Tornare
al Ravenna Jazz non è mai un fatto di routine. D’altra parte la
storia di questa manifestazione, che si contende con l’Umbria Jazz
il primato di longevità dei festival nostrani, incute rispetto e se
la memoria di quei mitici tempi ci riporta a quella prima in Perugia
in Piazza IV Novembre nell’agosto del ‘73 con i Weather
Report, subito dobbiamo rendere giustizia a Ravenna che a partire
dal ’74 riuscì ad intercettare nei suoi primi anni di vita
fenomeni come Charles
Mingus, Archie Shepp, Dizzy Gillespie, Art Blakey, Dexter Gordon, Max
Roach, Stan Getz,
Art
Pepper.
La storia va avanti, a volte va anche indietro, la musica cambia con
i tempi, i tempi si fanno più duri sia per musicisti che per
organizzatori, ma non cambia l’emozione di ritrovarsi in un sempre
più raro jazz club per la 42° edizione del Ravenna Jazz.
E
di questa rarità ne resta ancora traccia a Ravenna col Mama’s
Club, storico locale che in queste serate si ricorda delle proprie
origini e ospita con calore unico il “Groovology Trio” di
Alessandro Scala (sax), Stefano Paolini (batteria) e Leo Corradi
(hammond), accompagnato dalla tromba di Fulvio Boltro. I musicisti
hanno presentato i brani della loro ultima registrazione, “Groove
Island”, uscita con la Schema Records.
Convincente
l’evoluzione della musica di Scala che ha cercato in questo
progetto di ben strutturare il ritmo dei vari pezzi segnandoli con
una raffinata e intensa ripetitività groove. Non poteva essere che
così vista la precisione e la forza dall’hammond di Leo Corradi –
piacevolissima scoperta della serata! – che con minime variazioni
ha esplorato le sequenze ritmiche dei vari temi, unendoli e
amalgamandoli, riuscendo perfino a coprire il ruolo del bassista con
un preciso uso della pedaliera. Il resto è stato il risultato del
continuo dialogare di tromba e sax, cercato in continuazione sul
palcoscenico, provato e trovato attraverso un intenso work
in progress per
tutta la serata.
Sempre
potenti i suoni di Boltro, che, espandendo le sue note con forza
estrema, ha sporcato fino a graffiare con violenza le tessiture degli
altri (e proprio per questo lo si apprezza più dal vivo che in
studio). E Scala, che con il sicuro Paolini ha composto i vari pezzi,
ha riportato sempre il gruppo sui temi base, dopo averli smontati e
rimontati, e soprattutto dopo averli sottoposti alla potenza
interpretativa di Boltro – quasi una prova di resilienza per Scala,
prova perfettamente riuscita, fatta per valutare la capacità della
sua musica nell’assorbire l’energia a volte deformante del grande
trombettista torinese.
Ne è
derivato un jazz intenso tra bop, funk e soul, che ha stimolato il
pubblico, lo ha invitato a divertirsi, a ballare, a cercare il ritmo.
Che
questo fosse il fine del progetto ce lo conferma, in una veloce
intervista concessa dopo il concerto, lo stesso Scala che ha
raccontato che da
diverso tempo lui e Boltro volevano registrare un disco, ma che solo
nel 2011, in occasione dell'Artusi Jazz Festival, avendo
nell’occasione conosciuto il giovane tastierista Leo Corradi, hanno
suonato insieme facendo intravedere un buon feeling. Successivamente,
a volte in trio altre volte in quartetto, hanno perfezionato brani
originali di matrice funk firmati dallo stesso Scala e da Paolini.
Visto l'impatto positivo sul pubblico, hanno allora deciso di
registrare il lavoro come in un concerto live in poche ore. Il
risultato è stato “Groove Island”, con quel suo sound energico
e divertente ascoltato durante il concerto che si candida per essere
uno dei migliori di questa edizione del Ravenna Jazz Festival.
Cesare G. Albertano