L’AQUILA
- Un gran successo l'incontro a più voci "Cultura
ed Economia, certezza di futuro",
svoltosi sabato scorso 26 settembre a Corbellino
(L’Aquila),
nella splendida cornice del complesso S. Sebastiano, appena
inaugurato dopo un pregevole restauro.
Grande soddisfazione per il
sindaco di Fagnano Alto, Francesco
D'Amore,
e per tutta l'Amministrazione comunale del piccolo centro della Valle
Subequana,
capace di esordire a qualche mese dall’insediamento su temi di
grande attualità: in questa occasione sui rapporti tra economia e
cultura nello sviluppo dei territori dell’Abruzzo interno ricchi di
valenze artistiche, architettoniche ed ambientali. E quale ruolo può
recitare il mecenatismo in ambito culturale, ammesso che oggi esista
un mecenatismo tout court. Su questo aspetto, galeotto è stato il
libro presentato nella serata, "L’incontro
D'Annunzio-Del Guzzo: il tenace colono latino"
di
Maurilio
Di Giangregorio,
infaticabile ricercatore di storia locale, ingegnere quasi in
pensione la cui straordinaria passione sono gli archivi, le fonti
documentali, le ricerche attraverso la memoria orale e la cornucopia
dei fondi familiari, che sovente risultano grandi scrigni di storia e
di storie. Di Giangregorio ha la pazienza e l’assiduità di
affrontare ogni impresa e di regalare alla cultura storica abruzzese
sempre risultati assai interessanti. Con un rigore che lo connota
come un cultore della ricerca storiografica secondo i canoni del
grande Jacques Le Goff. Forse ha davvero ragione il mio amico Mario
Setta
che recentemente mi confidava: “La
storia non è fatta dagli esperti, ma dagli amanti dell'umanità”.
Tornando
al tema dell’incontro, oltre a Maurilio
Di Giangregorio,
autore del libro sulla singolare vicenda di “mecenatismo” di
Giovanni
Del Guzzo
- un abruzzese emigrato di successo in Argentina
-
a beneficio di Gabriele
d’Annunzio,
sono intervenuti nell’ordine il sindaco Francesco
D’Amore,
la presidente di One Group Francesca
Pompa,
lo scrittore Giacomo
D’Angelo,
il giornalista Antonio
Del Giudice,
il segretario generale dell’Istituzione Sinfonica Abruzzese
Giorgio Paravano
e l’imprenditore Alido
Venturi.
La giornalista Angela
Ciano
è stata brillante moderatrice del convegno. Numeroso ed attento il
pubblico che ha seguito l’iniziativa culturale, della quale è
stato perfetto anfitrione Fulvio
Turavani,
per molti anni sindaco di Fagnano Alto. Sarebbe troppo lungo riferire
sugli interessanti spunti venuti dai relatori. Mi permetto di
scegliere l’intervento svolto da Giacomo
D’Angelo,
che volentieri l’ha messo a disposizione, per le puntuali
annotazioni di merito sulla vicenda d’Annunzio-Del Guzzo, e per la
sua franchezza, che lo confermano nella veste di “parresiaste” in
ambito culturale. E non solo. (gopalmer)
***
Il
mecenate
di
Giacomo
D’Angelo
Il
titolo ampolloso di questo incontro, che apre a temi di respiro
universale e futuribile, richiama l’ironia di Antonio
Gramsci
che liquidava la pomposità degli editoriali dei giornali dei primi
del ‘900 con la formula «brevi
cenni sull’universo».
Per compenso, la montagna himalayana del titolo frana nel topolino
del sommario casereccio che però si gonfia di altra locuzione
categorica, con l’espressione «mecenatismo d’avanguardia», un
inedito sintagma, un hapax
legomenon
che genera un fatidico dubbio: esiste o è esistito un mecenatismo di
retroguardia?
