Stefano Santomauro,
attore livornese racconta storie al limite della realtà. In
Metereopatiko lo fa quasi tutto d’un fiato e lo spettatore è
rapito dal fiume di parole. Non è una storia ma un intreccio di
storie e lui è sempre molto bravo a dipanare la matassa. L'intervista di Fattitaliani.
Autore ed interprete
straordinario di Meteoropatiko scritto con la K invece che con la C,
perché?
È uno spettacolo
amaro, il KO finale è un messaggio di speranza ma con un filo
sottile di amaro. La storia racconta la battaglia per l’amore
della propria vita che però non riesce mai a chiudere il cerchio. KO
è una parola buffa, se la giri diventa ok, mi piaceva metterlo alla
fine.
Nella storia narri che
soffre di meteoropatia un italiano su quattro. Com’è venuta fuori
questa cosa?
Io stesso soffro di
meteoropatia e venendo da Livorno, una città dove c’è sempre il
sole e siamo abituati bene, ho fatto delle ricerche e ci sono degli
scienziati che sostengono questa cosa e che addirittura i sintomi
depressivi legati al tempo stiano aumentando fino a farla diventare
una vera e propria patologia. La meteoropatia è l’argomento
principe in ascensore quando non si sa di cosa parlare. Oggi è quasi
come se fosse uno specchio di quello che ci accade. È febbraio e a
Roma fa caldo, sembra una giornata estiva e ciò scombussola tutto.
Secondo me è una bella metafora di quello che sta accadendo.
Dove hai affinato il tuo
umorismo sottile?
Ho due vite come il
Dottor Jekill & Mister Hyde. Vengo dal cabaret, a Livorno faccio
Zelig Lab ed il mio primo amore rimane quello, far ridere. L’altra
parte di me è quella che esprimo tutta in questo spettacolo e che ho
imparato da Paolo Migone che è livornese come me e con il quale ho
avuto la fortuna di poter lavorare per due anni e che mi ha fatto
conoscere la comicità surreale che non arriva come un pugno ma
all’improvviso. Il pugno ti fa ridere lì per lì, ti alzi, hai
passato una bella serata e te ne vai. La comicità fatta in questo
modo come in MeteropatiKo, te la porti dentro per un po’ di giorni.
È senz’altro più difficile perché devi chiedere allo
spettatore uno sforzo in più, non è come il cabaret che è come un
self-service. Questo spettacolo è scritto insieme a Carlo Neri con
un racconto molto folle e surreale che però sta piacendo tanto e
quindi sono molto contento.
Racconti surreali tenuti
insieme da un filo logico. Riesci sempre a catturare il pubblico?
Purtroppo no, questo
dipende dal fatto che è molto faticoso perché come me ci sono molti
artisti che portano spettacoli che hanno bisogno di più tempo per la
comprensione. Ci sono persone che sono venuti a vedere lo spettacolo
per due volte e si sono resi conto di alcune cose che non avevano
visto la prima volta. Secondo me oggi il Teatro deve essere questo.
Ci deve essere comunque un rapporto in cui non ti dico subito quello
che accade. Oggi accade una cosa dall’altra parte del mondo ed in
un secondo lo sappiamo. Abbiamo perso un po’ la ricerca di una
storia, di un colpo di scena. C’è bisogno di qualcosa che per un
quarto d’ora vaghi nel nulla e poi alla fine tutto torna. Questa
cosa è molto faticosa, però ci credo tanto. Le persone che vengono
a vedere lo spettacolo e che ne percepiscono lo stile, sono quelle
che ti porti dentro.
Una carrellata di
personaggi da Claudio il grande, Jorge, Suarez il pappagallo, alla
bambina-ragazza che non piange mai. Dove hai trovato gli spunti?
Ho una gran fortuna e lo
dico con umiltà, ho una creatività incredibile. Guardando le cose
di tutti i giorni, in alcuni momenti della giornata scrivo, il
personaggio di Claudio l’ho scritto in un’ora e le parole che
dico nello spettacolo, sono esattamente quelle che ho scritto. Nello
spettacolo è importante uscire dal testo e rappresentare i
personaggi visivamente come se esistessero davvero. Ogni spettatore
dà ad un personaggio un significato diverso.
Viviamo da tempo una
grande crisi economica, secondo te la meteoropatia va d’accordo con
il nostro mal di vivere?
