Camminava sul marciapiede di via Castello, scansando, con le mani, i
rami bassi degli alberi, attento a non finire con le scarpe nelle
pozzanghere lasciate dalla pioggia. La sua casa era dall’altro lato
della strada. Il palazzo era chiuso e scolorito. Le rotaie di ferro
dei puntellamenti ne attraversavano tutta la facciata. Come fosse la
pagina di un quaderno a quadretti. Lasciata aperta troppo tempo
dietro una finestra inondata di sole. La carta raggrinzita, i colori
come ricordi lontani e incerti.
Davide non guardava il portone d’ingresso alla propria abitazione.
La casa dove non poteva entrare. Proseguì oltre, verso Porta
Castello. Guardandone l’arco occupato da due auto in sosta.
Quasi ombre, nel controluce dei lampioni. Mentre i fari delle
automobili che passavano lo costringevano ad abbassare lo sguardo.
Appena oltrepassata la Porta, attraversò la strada, verso via Zara.
Dirigendosi però a sinistra, lungo la discesa. Giusto pochi passi,
per arrivare alla propria automobile. Aprirla, entrare dentro,
mettere in moto, e ripartire. Gesti compiuti senza fissare nulla con
lo sguardo. Senza neanche accorgersi di respirare.
Risalì di nuovo per via Castello. La strada era obbligata. Voltare
verso via Zara non consentiva più di uscire dal Centro Storico.
Davide continuò a non guardare il portone di legno, ora alla propria
sinistra. E proseguì dritto, a velocità molto bassa. La strada
appariva come un tunnel, senza luce in fondo. Il tetto scuro del
cielo. I lampioni al lato destro della strada, come a segnare le mura
della galleria. La strada curvava sulla destra, per sbucare nella
piazza della Fontana Luminosa. Davide proseguì, ancora a destra,
lungo viale Gran Sasso. Ma dovette fermarsi. Accostò sulla
destra, quasi all’altezza dello stadio. Fermò l’auto accanto al
muro di contenimento del Parco del Castello. Spense il motore, le
luci. Slacciò la cintura di sicurezza.
Sentì forte il conato di vomito. Un sasso dritto nello stomaco, e,
immediato, d’istinto, il tentativo di chiudere la gola, per non far
uscire nulla. Il sapore d’acido, osceno, che gli riempiva la bocca,
un sentore di pesce vecchio. E il cuore che andava veloce, come se
volesse deragliare. Uscì dall’auto. S’accostò con la faccia al
muro di mattoncini rossi, e sputò a terra. Sentì il vento. Bagnato,
ma leggermente fresco. La testa perse i suoni intorno. Sprofondati
dentro il fango di un rumore muto. Avvolgente. Liquido. Come una
vertigine vuota. Davide tornò a sedersi in auto. Aprì i vetri delle
portiere. Entrava il gas di scarico delle auto di passaggio.
In ufficio, in uno dei palazzi ristrutturati di via Castello, prima,
aveva aperto, sul computer, il proprio profilo Facebook. E aveva
visto l’avviso della nuova foto pubblicata da Betsy. Aprì la
notifica con una leggera pressione del dito sul mouse. E apparve la
foto di Betsy. Era un primissimo piano. Che riprendeva per intero il
suo volto, incorniciato dai lunghi capelli nerissimi. Scarmigliati.
Qualche ciocca le ricadeva disordinata sulla fronte, sfiorando la
dolcezza dell’occhio destro. Gli occhi aperti, quasi
sgranati, d’azzurro tenero, spezzato da scintille ambra. Le
labbra erano semi aperte, lasciando intravedere una fila di denti
piccoli. E sorrideva, stanca. Non aveva trucco. Nessun rossetto sulle
labbra piene, di prugna matura. Era come se quel
volto emergesse dall’acqua, improvvisamente baciato da una lama di
luce che filtrava attraverso una nuvola d’estate, dentro un
tramonto nascosto e segreto. Si intuiva la nudità, sotto quel
volto.
E allora, Davide capì.
Quella foto, Betsy, se la era scattata da sola. Appena fatto
l’amore.
Con un altro uomo.