Essendo
del tutto impreparato nelle questioni di frontiera, per parafrasare
un saggio di Franco
Fortini,
mi occuperò dell’avventura e/o disavventura che mise sulle piste
del Vate, poeticamente alate e finanziariamente dissestate
(condizione usuale), un cittadino di Caporciano
(il padre di Pedicciano, frazione di Fagnano Alto, la madre di
Carapelle Calvisio), emigrato in Brasile
e poi in Argentina,
dove aveva capitalizzato un’enorme fortuna, grazie alla produzione
di un sistema antisismico per le costruzioni, che gli procurò la
stima del mondo politico. Il 4 (o l’8?) marzo 1910 incontra
d’Annunzio
a Bologna all’hotel Brun e riceve in regalo dal poeta una copia del
suo ultimo romanzo, Forse
che sì forse che no,
con la dedica: «Al
Messia invocato e sopraggiunto. A
Giovanni
Del Guzzo, con osanna».
D’Annunzio era generoso con i suoi autografi, che in seguito
costituirono una delle boccate d’ossigeno pecuniario, ma in
particolare lo fu con Del Guzzo, perché ricevette dal corregionale
la proposta di un giro di venti conferenze in Argentina, in occasione
dell’Esposizione Mondiale di Buenos
Aires
e un’ode per celebrare il centenario di quella nazione. Il patto
comportava un anticipo di 45.000 e il resto di 500.000 che avrebbe
azzerato i debiti del poeta, assediato dagli «usurieri».
Dopo un altro incontro in Toscana, il 23 marzo, viene firmato tra i
due un «patto d’alleanza». Il giorno dopo, Del Guzzo s’imbarca
a Genova per tornare in Argentina,
si porta dietro 17 manoscritti di opere dannunziane e l’automobile
Florentia, sfuggita al sequestro dei beni della Capponcina, la villa
che d’Annunzio aveva addobbato lussuosamente, secondo il suo gusto
fatto per il «superfluo».
Il poeta ripara a Parigi
con
il pretesto di curarsi i denti, in realtà l’aspettano Natalia
De Goloubeff,
una contessa russa, Ida
Rubinstein,
Romaine
Brooks,
la moglie donna Maria e passa di salotto in salotto, scialando nella
mondanità la somma cospicua messagli a disposizione dall’editore
francese Calmann-Lévy. Naturalmente dimenticò Del Guzzo, non
rispose ai suoi tanti telegrammi. Del
Guzzo
per vendetta pubblicò nel 1911 la Catilinaria
Delguzzina,
una filippica di «cretinaggini e di particolari più o meno veri e
succosi» (Antongini), intitolata Pignus
ac monumentum amoris di Gabriele d’Annunzio al “tenace colono”,
che suscitò l’indifferenza dei pochi lettori. Due anni dopo Del
Guzzo visitò d’Annunzio a Parigi e ci fu pace tra i due,
nonostante l’inadempienza contrattuale del Poeta. Si chiede
Guglielmo
Gatti
nella sua biografia: «Chi
dei due fu l’inadempiente? O meglio, chi dei due, il “tenace
colono” o il Poeta, fu il più ingenuo?».
Come rileverà Benigno
Palmerio,
amico abruzzese di d’Annunzio, a Del Guzzo non andò del tutto
male, perché dagli autografi del Poeta ricavò quanto gli aveva
anticipato.
