di Domenico Logozzo * - Cento anni fa, il 24 maggio 1915, il mio
giovane zio, Rocco Lombardo, umile
contadino che fin da bambino aveva iniziato a lavorare nei campi per aiutare la
famiglia, partiva da Gioiosa Jonica,
estremo Sud della Calabria, per indossare la divisa del nostro esercito e
combattere sui monti del Nord nella Prima Guerra Mondiale. Aveva 22 anni e
faceva parte dell'89° Reggimento Fanteria.
Viaggio di andata. Senza ritorno per
il soldato Rocco, costretto a lasciare l’amata zappa per imbracciare il fucile.
E sparare. E uccidere per non essere ucciso. Non amava le armi. Ma doveva
rispettare gli ordini. E con l’umiltà di un contadino cresciuto con il rispetto
- in casa e fuori - di chi ha l’autorità per decidere, ha fatto il suo dovere
di soldato. Fino all’ultimo. Senza mai tirarsi indietro. In prima linea. Con
coraggio. Fino all'ultima sfida. E’ caduto sul campo di battaglia. I documenti
ufficiali riportano: "Morto il 20 agosto 1917 nell'ospedaletto da campo n°
006 per le ferite riportate in combattimento". Una vita volata in cielo
troppo presto. Aveva appena 24 anni.
Fu il primo Grande Lutto per mia nonna Maria Teresa Macrì e per la famiglia di
mia madre Maria Giuseppa Lombardo.
Due grandi donne, che tanto mi hanno insegnato: due punti di riferimento
fondamentali per la mia formazione e crescita sulla buona via. Non hanno potuto
piangere sulla bara di mio zio. Non hanno potuto realizzare per lui una
tomba nel cimitero di Gioiosa
Jonica. La guerra, la maledetta guerra, ha rubato ai miei nonni la
vita del giovane figlio. E neppure i funerali hanno potuto fare in Calabria. Cosa
che ha reso il dolore ancor più straziante. Scempio del piombo nemico, su quei
monti del Nord dove mio zio aveva sofferto il freddo e marciando nella neve
aveva subito l’assideramento dei piedi. Per questo gli era stata concessa una
licenza. L’unica e l’ultima. Maledetta guerra! “Faceva pena, era ridotto male, ho
pianto tanto vedendolo in quello stato. Quando si è ripreso è ripartito. Ci
siamo salutati. Non è stato un arrivederci. E’ stato un addio. Non l’abbiamo più
visto. Né vivo, né morto“, mi raccontò mia madre che era bambina ma si
ricordava tutto quello che mia nonna diceva a lei di quel fratello sfortunato.
Grande lavoratore. Umile. Amatissimo. Mia madre non l’ha mai dimenticato. Ci
teneva al rispetto della memoria. Uno dei miei fratelli, Vincenzo, ha come
secondo nome Rocco. Come lo zio Rocco il cui nome è inciso nel freddo
marmo del Sacrario Militare di Redipuglia
e del monumento ai caduti di Gioiosa
Jonica.
Una famiglia di contadini. Tutta la
famiglia impegnata nella coltivazione delle terre avute in colonia dal barone Macrì. Sacrifici enormi. Mi
raccontava mia madre: “Lavoravamo dalla mattina alla sera, c’era tanto fare e
mio padre ci teneva tanto alla qualità ed alla quantità della produzione. La
terra era tutto per lui. Non conosceva svaghi. Purtroppo abbiamo avuto lutti
dolorosi dopo quello di Rocco. Ma il più grave è stato quando un infarto ha
ucciso mio padre. E’ morto di crepacuore. Quando una mattina si è affacciato
sull’uscio della casa colonica ed ha visto il campo completamente sommerso
dalle acque, dalle pietre e dal fango del vicino torrente “Cafia”
che aveva rotto gli argini, è piombato a terra privo di vita, dopo che con
la disperazione nel volto aveva fatto appena in tempo a dire: “Mio Dio, no!”.
Per lui quell’alluvione significava la fine. Disperato perché in una notte la
furia delle acque si era portata via il lavoro di tanti anni. Sacrifici in
fumo. E prospettive non semplici: chissà quanto tempo ci sarebbe voluto
per rimettere a posto le cose. Mia madre è stata forte. Una donna sola con
tanti figli. Ha fatto cose grandi. Lavoratrice instancabile. La schiena piegata
in due. Non si è mai data per vinta”.
Di mio zio Rocco non c’è una foto. Nella
mia mente è tuttora impressa l’immagine di quel militare dallo sguardo fiero di
calabrese che con onore indossa la divisa, nella cornice realizzata da mio
padre, una corona di alloro, un’opera d’arte, fatta con abilità da un autentico
artista nell’intaglio del legno. Non ci sono più quella foto e quella cornice
appesa nella camera da letto di mia nonna e di mia zia che abitavano insieme a noi
dopo che avevano lasciato la casa colonica e smesso di lavorare la terra perché
il comune aveva deciso l’esproprio per realizzare il nuovo edificio delle
elementari. Ad amministrare il comune in quel tempo era mio padre. La
suocera colona del barone fu costretta ad andar via, senza alcun
risarcimento. Quando gli amministratori pensavano al bene comune e non agli
interessi personali! Altri tempi. Dunque, la foto e la cornice non ci sono più
perché mia madre quando è morta mia nonna le ha messe nella bara, insieme a
tutte le foto delle mie zie e dei miei zii morti. “Così continuano a stare
insieme, per sempre”, mi rispose mia madre quando un giorno gli
chiesi perché l’aveva fatto.
