L’AQUILA - Dai. Arrivo, parcheggio. Tra
viale Nizza e l’inizio di Viale Duca degli Abruzzi. Ci si trova posto anche di
giorno, ora. E’ vero, il palazzo d’angolo lo hanno ristrutturato. Una volta ci
abitavano studenti e famiglie. Anziani. Sembra deserto, da quando è diventato
nuovo. C’è posto libero, proprio ai piedi del palazzo, sul marciapiede, dentro
regolamentari strisce bianche di sosta gratuita, scolorite. Non ci lascia più
la macchina quasi nessuno. Anche se hanno aperto l’Università, più sotto, più
avanti.
Dai. È ora di trovarlo il regalo per
il compleanno di Maria. La mia Maria. È l’ultimo giorno che ho a disposizione. Poi mi devo far trovare da lei, e darglielo, un regalo. Sono
quasi fuori tempo massimo. Entro domani. Entro oggi, meglio.
Ma, devi capirmi, Maria.
Mi vergogno.
Ho appena iniziato questa borsa lavoro nello
studio del commercialista amico di famiglia. Che si accolla il ragazzino tra
poco trentenne alla sua quasi prima esperienza di lavoro. E ancora non prendo
un euro dei seicento che mi spettano a fine mese. Fine mese è fra tre giorni, e
io non posso aspettare. Sono stanco di chiedere a papà e mamma. E ho appena
iniziato a ringraziare l’amico di famiglia, lavorando davvero, straordinari non
pagati compresi. Garanzia schiavi giovani, si chiama.
Scendo dall’auto. In un sacchetto di pelle,
che una volta conteneva occhiali da sole, ho messo tutti gli spiccioli
ramazzati in ogni tasca di casa. Non li ho contati. Saranno una trentina di
euro, più o meno. Una specie di riserva, se quello che ho nel portafogli non
basta. Pesa. Però mi fa sentire più sicuro. Anche se devo stare attento a
scegliere. Quello che posso permettermi, che non è quello che vorrei. E non è
poi tantissimo, quello che vorrei. Solo un pezzetto di libertà di scelta, per
regalare una cosa alla ragazza che amo, senza dovermi preoccupare di far brutta
figura, né con lei, né al negozio, quando chiedo quanto costa. Il postamat è
vuoto, lo so. Ho controllato. Ci accreditavano sopra i soldi dell’ultima specie
di lavoro che ho fatto. Rifornimento di giornali, negli scaffali
del supermercato con contratto a progetto. Che adesso li aboliscono. I
contratti senza alcun progetto. Quasi.
Per questo, il distributore avezzanese di
giornali, mi ha detto che se volevo raccontare di avere ancora un lavoro, avrei
dovuto aprire la partita IVA. E così divento imprenditore di me stesso.
Non mi pago i contributi previdenziali, e mi demansiono a facchino di corte.
Tanto lo posso fare. Non c’è più sanzione. E risparmio.
Italian job.
Però il postamat, resta vuoto. Perché non ho
lo spirito avventuroso e intraprendente. Non mi voglio lanciare nel rutilante
mondo della stampa, dal lato dello strillone all’angolo della strada mentre diluvia
e fa freddo. Non sono abbastanza affamato. E neanche tanto folle. Signor Mela
copiata da quella dei Beatles.
La Bottiglieria è ancora chiusa, e un caffè
non me lo posso prendere. C’è un nuovo negozio di abbigliamento. Ma a Maria non
piacciono le cose che vendono qui. Me lo ha detto lei, un giorno che
passeggiavamo insieme qui. Per fortuna, perché costano troppo per le mie
tasche.
C’è sempre il Ferramenta, davanti la
Fontana, e la Cartoleria, per gli studenti che non vanno più a scuola perché la
scuola non c’è più.
Sembrano le pietre miliari della via Appia
che arriva a Brindisi, rimaste ferme negli ultimi sei anni. Solitarie.
Alte e impossibili. A segnare la strada per viaggiatori smarriti. Quelli che
non ricordano più le vecchie mappe.
Ma non posso uscirmene, con Maria,
regalandole un paio di pinze e un quaderno. Non esprimerebbe abbastanza quanto
lei sia la mia luce dentro ogni cielo.
Io lo so come mi sento, quando sto così.
Che guardo intorno, e cerco di non farmi
vedere da nessuno che conosco. Perché non voglio che sentano la puzza di
disoccupato. Anche se lavoro. Sì, il mio è un lavoro da disoccupato. Però, dai.
Disoccupato laureato. In economia, a L’Aquila. Per questo mi porto gli spicci
appresso. Perché sono economo. Accumulazione primaria. Il soldo sotto il
mattone. Il salvadanaio, non ce l’ho.
La sede della banca è ancora a pezzi. Mentre
il palazzo di fronte, uguale, è un cantiere vivo, invece.