Questo
episodio dell’inimitabile vita del d’Annunzio
è stato citato con poche righe dai suoi biografi, il cui numero
cresce nonostante il trascorrere del tempo. Alla colluvie dilagante
di scritti dei tantissimi esegeti, accademici e non, si aggiunga che
ogni sovrintendente del Vittoriale non resiste alla pulsione
irrefrenabile o alla vanità grafomane di partorire il racconto della
vita del Poeta -pensando di ricavarne un frustolo di gloria, alla
maniera di Erostrato che bruciò il tempio di Efeso-, anche se spesso
le loro fatiche non brillano per valore scientifico o ricerche
originali ma rilucono di piattezza espositiva e di attediante
monotonia. Tra i primi a portare alla ribalta pubblicistica il Del
Guzzo va ricordato Tom
Antongini,
segretario e factotum
di d’Annunzio (fu anche suo procacciatore di danaro e di altro
fabbisogno), autore di ben cinque libri sul poeta, scritti dopo la
sua morte, gremiti di particolari piccanti e spesso imprecisi (uno
dei libri è intitolato Quarant’anni
con D’Annunzio,
in realtà furono trenta), che etichetta la storia di Del
Guzzo
come una «immensa frottola», una «leggenda», definendolo uno
«pseudo
mecenate italo-americano» e
scrivendo:
«Di lui non serbo che il ricordo divertente di un provinciale
dall’aria affabile
e
leggermente contrita, che
girava
per Parigi costantemente in smoking dalle sei del mattino a
mezzanotte» (come
si può
vedere
in una fotografia riportata nel libro del Di Giangregorio). Di certo
l’Antongini, che fu autore sapido di libri umoristici (L’immortale
testamento di mio zio Gustavo
è un testo che offre ancora oggi il piacere della lettura), in cuor
suo classificava il Del
Guzzo
tra i mattoidi di cui in quegli anni scriveva il Carlo
Dossi
delle Note
azzurre,
e nel trovarlo mescolato alla turba di personaggi stravaganti che
avvicinavano il poeta, ricordava una sua frase: «I matti mi volano
intorno come le farfalle intorno ad una lucerna». I giudizi
riduttivi di Tom Antongini e il ritratto che disegna di Del Guzzo,
non potevano essere graditi a quest’ultimo, che nel suo libro
Gabriele
D’Annunzio senza segreti (uscito
nel 1940 per l’editore Airoldi) dedica grandinate di insulti al
«superbiografo»
e al «ciarpame
diffamatorio»
dei suoi scritti.
Nel
1956 esce la biografia dannunziana di Guglielmo
Gatti
(ristampata nel 1988 con l’introduzione di Paolo Alatri) che rimane
tra le più valide e che è stata saccheggiata da molti perché la
più ricca di testimonianze e apporti di altri studiosi e la più
completa pur ammettendo l’autore di non aver potuto consultare lo
sterminato epistolario dannunziano, ancora oggi inesplorato per larga
parte (scrisse quasi 100.000 lettere, sparse tra archivi e privati,
molte bruciate, come quelle alla Duse
e a Barbara
Leoni,
smarrite o inedite). Gatti dedica a Del Guzzo il maggiore
approfondimento che non subirà arricchimenti dagli altri biografi.
Piero
Chiara,
biografo antipatizzante del Vate, non lo amava, le sue simpatie si
indirizzavano al Casanova, dedica spazio al Del
Guzzo,
«un
abruzzese ingenuo, generoso, patito di letterati più che di
letteratura»:
dietro la cura
di
Chiara c’è l’intervento di Federico
Roncoroni,
forse il maggior studioso vivente del Pescarese Altre biografie che
hanno dato risalto alla vicenda sono quelle di Paolo
Alatri
edita nel 1983 dalla Utet, di Mario
Schettini,
di Emilio
Mariano,
di Eurialo
De Michelis,
dell’abruzzese Mario
Vecchioni,
dell’altro abruzzese Benigno
Palmerio,
medico veterinario, che visse alcuni anni al Vittoriale. Anche i
biografi stranieri si sono occupati di Giovanni
Del Guzzo,
da John
Woodhouse
(Gabriele
D’Annunzio. Arcangelo ribelle,
Carocci ed. 1999), che con qualche arroganza definisce la sua
biografia «la prima… pienamente documentata di Gabriele D’Annunzio
in qualunque lingua» a quella recente del 2014 di Lucy
Hughes-Hallet,
edita da Rizzoli. Quest’ultima è spigliata e stilisticamente
fluente, aderente allo spirito della tradizione anglosassone che
coltiva questo genere senza borie accademiche (era un vecchio pallino
di Indro
Montanelli,
che accusava gli storici italiani di accademismo retorico), anche se
il libro dell’inglese contiene un giudizio che rasenta la pura
bestialità Infatti la Hughes, dopo aver osservato che d’Annunzio
definì Mussolini un parolaio codardo e schernì Hitler, scrive: «E’
altrettanto palese che Mussolini e Hitler impararono molto da
D’Annunzio e che il resoconto della vita e del pensiero dannunziani
coincide con l’evoluzione degli elementi culturali che, nei
vent’anni successivi all’annessione della «città olocausta»,
diedero il via a un olocausto più grande e più terribile di quanto
lui avesse mai immaginato».
