Jacopo Costa spiega la filosofia della nuova formazione da lui guidata, i Loomings. Un ensemble assai attento all'interscambio tra diverse esperienze - una sorta di ampio arco che connette colto e popular - che debutta sotto l'egida AltrOck con Everyday Mythology.
Milanese di stanza a Strasburgo, Jacopo Costa è un percussionista colto e poliedrico, che nonostante la giovane età ha all'attivo numerose collaborazioni con formazioni da camera e orchestre, ma anche con nomi cari agli amanti del rock progressivo come Yugen, Camembert, Ske, Francesco Zago, Factor Burzaco e Not A Good Sign. Nel 2002 fonda Loomings con il percussionista Enrico Pedicone, la vocalist Maria Denami e un manipolo di validi musicisti, abili nel muoversi in territori musicali di confine.
Il disco d'esordio Everyday Mythology sfrutta appieno le diverse provenienze dei musicisti coinvolti, spaziando tra musica eurocolta, rock d'avanguardia, funk e jazz, stuzzicando sia gli appassionati di Rock In Opposition che di pop sperimentale. L'intervista.
Everyday
Mythology
è l’album di debutto dei Loomings, un tipo di sonorità e di
lavoro caro ai seguaci della AltrOck, che sicuramente si ricordano di
te per la collaborazione con Yugen. Partiamo proprio da qui: quali
sono le differenze tra il gruppo di Francesco Zago e il tuo?
Yugen
è in effetti “il gruppo di Francesco Zago”, nel senso che esiste
di volta in volta con geometrie diverse a seconda della natura del
progetto e delle composizioni di Francesco. Per come la vedo io si
tratta di un ensemble di musica contemporanea, sia pure con strumenti
elettrici e stilisticamente influenzato anche dal rock, che esegue i
brani di un compositore. Nel caso di Loomings invece, anche se sono
solo io a comporre le musiche, direi che ci avviciniamo più al
metodo di lavoro classico di un gruppo rock: nonostante ci siano
stati già dei cambiamenti nella formazione dal 2012, il mio
interesse non è di scrivere per determinati strumenti ma per
determinati musicisti, di mettere in luce le qualità artistiche di
ciascuno oppure di proporre loro delle “sfide” dal punto di vista
interpretativo. In questo senso, per noi è importante riuscire a
provare regolarmente in modo da andare al di là della semplice
esecuzione delle partiture grazie al contributo e alla personalità
di ciascuno.
Spulciando
tra le varie collocazioni di genere fornite dai gruppi c’è da
divertirsi, e mi ha colpito molto la vostra: Highly idiosyncratic
music… Ce la spieghi?
In
effetti è quasi uno scherzo. Un’altra definizione che ci eravamo
dati in concerto era “rock fenomenologico”, dicendo al pubblico:
“Credete di non sapere cosa voglia dire, ma se cercate dentro di
voi lo scoprirete”. In realtà con definizioni e “uscite” del
genere vorremmo sensibilizzare il pubblico circa il valore delle
etichette di genere, che spesso diventano più un ostacolo alla
libera espressione che altro. Per un concerto che faremo a breve i
programmatori ci hanno definiti “indie prog wave”: cosa vuol
dire?! Insomma il messaggio è: ascoltate la nostra musica e cercate
di capire se vi piace o no e perché piuttosto che preoccuparvi di
definirla in un modo o in un altro.
Everyday
Mythology
è un buon esempio di convivenza tra musica popular, jazz e colta:
qual è il territorio comune sul quale tu lavori?
Molto
spesso i materiali di partenza appartengono più al vocabolario
pop-rock, ma sono combinati secondo delle logiche compositive che
spesso si avvicinano alla musica accademica. Quanto al jazz, confesso
di essere un dilettante in questo campo, anche se vari critici hanno
già accostato Everyday
Mythology al
jazz: di sicuro certi colori armonici, piuttosto che certe “pronunce
strumentali” si avvicinano all’universo jazzistico. Il fatto più
importante però è che siamo un gruppo che comprende cantanti
liriche, musicisti più vicini al jazz e al funk, mentre io ed Enrico
Pedicone abbiamo una formazione di percussionisti classici oltre ad
aver studiato la batteria ed essere vicini per passione al mondo
della popular: essenzialmente cerco di mettere in valore le qualità
di ciascuno.
Dopo
aver studiato a Milano, sei da vari anni a Strasburgo, dove hai
proseguito gli studi: quanto è stato importante il confronto con una
realtà del genere?