È una sintesi di una
patologia che può esserci insieme a tante altre come il cibo, la
ricerca del lavoro e la meteoropatia secondo me un po’ se ne
accorge.
All’inizio dello
spettacolo dici “Non è una storia ma un intreccio di storie”.
Come te la cavi a venir fuori dall’intreccio?
Spero sempre che il
bandolo della matassa arrivi fino in fondo a dipanarsi. È importante che ovunque vada, gli spettatori ci si affezionino. Non è
semplice perché oggi siamo abituati alla risata pà-pà la nostra è
una risata musicalmente diversa.
Ci si accorge dell’amore
quando non c’è più.
Il personaggio fa di
tutto per conquistare l’amore della sua vita. Per paura oggi non si
fanno un sacco di cose. Il messaggio di questo spettacolo è di non
rimandare le cose. E’ un finale amaro perché il personaggio non
lascia mai l’ombrello, prova a dirlo, prova a farlo ma non ce la
fa. Ogni personaggio ha una vita a sé, Claudio suo malgrado è un
eroe ma non vuole esserlo. E’ un po’ la vita di tutti, c’è chi
si trova in posti dove non vuole stare eppure c’è. Chi vorrebbe
fare e non può. Invece Jorge e Suarez alla fine riescono a vincere e
a scappare. Tutto ciò è l’intreccio della storia. Amo molto gli
intrecci, i percorsi che fino al finale non capisci. Secondo me sono
gli spettacoli più belli perché lo spettatore è chiamato in causa.
Parli spesso di
perturbazioni provenienti da Nord-est ma c’è un significato
politico?
Macché! Se guardi il
telegiornale, la perturbazione arriva sempre da Nord-est.
L’anno scorso lo
spettacolo è stato in scena al Kopo. Quest’anno al San Luigi
Guanella di Roma, in quali altri posti l’hai portato?
Firenze, Arezzo, Livorno
e presto saremo a Pordenone, Torino, Napoli, Salerno forse a Bologna
ed a Parma. Sta partecipando a dei festival, l’attenzione su questo
spettacolo è molto alta e secondo me ne vale la pena.
Da Nord a Sud chi
reagisce meglio e perché?
Reagisce molto bene il
pubblico abituato. Questo è uno spettacolo che fa pubblico con il
passaparola. A Firenze è stato rappresentato al Teatro del Sale che è
gestito da un’attrice bravissima Maria Cassi insieme al marito che
è un cuoco. Prima dello spettacolo si cena. Ho iniziato alle 21 e
prima alle 19,30 c’era il caos. Persone che mangiano, urlano, la
cucina a vista. Eppure è stata una serata fantastica. Dopo aver
mangiato, levano tutto e si mettono davanti al palco. A me servono
anche le serate come queste, sai che lo spettacolo deve abbassarsi un
po’, sai che devono essere aperte delle finestre per far entrare il
pubblico, è come un’uscita di sicurezza per prendere quelli che si
perdono. Non manca molto alla perfezione.
Che formazione hai avuto?
Non ne ho avuta nessuna,
sono un autodidatta anche se lavoro con La Compagnia degli Onesti di
Emanuele Barresi, ho avuto anche modo di lavorare in altre compagnie,
imparo sul campo. Da Migone in poi ho avuto sempre la fortuna di
trovare i Maestri che mi hanno dato sempre il meglio. La tecnica oggi
la fa da padrona perché uno pensa “Se mi presento bene se faccio
bene le cose” invece penso che non si tratta di esser bravi, si
tratta di saper raggiungere le persone. La tecnica ti aiuta ad
arrivare fino in fondo, come dice un video di Claudio Aspesi che ho
visto da poco. Esistono le Accademie dei comici come se i tempi e la
comicità si possano imparare. Certamente serve perché è la lingua
universale. Senza però tutto il resto sei una scatoletta con una
confezione bellissima ma vuota dentro. Faccio tantissimi spettacoli
con un pubblico sempre diverso, scrivo tutto io ed ogni volta ho modo
di relazionarmi con persone diverse. Ho studiato la tecnica perché
serve ma non perdo mai l’istinto di sapere dove andare. Nel cabaret
o in cima o in fondo, improvviso sempre e la gente se ne accorge.
Elisabetta Ruffolo