Cinema. "Il figlio di Saul" di László Nemes, la Shoah negli occhi di un padre. La recensione

Da ieri nei cinema italiani "Il figlio di Saul", opera prima del regista ungherese, László Nemes: l'orrore di Auschwitz vissuto attraverso l'esperienza di un uomo. Film che ha già avuto riconoscimenti importanti e meritatissimi: il Gran premio della giuria all'ultimo Festival di Cannes e il recentissimo Golden Globe come "Miglior film straniero", categoria per la quale corre anche ai prossimi Oscar. Il servizio di Luca Pellegrini

Ad Auschwitz nel 1944 bisognava far presto: il potere del Reich scricchiolava, con le truppe sovietiche ammassate ai confini della Polonia, e i "pezzi" (Stücke), come sono chiamati dai nazisti - ossia uomini e donne, anziani e bambini - arrivavano a migliaia nei treni blindati e a migliaia erano condotti al macello del gas, del piombo, del fuoco, fino a diventare cenere dispersa in un fiume. Saul è un ebreo ungherese inghiottito da quel mondo affogato nel sangue e nella follia, in cui rumori e grida incessanti sovrastano vittime immobili e carnefici in movimento. Fa parte dei "Sommerkommando" del campo, ossia quel gruppo addetto alle pulizie delle "docce" e dei locali in cui si ammassano cadaveri per essere condotti ai forni, ingranaggio della più sistematica catena di montaggio creata dalla storia per l'eliminazione totale di un popolo.
Il volto del figlio

Il 27 gennaio si fa Memoria universale della Shoah, per riflettere sulle nostre più acerbe ferite, e il film scritto e diretto da László Nemes, trentasettenne regista ungherese, entra in profondità nella carne piagata dell'umanità. Un giorno Saul - ruolo affidato al poeta e scrittore ungherese Géza Röhrig, volto espressivo, sguardo quasi assente per difendersi dall'orrore che vede e vive - mentre ripulisce dai corpi una stanza, ne scova uno che lo colpisce: è quello di un ragazzino che lui pensa essere suo figlio. E' in fin di vita, il medico nazista lo soffoca e lui s'impone una missione: non permettere lo sfregio del cadavere, assicurargli il riposo eterno dandogli una sepoltura ebraica accompagnata dalle preghiere del Kaddish levate da un rabbino, che per questo si mette freneticamente a cercare tra i nuovi arrivati. E' questo suo punto di vista che Nemes assume come paradigmatico: «Non potendo fare un film dell'orrore - ha precisato - ho deciso di seguire Saul senza andare oltre la sua presenza e il suo campo visivo e uditivo. Il film mostra quello che lui vede: niente di più e niente di meno.

Claustrofobia etica

Tra questo "più" e questo "meno", l'angoscia, che va dritta dritta a lambire la nostra coscienza, è però sufficiente, generando un senso di claustrofobia reale e etica che inabissa lo spettatore nell'oscurità, partecipando all'esperienza di Saul, che si erge a rappresentare quella dei milioni di vittime del genocidio. E il sorriso di un bambino, prima della mietitura finale degli uomini, è l'aspra testimonianza di quanto sia facile varcare il sottile confine dell'indifferenza, diventando così troppo spesso della storia spettatori distratti e imbelli. Ruolo al quale Nemes, guardando anche al nostro futuro e alle tragedie di oggi, cerca doverosamente e coraggiosamente di sottrarci. Luca Pellegrini, Radio Vaticana, Radiogiornale del 22 gennaio 2016.
Fattitaliani

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