E’
stato fondamentale, non credo che avrei intrapreso un’esperienza
come quella di Loomings se fossi rimasto in Italia. In effetti, il
gruppo è nato dopo che nel 2012 ho avuto la possibilità di
organizzare al Conservatorio di Strasburgo un concerto di “rock da
camera” con dodici musicisti (su composizioni mie, arrangiamenti di
brani di Zappa, Henry Cow, Hatfield and The North, Beatles, King
Crimson e anche un brano di Zago): dopo quell’esperienza ho
“trattenuto” alcuni elementi per poter costituire una formazione
stabile fuori dal conservatorio. Il punto è che qui mi sono sentito
stimolato a cercare la mia via espressiva e a proporre qualcosa del
genere, cosa che non potrei affatto dire della mia esperienza
milanese…
Hai
all’attivo diverse collaborazioni in area colta, con ensemble e
orchestre: quanto prende Loomings da queste esperienze e quanto se ne
distacca?
Alcune
composizioni prendono spunto da idee che mi sono venute frequentando
la musica classica, soprattutto contemporanea ma non solo (mi piace
molto la polifonia rinascimentale ad esempio e scrivendo per più
voci è un riferimento ineludibile). Ad un livello più profondo
direi però che c’è un enorme patrimonio di conoscenze nella
musica classica legato non tanto al “cosa” ma al “come”, cioè
ai fraseggi, alle intenzioni espressive, al senso del tempo e al
legame tra ritmo, melodia e armonia: il fatto di compenetrare
l’approccio rock con quello classico, a livello di metodologia
oltre che di materiali, rappresenta un territorio ancora per lo più
inesplorato.
Loomings
predilige la scrittura o ci sono anche spazi aperti
all’improvvisazione?
Per
il momento la scrittura prevale anche perché, almeno per la
formazione di Everyday
Mythology,
l’unico in grado di improvvisare in modo credibile era il nostro
bassista Louis Haessler. Ora il gruppo, dopo la partenza di Benoît
Rameau, comprende un tastierista, Nils Boyny, che è un ottimo
improvvisatore: per il futuro prevedo di includere più momenti non
interamente scritti.
Black
e Lockjaw
sono dei dichiarati omaggi ai Led Zeppelin: quali sono i motivi di
questa scelta e con quale approccio hai elaborato il materiale
zeppeliniano?
Gli
omaggi a Black
Dog
sono dovuti al fatto che è uno dei miei brani preferiti di sempre,
un concentrato di intelligenza, arditezza, economia di mezzi ed
energia sonora. Ho scelto alcuni estratti del brano originale e li
ho rielaborati “filtrandoli” in vario modo: nel caso di Black
ho utilizzato il motivo ritmico all’inizio delle strofe dei Led
Zeppelin come ostinato e, nel finale, le strofe intere come una
specie di cantus firmus per costruire una polifonia dissonante.
In
Lockjaw
invece
ho fatto un découpage della frase di chitarra che risponde a Robert
Plant e ho poi riassemblato i vari “ritagli” secondo varie
procedure. Naturalmente ho anche composto ex novo varie sezioni dei
brani, senza riferimenti specifici a Black
Dog.
Accanto
a te alle percussioni c’è Enrico Pedicone: in base a quale
criterio vi siete suddivisi spazi e direzioni?
Essenzialmente
vorremmo tutti e due suonare solo la batteria, per cui facciamo dei
compromessi per “chi si deve sorbire il vibrafono” di volta in
volta. Scherzi a parte, so che un gruppo con due percussionisti
“intercambiabili” può sembrare strano: più che avere un altro
percussionista nel gruppo per me è importante poter lavorare con
Enrico, che è un musicista molto sensibile e dà un contributo
essenziale alle nostre scelte artistiche.
Come
dottorando in musicologia, ti stai dedicando alla musica
sperimentale: ritieni ci siano ancora spazi inesplorati nei quali
sperimentare?
Di
sicuro. Come accennavo prima sono convinto — ad esempio — che un
incontro tra sensibilità popular e classica a livello profondo (che
vada al di là di suonare temi classici con la chitarra elettrica o
viceversa, per intenderci) sia ancora una sfida da intraprendere. Lo
stesso si potrebbe dire di altri repertori. Saper cogliere le
peculiarità e le ricchezze delle varie tradizioni e coniugarle
rappresenta per me (e per tanti altri musicisti oggi) il vero
“esperimento”; peccato che in ciò le istituzioni siano
(generalmente parlando) ancora in ritardo.