A cento anni
dall’inizio della Prima Grande Guerra il mio pensiero grato e commosso va a
tutti quei giovani che sono stati mandati a morire nel folle conflitto
mondiale. Il presidente Sergio Mattarella,
nel commentare l'anniversario, ha ricordato: " Fu una carneficina a
ogni assalto. E la vita di trincea non era un sollievo: fango, pioggia,
parassiti, malattie e quelle attese lente e snervanti. 'Si sta come d'autunno
sugli alberi le foglie', scriveva Giuseppe
Ungaretti dal fronte, dove era fantaccino, fissando in versi stupendi il
senso di totale precarietà che regnava al fronte. Vi persero la vita 10 milioni
di militari e un numero indefinito di civili, vi furono milioni di feriti e di
mutilati. Ma in questo universo fatto di fango, di sofferenze, di stenti e di
morte, migliaia e migliaia di soldati, dell'una e dell'altra parte, sopportarono
prove incredibili, compirono atti di grande valore e di coraggio e gesti di
toccante solidarietà".
Dura la condanna della guerra anche da
parte di papa Francesco durante la
messa celebrata nel Sacrario militare italiano di Redipuglia, che custodisce le
salme di 100.187 caduti della Prima Guerra Mondiale: "Trovandomi
qui, in questo luogo, trovo da dire soltanto: la guerra è una follia. La guerra
distrugge. Distrugge anche ciò che Dio ha creato di più bello: l'essere umano.
La guerra stravolge tutto, anche il legame tra fratelli. La guerra è folle, il
suo piano di sviluppo è la distruzione: volersi sviluppare mediante la
distruzione!" Giovane soldato fu anche il nonno paterno del Papa, Giovanni Carlo Bergoglio, bersagliere
radiotelegrafista classe 1884, che combatté in trincea nei pressi del fiume
Isonzo. "Ho sentito molte storie dolorose dalle labbra di mio nonno",
ha ricordato. Lo stesso nonno, una volta terminata la guerra, con l'economia
italiana in difficoltà, decise di emigrare in Argentina dove il futuro
Pontefice nacque. Papa Francesco ha aggiunto: "Qui ci sono tante
vittime. Oggi noi le ricordiamo. C'è il pianto, c'è il dolore. E da qui
ricordiamo tutte le vittime di tutte le guerre. Anche oggi le vittime sono
tante. Come è possibile questo? E' possibile perché anche oggi dietro le quinte
ci sono interessi, piani geopolitici, avidità di denaro e di potere, e c'è
l'industria delle armi, che sembra essere tanto importante. E' proprio dei
saggi riconoscere gli errori, provarne dolore, pentirsi, chiedere perdono e
piangere ". E ancora: "Con cuore di figlio, di fratello, di padre,
chiedo a tutti voi e per tutti noi la conversione del cuore: passare da quel 'a me che importa?', al pianto. Per tutti i
caduti dell’ 'inutile strage', per tutte le vittime della follia della guerra,
in ogni tempo. L'umanità ha bisogno di piangere, e questa è l'ora del
pianto".
Oggi anche io piango e mi inchino
davanti alla figura gigantesca del mio giovane zio che ha conosciuto soltanto
la fatica dei campi, la lotta dura per sopravvivere in una realtà povera come
quella gioiosana di un secolo fa, la paura e la crudeltà della guerra. E’ morto
con l’uniforme dell’Italia. L’hanno mandato a morire. Giovani del profondo Sud
caduti sotto i colpi del nemico nel lontano Nord. Sono onorato per queste mie
nobili radici, radici contadine (mio nonno paterno emigrato senza fortuna negli
Stati Uniti, rientrato a Gioiosa Jonica, per portare avanti la famiglia,
zappava la terra e spesso veniva chiamato a lavorare da mia nonna materna). Mi
commuovo e penso che se ho compiuto un lungo e non sempre facile cammino umano
e professionale, a volte cadendo, ma rialzandomi sempre, più forte che mai, lo
devo alle miei radici e al luogo da dove sono partito l’indimenticabile “ruga
Cafia” di Gioiosa Jonica. Là dove sono cresciuto nutrendomi anche con la buona
cultura popolare. Le anziane e gli anziani ci davano buoni consigli. E
noi stavamo ad ascoltare. E quelle lezioni non le ho mai dimenticate. Non le
dimenticherò mai. Dico alle belle persone della mia infanzia gioiosana
“GRAZIE!”. Con tutto il cuore.
*già
Caporedattore del TGR Rai