Secondo la disinvolta lady l’olocausto verbale di d’Annunzio
sarebbe all’origine della Shoah. Uno strafalcione così madornale
da suscitare lo sconcerto anche del più feroce antidannunziano, ma
nessuno dei corrivi recensori lo ha notato, nemmeno Paolo
Mieli
nel fluviale commento sul Corriere, per tacere di Giordano
Bruno Guerri,
attuale sovrintendente, pagato profumatamente dal Comune di Pescara
per tutelare la memoria del suo figlio illustre. Ma questi signori,
c’è da chiedersi, leggono i libri di cui parlano?
Il
libro di Maurilio
Di Giangregorio
contiene fin nel minimo dettaglio gli sviluppi, i dati, la contestura
familiare e parentale, gli scritti, i documenti anagrafici, le
recensioni giornalistiche, i telegrammi, i vari materiali scaturiti
dall’incontro Del Guzzo-d’Annunzio. Di
Giangregorio
si è ormai ricavato un suo spazio preciso nella pubblicistica
storica regionale per l’uso catastale, cancellieristico, di
totalizzante gigioneria filologica, con cui confeziona i suoi testi.
Ne ha prodotti molti (Adelchi Serena, don Carlo Gnocchi, Marcinelle,
Panfilo Gentile, Panfilo Serafini, la famiglia Morante, preti,
imprenditori, terremoti, alpini, ecc.), pur non essendo uno storico
di professione, ma un cultore di Clio, la musa della storia, che
ispirò ad Alberto
Savinio
il libro più bello sull’Abruzzo (Dico
a te, Clio,
Adelphi ed.). La passione di Maurilio sono le anagrafi, gli archivi,
i catasti, le documentazioni notarili, le genealogie, gli album di
famiglia, le collezioni di quotidiani, le fonti più varie che gli
consentono uno scavo storiografico che conferisce ai suoi libri
rigore e completezza. I suoi libri si presentano come strumenti di
lavoro per altri ricercatori, in quanto epitomi, abbozzi
enciclopedici, collages di fonti, torte millefoglie con strati misti
di ingredienti. D’Annunzio,
che amava assegnare nomignoli alle sue donne ma anche a tutti quelli
che lavoravano per lui, probabilmente lo avrebbe chiamato
scartoffista,
come fece con Antonio
Bruers,
bibliotecario del Vittoriale. Va detto che il Di Gregorio non insegue
carriere cattedratiche o ruoli da consigliere del Principe (ma i
principi in Abruzzo preferiscono galoppini, con rare eccezioni), per
cui il suo eclettismo disinteressato sorprende sempre per i temi e i
personaggi che tratta. Dal suo libro apprendiamo il prosieguo della
esistenza avventurosa di Giovanni
Del Guzzo,
che non ebbe altre occasioni per sfoderare il suo mecenatismo,
continuò a zappettare l’orticello di rimembranze dannunziane e a
rimuginare acredini e «catilinarie» verso l’Antongini, che
peraltro trenta anni con il Poeta li aveva vissuti. Quindi tornò in
Italia, ebbe un dissesto finanziario, si divise dalla famiglia, tentò
il suicidio, fu ricoverato in una clinica per malattie mentali e poi
al manicomio provinciale di Roma su richiesta della figlia Italia,
colpito da broncopolmonite morì nell’aprile del 1944, a 74 anni.