Ritornare con la mente al momento in cui aveva capito, gli
diede un brivido di freddo, come una scossa elettrica dolorosa. Un
tremito feroce. Senza redenzione. Nessuna lana poteva coprire quella
assenza di sangue. Scese nuovamente dall’auto, Davide. Attraversò
la strada ed entrò nel bar vicino allo stadio. Alla cassa, chiese un
pacchetto di sigarette. E un bicchiere di whisky. Bevve d’un fiato.
La gola bruciata dall’alcool. E uscì dal bar. Accese la sigaretta.
Ingoiò il fumo. Tentando di riempire lo stomaco. Aveva bisogno di un
sapore, di un bruciore. Di qualcosa che riempisse il vuoto.
Era innamorato, di Betsy. Da qualche mese; l’aveva conosciuta ad
una riunione di tutti i dipendenti della filiale abruzzese della
multinazionale per la quale, da poco, aveva iniziato a lavorare. Lei,
era già un Capo Area della divisione Marketing Strategico.
Spigliata, energica, veloce. E bellissima.
Davide, poteva solo guardarla da lontano, mentre teneva la sua
relazione durante quella riunione. La guardava senza riuscire ad
ascoltare nulla. I giorni successivi, aveva scoperto che Betsy
sarebbe stata, temporaneamente, il suo capo. Le regole della
multinazionale prevedevano che un neo assunto, come lui, trascorresse
almeno un mese, lavorando in una Divisione, per poi passare ad
un’altra. Formandosi così un’esperienza globale del lavoro.
Trascorsi nove mesi, sarebbe stato assegnato alla sua Divisione
definitiva. Definitiva, per i successivi due anni e tre mesi. Tre
anni, durava l’apprendistato. Al termine del quale, Davide, così
gli avevano detto durante il colloquio, con cui gli avevano
comunicato l’assunzione, avrebbe conosciuto il proprio futuro
immediato. Componente della grande famiglia aziendale, o , per
ragioni di mercato indipendenti dalla volontà aziendale, ancora
sulla strada, a proseguire il proprio percorso formativo-lavorativo,
altrove.
Aveva ripreso a piovere, davanti al bar. Nessuno camminava a piedi.
Davide fece qualche passo, verso il piccolo giardino, situato in
basso, dopo un breve tratto in salita. I rami dei pini quasi
coprivano del tutto la luce dei lampioni. In controluce, conficcato
nell’ombra della sera, poteva guardare la pioggia cadere, come una
lieve increspatura dell’aria. Uno spartito musicale, senza note
scritte sopra. Sospeso, nel silenzio di quella solitudine. Sedette su
una panchina, incurante che fosse bagnata. Mise le mani in tasca.
Prese un’altra sigaretta, e l’accese, ancora. Lasciandola su un
angolo delle labbra, senza aspirarla. Ascoltandone l’odore di
tabacco bruciato nel naso, quando il vento spostava il filo di fumo
verso il suo volto. Allora la respirava. Acuta, disturbante. Troppo
simile al fuoco. Si passò una mano sugli occhi, asciugandoli.
Betsy gli stava parlando. Sorrideva. Era in piedi dietro la
scrivania, dove Davide era seduto, quasi nascondendo il volto
dietro al computer. Gli spiegava gli appuntamenti della
settimana, e le sue mansioni; tra queste, quella di fornirle, ogni
giorno, una aggiornata rassegna stampa internazionale, sulle
tematiche del marketing. Davide balbettò qualche domanda di
chiarimento. Lei prendeva appunti. E rispondeva, tranquilla, sempre
sorridendo, senza interrompere la scrittura. Solo spostando talvolta,
con le dita, una ciocca di capelli dietro l’orecchio sinistro. La
prima volta che Davide entrò nell’ufficio di Betsy, fu
colpito dal leggerissimo profumo d’agrumi, che sembrava quasi
provenire dalle pareti. E dalle gambe di Betsy. Accavallate, dentro
pantaloni aderentissimi, neri, che sembravano vibrare, sotto l’onda
dei suoi muscoli.
Lei gli parlava sempre sorridendo. Talvolta, impercettibilmente,
sembrava sfiorarlo con le dita. E quando accadeva, Davide sentiva
come se, sulla pelle, si fosse posata una farfalla, lasciandogli
addosso il colore delle sue ali. Mattino dopo mattino, Davide
riusciva a parlarle più tranquillamente. Senza diventare rosso, ogni
volta, in viso. Certe volte, gli riuscivano persino intere frasi di
senso compiuto, senza incespicare sulle parole, e fermarsi, senza più
fiato. E, gli sembrava, persino, che il sorriso di Betsy, fosse meno
formale. Le labbra, piene, distendevano il volto, come un ponte,
vorticoso, che univa sponde di freschissima erba di primavera.