Loomings
è un progetto di gruppo, ma tu hai anche una dimensione solista con
Headless: cambia solo il numero delle persone coinvolte?
Heedless
è
un lavoro ancora molto giovane e che deve prendere ancora una forma
precisa; essendo, come Loomings, un progetto sotto la mia direzione
artistica, è chiaro che vengono fuori le stesse inclinazioni
estetiche. In compenso il fatto di lavorare con altri mezzi e di
dover fare “tutto da solo” mi costringe a trovare delle soluzioni
che non adotterei in una situazione di gruppo. Forse i due artisti
che mi ispirano di più per questo progetto sono da un lato Wyatt,
per la sua capacità di essere poetico anche con una grande economia
di mezzi, dall’altro Prince, che ho cominciato ad apprezzare di
recente e che offre grandi spunti per l’uso dell’elettronica e
per le idee di arrangiamento. Mi piace l’idea di orientare almeno
parte della mia produzione verso un pop “cesellato”, che si
tratti di Heedless o di Loomings.
Info:
Loomings:
Everyday
Mythology
BandCamp:
JACOPO
COSTA & LOOMINGS - Biografia
Jacopo
Costa
intraprende lo studio della batteria con Corrado Ciceri all’età di
quindici anni; in seguito è ammesso alla classe di percussioni del
Conservatorio G. Verdi di Milano, dove studia con Maurizio Ben Omar.
Tra il 2008 e il 2009 beneficia di una borsa di studio Erasmus che
gli permette di studiare al conservatorio di Strasburgo,
nella classe di percussioni tenuta da Emmanuel Séjourné, Stéphan
Fougeroux e Denis Riedinger: decide a questo punto di trasferirsi
definitivamente in Francia e negli anni seguenti ottiene un master in
percussioni presso il conservatorio-Haute Ecole des Arts du Rhin di
Strasburgo e intraprende lo studio dello cymbalum nella classe di
Luigi Gaggero (unica classe in Europa occidentale dedicata a questo
strumento di origine ungherese), diplomandosi nel 2013
e ottenendo un diploma di specializzazione nel 2015.
Nel
corso degli anni Jacopo Costa ha l’occasione di collaborare, sia
come percussionista sia come cembalista, con varie formazioni
di musica da camera e orchestre,
tra cui Texture Ensemble (di cui è il percussionista stabile dal
2008), Ensemble l’Imaginaire, Orchestra Nazionale della RAI di
Torino, Orchestra dell’Opera di Nancy, Bamberger Symphoniker, Junge
Deutsche Philarmonie. Dal
2013 Costa ha intrapreso un dottorato in musicologia all’Université
de Strasbourg, nell’ambito dei popular
music studies,
per il quale sta scrivendo una tesi sul rock
sperimentale
e che lo ha già visto partecipare a diverse conferenze
internazionali come relatore.
La
passione per il rock
sperimentale
di artisti quali Frank Zappa, Soft Machine o Henry cow, che fin
dall’adolescenza ha spinto Jacopo Costa nel mondo della musica,
negli ultimi anni gli ha dato modo di prodursi (dal vivo o per
produzioni discografiche, alle percussioni o alla batteria) con
diverse formazioni e artisti di rock d’avanguardia (Yugen,
Camembert, Ske, Francesco Zago, Factor Burzaco,
Not A Good Sign).
Attualmente l’attività artistica
di
Jacopo Costa si
focalizza nei due progetti Loomings
(band
attiva dal 2012 per la quale scrive e arrangia le musiche, oltre a
suonare le percussioni) e Heedless,
neonato
lavoro
solista
che
lo vede impegnato tra vibrafono, voce ed elettronica con un
repertorio che spazia dalla musica contemporanea ad arrangiamenti di
canzoni pop passando per composizioni originali.
Alla fine del 2015 Loomings debutta per AltrOck con Everyday
Mythology.
Loomings:
Jacopo
Costa: vibes, acoustic drums, glockenspiel, tubular bells,
percussions synth, fender rhodes, piano, cymbalum, percussions, some
vocals
Maria
Denami: vocals, kazoo
Ludmila
Schwartzwalder: vocals, kazoo
Benoît
Rameau: vocals
Louis
Haessler: bass
Enrico
Pedicone: vibes, acoustic drums, glockenspiel, tubular bells,
percussions