Annota pietosamente il Di
Giangregorio:
«fu sepolto nel cimitero del Verano, nell’ossario comune perché
poverissimo». Una situazione dannunziana, si potrebbe concordare con
Alberto
Arbasino
che per primo nel suo bellissimo saggio sul poeta abruzzese (vedi
Sessanta
posizioni,
Feltrinelli ed.) scrisse di costante della vita italiana di tutti i
giorni il ripresentarsi di personaggi e di momenti «tipicamente
dannunziani», non soltanto a livello di social comedy o di romance,
ma di un’anima italiana
onnipresente
attraverso ogni metamorfosi della Storia e della Società e dello
Zeitgeist…Entrato
quasi per caso o fortunosamente nell’alone magico dell’Imaginifico,
viene inghiottito da un destino avverso e conclude i suoi tristi
giorni in un’atmosfera da Carolina Invernizio.
Fu
mecenate Giovanni
Del Guzzo?
Resta difficile accostare la sua rocambolesca e kicciosa avventura
con d’Annunzio
ai percorsi di grandi mecenati come Gian
Giacomo Poldi Pezzoli,
Mario
Praz,
Bernard
Berenson
o, per restare in Abruzzo, l’avvocato Luigi
Signorini Corsi,
dediti per un’intera vita allo studio e al culto di stili, arredi,
arti maggiori e minori, mobili, armadi delle meraviglie,
Wunderkammer.
Un altro illustre abruzzese, il banchiere umanista Raffaele
Mattioli,
dominus
per un quarantennio della Banca Commerciale Italiana (quando morì il
quotidiano francese Le Monde dette l’annuncio definendolo «il
più grande banchiere italiano dopo Lorenzo de’ Medici»),
viene comunemente definito mecenate
per la sua straordinaria attività di operatore culturale, di
promotore di iniziative letterarie ed editoriali: la sua agenda di
imprese e di personaggi frequentati è impressionante. Ma ci fu
qualcuno che obiettò a tale accostamento divenuto luogo comune. Fu
l’editore Giulio
Einaudi
(la cui casa editrice, salvata almeno due volte dall’intervento di
Mattioli, si fregia di un motto coniato da lui «Spiritus
durissima coquit»)
che in un intervento del 17 settembre 1975, nel corso di una
commemorazione del banchiere, sostenne che Mattioli «non
fu mecenate perché non chiese mai contropartite all’arte e alla
cultura, ma le spronò sempre alla ricerca, all’approfondimento, e
tese a liberarle d’ogni forma di servilismo»
All’inizio
di questo mio intervento ho premesso di rifuggire da questioni che
investono problemi di portata universale. Il titolo «cultura ed
economia, certezza di futuro» fa tremare le vene e i polsi, per cui
ad attenuarne la carica intimidatoria lo scriverei con un punto
interrogativo. Certezza di futuro? E’ questo il problema, futuro
sì, ma a che prezzo? Naturalmente non ho la pretesa di indicare come
preparare il futuro, un compito superiore alle mie forze, ma di
segnalare i pericoli, le trappole, gli ostacoli da evitare. Il
montaliano «ciò
che
non
vogliamo».
E a chi ricorrere per tali istruzioni sull’uso se non ad un altro
abruzzese, di cui Maurilio si è occupato nel suo bulimico periplo?
Parlo dell’aquilano Panfilo
Gentile,
umanista di sconfinata erudizione, docente di filosofia del diritto
all’Università di Napoli dopo la Grande Guerra, sloggiato anche
fisicamente dagli squadristi, visse da avvocato e studioso del mondo
antico e del cristianesimo, poi saggista politico su “Risorgimento
liberale” e “Il Mondo” di Mario
Pannunzio,
quindi direttore della “Nazione” di Firenze e poi editorialista
al “Corriere della Sera”, da cui si dimise perché sfiduciato
dalla politica, attaccando la DC di De Gasperi -l’ultimo
spalto di ideale guelfo-,
il comunismo ma anche le
malattie senili del trasformismo e dell’opportunismo presenti
nel liberalismo, sempre meno utopia
liberale.