Sentiva le gocce di pioggia scendere giù, tra il collo e la camicia.
Guardava la strada, in basso, verso il Palazzetto dello Sport, chiuso
da anni e anni. Verso il muro di cinta dello stadio. Da cui sporgeva
l’abbozzo di una curva per gli spettatori. Appena iniziata, e mai
finita. Rimasta appesa nel nulla, come una decorazione natalizia
sorpresa dall’arrivo delle festività pasquali. Il cemento ormai
coperto di muschi secchi. Non riusciva, ad alzarsi dalla panchina.
Mentre gli cresceva dentro la voglia di urlare. E le gambe gli
tremavano.
Come quando, per la prima volta, senza un motivo apparente, Betsy gli
aveva accarezzato la guancia. Sorridendo. E lui era tornato alla
propria sedia barcollando. Facendo uno sforzo infinito per non cadere
in terra. Lo aveva accarezzato, ricordandogli che bisognava andare
avanti. Che bisogna sempre, andare avanti. Che fermarsi, era morire.
Che andare avanti poteva anche significare lasciare indietro un
amico. Ed ecco la carezza; andare avanti però, avrebbe potuto
significare, centrare l’obiettivo. E Davide aveva respirato a
fondo, il suo profumo. Era come un petalo di papavero. Il rosso che
sgualcisci, se lo tocchi, ma che ti lascia sulle dita una traccia di
fuoco indelebile. Aveva provato, ad andare avanti Davide. Senza mai
guardare l’orario di lavoro, ad esempio. Per accorgersi, ogni sera,
guardandola da lontano, che Betsy, intorno alle 19, sbottonava un
bottone in più della sua camicetta. Sul petto.
Gli risalì in gola una goccia d’acido. Rovente. La respirava
quasi. E s’alzò dalla panchina. Mentre la pioggia aumentava di
volume. Prendendo la piegatura del vento. Risalì, dal giardinetto,
verso Viale Duca degli Abruzzi. Scelse il marciapiede di sinistra.
Camminava guardando a terra. Passando sopra i detriti. Le bucce di
vetro. I tubi di ferro lasciati a terra. La Scuola Media chiusa.
L’Istituto Professionale chiuso. La fontana senza acqua. Le erbacce
crescevano ovunque. Spaccando l’asfalto. Rompendo gli angoli. Gli
alberi, nelle loro pozze di terra, con i rami scarmigliati. Qualcuno
spezzato dal vento. Cartelloni pubblicitari stesi a terra, esausti.
C’erano anche i cassoni, che i camion avrebbero portato via, colmi
di pietrisco e macerie, dei cantieri aperti, che lavoravano a
ricostruire. Anche lungo quelle strade, senza un ordine logico
coerente. A caso. Come una foglia secca, che, ad un certo punto,
smetta di respirare il vento che la vola. E si fermi. Scegliendo un
luogo fortunato che concimerà di sé.
Fu Betsy, la prima volta ad invitarlo a bere una birra, finito
l’orario di lavoro. Sorridendo, gli aveva chiesto se avesse di
meglio da fare. Indossava un tailleur blu scuro, quel giorno, e un
top color latte. Al collo un leggerissimo laccio di cuoio, che
reggeva un cuore di cristallo rosso, quasi porpora. Gli aveva parlato
di come fosse importante, avere rapporti positivi, tra componenti
dello stesso staff. Di come tutti loro dovevano funzionare come uno
stesso corpo. Una sola testa, e tante volontà insieme. Volontà,
però, creative, non passive. Capaci di proporre, di proporsi. Di
aprire nuove strade. Di osare. Mentre parlava, teneva una mano sulle
ginocchia, poggiata lievemente, e le accarezzava, con le dita. Poteva
sentire il rumore di quelle dita sulla seta, nel pub affollatissimo.
Si spinse fino a guardarla sempre negli occhi, mentre parlava.
