Sull’onda
del successo di "Storia nostra”, spettacolo tratto dal poema in
versi di Cesare Pascarella,
scritto nel 1895 rappresentò il tormento di tutta la sua vita e che
resterà incompiuta (257 sonetti su 350, pubblicata postuma nel
1941), al Teatro Tirso De Molina sarà in scena fino al 24 maggio
“Storia nostra dalla Breccia all’Americani” scritta da Toni
Fornari per la regia di Stefano Messina. Il titolo è in dialetto in
quanto la storia viene raccontata da alcuni avventori di un’osteria,
in romanesco. È’ lo stesso Tony Fornari, nel doppio ruolo di
autore ed attore a parlarcene.
Lo
scorso anno, in un precedente spettacolo, eravamo partiti dal poema
Storia nostra, scritto da Pascarella, morto nel 1940. La sua storia
era fino all’Unità d’ Italia, quest’anno abbiamo pensato di
fare il seguito. Non esistendo i versi di Pascarella, li ho scritti
io. Sempre però in sonetti, alla maniera di Pascarella, abbracciando
il periodo storico dalla Breccia di Porta Pia alla liberazione
dell’Italia, nella seconda guerra mondiale da parte
“dell’americani”,
Il
famoso sbarco ad Anzio...
Visto
che a Roma il mare non c’è, se lo aspettavano a Ponte Mollo.
E’
uno spettacolo musicale, con le musiche di Enrico Blatti. Stefano
Messina è anche un interprete, insieme ad Emanuela Fresi, Simone
Leonardi, Claudia Campagnola e Pamela Massi.
C’è
una battuta che citando i padri costituenti dice: “Gli italiani
partigiani, Giolitti, Nitti, Nenni, Di Vittorio che avevano
combattuto la guerra d’Africa e che dopo furono eletti all’
Assemblea Costituente per redigere la Costituzione…
“La
stessa che oggi sta sudicia marmaglia vogliono fa l’ammodernamento
e la calpestano senza aver vergogna”.
Avete
pensato di portare questo spettacolo, nelle scuole?
Ci
stiamo pensando, sarebbe un modo diverso d’insegnare la Storia.
Tony,
quando è scoppiato il Sacro fuoco dell’Arte?
Da
bambino andavo a scuola e facevo le imitazioni, gli spettacoli
scolastici. Da grande, ho iniziato a seguire mio fratello Augusto che
frequentava la Bottega di Gigi Proietti, una vera e propria Scuola di
Formazione, dove i ragazzi venivano pagati dalla Regione, se non
ricordo male, sulle trenta o quarantamila al mese con le quali
provvedevano alle loro spese extra. Una scuola in cui gli alunni
venivano scelti dopo una rigida selezione e che negli anni ha tirato
fuori grandi personaggi dello spettacolo, uno fra tutti Rodolfo
Laganà.
La
prima cosa importante che hai fatto?
E’
stato uno spettacolo di Goldoni “Il Campiello”, avevo diciotto
anni. L’ho fatto in un teatro piccolissimo a Gavignano, è stata la
prima cosa da professionista. Dopo ho cominciato a fare televisione
con il Trio Favete Linguis e da lì per fortuna non mi sono più
fermato.
Il
trio Favete Linguis che in questo stesso teatro ci ha deliziato con
“Cetra una volta”, sarà in scena anche nella prossima stagione?
L’anno
prossimo sarà in tournée in Italia; invece al Golden, insieme al
Maestro Vincent Tempera faremo una cosa molto particolare sulla
storia di Sanremo.
Il
Teatro è ancora un posto dove ci si può esprimere liberamente?
Assolutamente
sì, non ci dice niente nessuno, questo è uno spettacolo
autoprodotto. L’altra sera vedevo in televisione, uno sketch con
Raimondo Vianello, tratto da Noi no (1978). La cosa che mi ha colpito
è che facessero un tipo di spettacolo che oggi non ti
permetterebbero mai di fare. Nonostante allora ci fosse la censura,
c’erano battute pesanti, sulla morte della moglie. Tutti
consigliavano di rinviare la puntata, lui invece insisteva sulla
messa in onda. Era una cosa molto irriverente che oggi non potremmo
fare. Oggi non si può parlare della morte. Spesso ho scritto delle
battute per dei comici e venivo censurato dal presentatore o dal
Dirigente. Oggi abbiamo sdoganato tutto ma su alcune cose si è
tornati ad essere più rigidi che negli anni sessanta.
Monicelli
diceva “La commedia all’Italiana è finita quando i registi hanno
smesso di prendere l’autobus”. Che ne pensi?
Penso
che sia vero, perché la commedia all’italiana parla della vita del
popolo. Se non sapevi cosa significasse vivere tra loro, non potevi
essere reale nel raccontarlo. Oggi la Commedia tende a stigmatizzare,
a banalizzare alcuni stereotipi: il coatto ed altri, fino a
racchiuderli in un clichè. Nulla a che vedere con la satira di un
tempo che giustamente Gigi Proietti definisce l’anagramma di
risata.
Elisabetta
Ruffolo