carabinieri: Pietro Turco, Carlo Romeo e Nicola Mombello –
che, in quella triste giornata, ma anche nei giorni precedenti, senza
preclusione di sesso e di appartenenza sociale, hanno per un tragico
destino subito lo straziante schiaffo della violenza e della morte.
Senza togliere nulla alle numerose vittime di quella giornata ci
piace ricordare, però, la sorte ingiusta che subirono le quattro
sorelle Porro – per di più alla vigilia dell’8 marzo − le
quali solo Stefania, quasi quarantenne, aveva lasciato il nubilato,
mentre Luisa, Vincenzina e Carolina, non ebbero modo di maritarsi e,
pertanto, non realizzarono quel sogno che ogni donna, in special modo
in quel periodo storico, voleva raggiugere. Si impegnarono nei lavori
domestici, nell’ago e nel cucito e, più che altro, nella
preghiera. Devote e pie, fu per loro naturale appoggiare gli ideali
della Chiesa che, dopo il crollo del Fascismo, divennero un punto di
riferimento per molti giovani e per molte donne, tanto che si
iscrissero alle associazioni come l’Azione Cattolica e le ACLI per
solidarizzare con la nascente Democrazia Cristiana.
Andria, per di più in quegli
anni, ebbe la presenza della figura di monsignor Giuseppe Di Donna
che, sempre in prima linea per aiutare i più indifesi, istituì nel
1943 «l’Opera dei Ritiri di Perseveranza», in cui si tenevano
incontri mensili affidati alle prediche dei Padri Gesuiti; omelie
molto seguite dai giovani e dalle donne andriesi. Ma dal
giugno del 1945 si registrarono una recrudescenza di scontri a fuoco
che aggravarono i rapporti tra la classe dei braccianti – la
maggior parte iscritta alla lega o al partito comunista – e le
istituzioni pubbliche, religiose e i proprietari terrieri. Nonostante
i buoni propositi delle associazioni religiose, Andria divenne la
roccaforte rossa d’Italia. Nel 1946, proprio nelle prime giornate
di marzo, quando gli scontri divennero sempre più accesi, le tre
sorelle Porro, ormai anziane e fiduciose della loro preghiera,
rifiutarono di lasciare la loro dimora in piazza Municipio per
seguire i loro parenti in luoghi più sicuri. Si sentivano,
nonostante tutto, tranquille in quanto avevano elargito la somma di
cinquecento mila lire ai Salesiani per acquistare un terreno e
costruire un oratorio e, nel contempo, erano certe che a donne
vecchie e sole come loro nessuno avrebbe mai potuto far del male.
Ma
il destino era segnato. Già dal 6 marzo alcuni individui si
presentarono nel loro palazzo per rovistare i loro appartamenti e
quello del loro inquilino Francesco Ciriello, direttore della Banca
d’Andria, in cerca di armi e persone. Era il segnale che qualcuno
aveva sparso infamanti dicerie nei loro riguardi. Il
pomeriggio del giorno dopo, il fatidico 7 marzo, invece, si venne a
sapere che l’onorevole Giuseppe Di Vittorio, segretario della
confederazione generale del lavoro, doveva tenere un comizio proprio
nei pressi della loro abitazione per invitare i contadini andriesi a
tenere la calma.
Luisa, Stefania,
Carolina e Vincenzina, pur intimorite per l’ennesimo comizio,
visto l’evolversi della situazione incandescente di una buona parte
dei braccianti andriesi e, più che altro, dell’oscura e
misteriosa visita dei cinquanta contestatori del pomeriggio
precedente che cercavano armi che mai loro avrebbero potuto
possedere, presero le due valigie che avevano preparato con i loro
beni più cari e scesero al piano terra per incominciare la recita
del rosario assieme ai Ciriello, ai portinai e alla loro domestica,
nella guardiola del loro palazzo.
Erano passate da
qualche minuto le ore 20 quando, ad un tratto, un colpo d’arma da
fuoco tuonò nelle tempie della folla che attendeva l’inizio del
comizio di Di Vittorio e della compagnia che pregava in portineria.
Da quel momento al grido “hanno sparato dal palazzo delle sorelle
Porro”, iniziò il macabro eccidio. Francesco Ciriello, Stefania e
Vincenzina Porro, nonostante le violenze scamparono la morte, invece,
per Luisa e Carolina non ci fu nulla da fare. Furono afferrate in via
San Mauro e spinte attraverso l’androne del loro palazzo prima in
piazza Municipio e poi trascinate per i capelli in via Bovio:
“ammazzatele, ammazzatele che hanno le bombe nel petto”
gridavano i rivoltosi con veemenza. Uno di loro con una gruccia le
colpiva senza ritegno e pietà. Carolina fu uccisa da un esagitato
con un colpo di baionetta allo stomaco e pestata a sangue,
ripetutamente, sul viso dai tacchi delle scarpe di una donna e Luisa,
invece, dopo aver “benedetto” il suo carnefice, mentre con la sua
mano esile si liberava gli occhi dai capelli imbrattati di sangue, fu
mandata a sbattere, con un violento spintone, tra ingiurie
indicibili, contro lo spigolo della porta attigua all’armeria
Giannotti. I corpi delle due sorelle Porro giacquero nel fango per
tutta la notte, osservati a vista dai cinici agitatori, impedendo
qualsiasi soccorso. Al mattino dell’8 marzo girava voce che i due
dilaniati corpi sarebbero stati trascinati per le vie della città.
Intervenne, finalmente, la forza pubblica su sollecitazione del
vescovo Di Donna e i cadaveri, finalmente, vennero prelevati e
trasportati al cimitero, tra un fragoroso e inaspettato applauso
liberatorio.
Alle ore 11, una
piazza Municipio gremita da uomini e donne di tutte le età,
ascoltava il provato onorevole Giuseppe Di Vittorio il quale, con
toni fermi e chiari, prometteva che il lavoro molto presto sarebbe
arrivato e che, in ogni caso, l’ordine pubblico doveva ritornare
sovrano.
La scrittrice
Ada Negretti – una donna che ben conosceva i tormenti dell’animo
delle donne del Sud –, nel 1948, durante le fasi più tumultuose
del processo, così ricordava le due sorelle Porro: «in chiesa
venivano additate con reverenza e rispetto quando snocciolavano
compostamente i rosari sul nero dei loro vestiti. È tutto lindo e
accurato in queste donne. La rigida educazione ricevuta da genitori
esemplari ha messo nelle figlie il senso preciso della signorilità
senza, ostentazioni, della grazia senza chiasso, del contegno
misurato ma senza rigidezza: mai un eccesso. E tanto rispetto dei
simili, tanta comprensione per le loro pene, pei dolori, per le
miserie, per gli affamati, pei derelitti».
RICCARDO RICCARDI
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