Quando arrivò all’altezza della strada che conduceva verso la
Chiesa di San Silvestro, ricordò che era entrato proprio in quella
Chiesa, due anni prima. Di nascosto. Ancora chiusa per i crolli. Il
giorno precedente la discussione della sua tesi di laurea. Era tanto
tempo, che non entrava in una Chiesa. E quel pomeriggio non sapeva
bene perché lo stesse facendo. Appena superato il pesante portone di
legno, ricordò, l’odore rimasto della cera sciolta delle candele.
E il silenzio quasi buio. Non riuscì a muovere molti passi, oltre
l’ingresso. Si limitò a guardare da lontano verso l’altare
maggiore. Che appariva più illuminato di tutto. E a pensare,
sottovoce, quasi vergognandosi di sé, ad una richiesta di aiuto.
Aveva conseguito la laurea, con lode. La sua tesi, era stata discussa
su una importante rivista. E gli sembrava di vederne le pagine
smembrate, sudicie, fradicie, nelle cartacce buttate a terra, mentre
era arrivato all’altezza della Scuola Elementare. Del vecchio
distributore di benzina, assurdamente situato sull’angolo della
strada. Polveroso. I vetri spezzati. Scheletrici.
Dissero a Davide che Betsy, esplicitamente, prima della fine dei nove
mesi canonici, aveva richiesto che lui fosse assegnato alla sua
divisione. Ed era stato bello, entrare in ufficio, quella mattina.
Quasi pensando d’essere a casa. Cercando con gli occhi, gli occhi
di Betsy, che gli sorridevano. Quegli occhi, lo facevano sentire
prezioso. Importante. Quando lei lo guardava, si sentiva come un
libro. Aperto, sulle pagine più importanti. Pronto a raccontare
tutte le parole decisive. Pronto a mettere ogni energia, in ogni
storia che gli fosse stato chiesto di inventare. E proprio un giorno
fa, solo un giorno fa. Betsy aveva detto a Davide che da lui si
aspettava qualcosa di davvero speciale. Capace di cambiarle la vita.
Glielo aveva detto sorridendo, prendendogli per la prima volta la
mano. Guardandolo dritto negli occhi. E separandosi da lui, con
riluttanza. Con nostalgia, trattenendo a lungo la mano tra le sue,
quando aveva finito di parlargli.
Era arrivato fino al Ponte del Belvedere. Una pesante rete metallica
ne impediva ogni accesso. Era buio. E pioveva. C’era solo il rumore
dei cartelli che vietavano l’accesso ai cantieri, che sbattevano
sui fili d’acciaio delle transenne. Lì intorno, persino la luce
dei lampioni, gocciolava spenta sull’asfalto percorso da crepe e
buche.
Davide s’accostò al margine di sinistra dell’inferriata, e,
infilando le scarpe tra le maglie della rete, la scavalcò.
Trovandosi per la prima volta, da sei anni, sull’asfalto del Ponte.
Iniziò a camminare tenendo una mano poggiata sulla balaustra
metallica che separava il Ponte dal vuoto sconfinato, sotto. Arrivato
circa a metà del Ponte, si sporse, a guardare. Dalla piazza di
Fontesecco, verso via Sallustio. Non c’era nessuno, sulla strada,
giù. L’acciottolato era liscio e lucente, sotto la pioggia,
Sembrava portar via la luce da tutti i palazzi divelti, intorno,
lasciandone un brandello provenire dall’insegna dell’Osteria, che
aveva aperto lì, in fondo ad una strada chiusa, davanti ad un’altra
strada sbarrata. Dietro via del Falco, che non portava più al
circolo ARCI. Quello slargo della strada era come il centro di un
gorgo.
Davide, aveva un amico. Sin da ragazzini, si conoscevano. Insieme,
avevano pensato un tempo, ad una idea. Era un modo per trasformare i
rifiuti in asfalto. Un asfalto, tra l’altro, facilissimo da
applicare, e pressoché indistruttibile. C’erano arrivati vicini
con qualche esperimento, in Università. Poi, avevano scelto di
impegnarsi di più a studiare, e s’erano anche persi di vista,
nell’ultimo periodo. Il Ponte del Belvedere, sembrava oscillare
sotto il vento, sotto il peso della pioggia. Sotto i passi tristi di
Davide.
- Adesso, basta. –
Disse Davide, ad alta voce. Guardando dritto davanti a sé.
Colonna sonora : “Stay free” The Clash
Luigi
Fiammata