Scrisse quindi su giornali di estrema destra e pubblicò libri
polemici (Polemica
contro il mio tempo,
Opinioni
sgradevoli,
Democrazie
mafiose
presso l’editore Volpe, figlio del grande storico abruzzese,
Gioacchino
Volpe)
in cui travasò le sue amarezze di liberale individualista, di
bastian contrario irriducibile, metà girotondino e metà
tradizionalista, di eretico (Intorno
a lui -ha
scritto Sandro
De Feo-
si
respirava l’odore di zolfo che si sprigiona dalle idee dei grandi
eretici),
critiche lampeggianti di intuizioni che diverranno moneta corrente
negli Anni Novanta verso la corruttela della classe politica, le
degenerazioni partitocratiche, il dogmatismo delle moderne
democrazie, l’arrivismo degli intellettuali. In una sua pagina si
legge: «Da
quando lo Stato è diventato mecenate distribuendo stipendi,
acquisti, sovvenzioni e premi, esso non ha incoraggiato le vocazioni,
ma solo scatenato gli arrivismi…Diventano avversari del potere non
per abbatterlo, ma per essere ricompensati. Sono una varietà degli
opportunismi».
Forse
non inventò il termine partitocrazia, il cui merito viene attribuito
al costituzionalista Giuseppe
Maranini,
ma fu il primo critico delle organizzazioni partitiche che, sotto
forma di macchine ideologico-burocratiche, sequestrano il potere a
beneficio dei loro dirigenti, iscritti, clienti, tirapiedi, famuli,
cortigiani. La sua lucidissima denuncia è stata profetica. Quando
indica i modi in cui lo Stato di diritto viene messo in mora, si
sofferma anche sul «pubblico mecenatismo», consistente «in
sovvenzioni teatrali, premi letterari, graziosi versamenti a titolo
di incoraggiamento o dietro il mascheramento della pubblicità ad un
nugolo di riviste, settimanali e quotidiani, rappresentano la fonte
cui attinge tutto un esercito di spostati, di falliti e di
intellettualoidi di serie B o C. Il compito di questi parassiti è di
fare della propaganda indiretta propinando dissimulati veleni alla
cosiddetta borghesia intellettuale, quella che frequenta le
università, legge libri e giornali, segue gli spettacoli. Il
mecenatismo giornalistico,
editoriale,
teatrale, cinematografico, letterario e universitario è una delle
cause fondamentali del basso livello della cultura contemporanea».
Panfilo
Gentile
scriveva queste cose quando il fenomeno della televisione non aveva
catturato l’egemonia dei mass media, ma nella sostanza aveva
individuato il tarlo di un declino di civiltà. Il suo pensiero
affascinò anche il giovane universitario Luciano
D’Alfonso,
che a Teramo si laureò con una tesi su Panfilo
Gentile,
ma la sua brillante carriera politica non ha fatto tesoro degli
insegnamenti dell’antico maestro, se divenendo governatore della
Regione ha avvertito il bisogno, unico dei presidenti delle regioni
italiane, di occupare la carica di assessore alla Cultura. In Abruzzo
non c’è mai stato un assessore alla Kultur di qualche peso, anzi
la destra e la sinistra, ritenendo la cultura una cenerentola da
manovrare solo per ragioni clientelari, hanno gareggiato
nell’affidare il compito a fantasmi eterei, visconti dimezzati, per
cui si è sperato che il barone rampante di Manoppello salito sulla
groppa di un ippogrifo inaugurasse una stagione di cavalieri
visibili, invece il copione finora presenta uno spento cavaliere
invisibile.