Aspetta però. Hanno presentato il progetto
di ricostruzione. Dopo sei anni, hanno fatto la mossa. Poi vediamo quel che
succede davvero, oltre le conferenze stampa.
Mentre quelli del Sindacato, lì sotto a via
del Gatto, non so che fine abbiano fatto.
In centro, a L’Aquila, non ci va nessuno,
non ci lavora nessuno. Una sede del Sindacato aperta, qui, sarebbe come un
gelataio aperto in Alaska a dicembre. Via del Gatto è un vicolo cieco. Anche il
Sindacato, è diventato cieco.
C’era una pizzeria, qui, e un negozio di
fotografia, e un barbiere. Adesso non c’è niente. Anche se il palazzo è tutto
ricostruito e ridipinto di nuovo. Quanto costa l’affitto qui? Tanto quanto
l’avidità eterna degli aquilani ricchi.
Che bella piazzetta che c’è. Da farci
concerti tutte le sere. E non parcheggio di auto, e discarica, come è
ora.
Al fotografo, forse avrei potuto vedere
qualcosa, per Maria. Le piace, fotografare.
Ma di sicuro, non mi sarei potuto permettere
nulla di decente. Un teleobiettivo discreto, costa minimo trecento euro. Non ce
li ho questi soldi. Non ce li ho.
Se continuo così, a settantacinque anni,
trecento euro non li avrò neppure come pensione. Ammesso esista l’INPS nel
2061.
Anche il palazzo dall’altro lato è
ristrutturato. Ma il bar non riapre. Il negozio di panini non riapre. Il
tabacchino non riapre. Il negozio di alimentari, non riapre. Il negozio di
abbigliamento… c’era anche un negozio di abbigliamento, sul lato di piazza
Regina Margherita?
Comunque, adesso, c’è ancora la saracinesca
di legno che occupa mezza piazza per i lavori in corso, che, in realtà sono
finiti. Magari non riapre niente perché manca il gas, da sette-otto mesi. In
compenso, in mezzo ai palazzi sette ottocenteschi, nel verde della aiuola di
centro piazza, c’è un bunker in cemento armato che aspetta solo che ci venga
posato sopra un cannone antiaereo. Che di questi tempi, ce ne sarebbe bisogno.
O forse, visto che è la cabina dell’ENEL, ci metteranno sopra il traliccio per
un nuovo elettrodotto, che tanto, a L’Aquila, passano tutti in mezzo alle case.
In piazza un bar ha sostituito la farmacia,
che ancora sta dentro un container. Forse l’avevano sfrattata, o forse non
reputa salutare stare in un palazzo a cui nessuno ancora, da sei anni, ha messo
mano.
Non c’è più il negozio di pelletteria. Però
c’è un altro bar. E un altro ancora.
Un portafogli per Maria, sarebbe banale, e
un ombrello, porta sfiga. Ma dai, che la sfiga non esiste. Anzi no, aspetta. E’
essere superstiziosi, che porta sfiga.
Una borsa… non so, forse. Però tanto, qui
non posso comprarla. Perché qui, non la trovo più.
Lì, prima c’era un negozio di gioielli
antichi. Che non mi sarei mai potuto permettere comunque. Però mi piaceva tanto
guardarne la vetrina. E immaginare magari una bella collana, con cameo rosso,
che cadrebbe leggera e insinuante nella scollatura di Maria.
Però adesso c’è solo la porta chiusa e tanto
silenzio. Il silenzio del legno dove la linfa non scorre più.
Potrei chiedere i soldi a papà e mamma.
Papà entra e esce dalla Cassa Integrazione.
Mamma lavora alla ASL. Lo stipendio è bloccato da sette anni. Non posso
chiedere i soldi a papà e mamma.
Non ce la faccio a guardarli. Mentre glieli
chiedo. Mi sento in colpa. Perché non ho un lavoro vero.
E ancora mi pagano la benzina per l’auto. E
l’assicurazione. E le gomme termiche. Perché a L’Aquila, sei mesi all’anno, per
legge, devi indossare le gomme termiche. E se non ce li hai i trecentoventi
euro che servono per comprartele?
Ne spendi trenta e ti compri le catene. Devo
dirlo a papà e mamma. L’anno prossimo faccio così.
Non posso più chiedere a papà e mamma. Papà,
all’età mia, era già padre. Mio e di mia sorella. Vabbè, erano altri tempi. Era
trent’anni fa, più o meno. Non c’erano i telefonini, trent’anni fa.
E di fronte al negozio di gioielli antichi,
c’era la macelleria tipica.
Anche se un pollo, o una cicolana, non
basterebbero, a dire a Maria, quanto lei sia per me l’ultimo raggio di nuvola
del tramonto, e il primo fiocco di neve dell’alba.
Comunque, adesso non c’è. La macelleria.
Anzi, è da parecchio, che non c’è. E non c’è l’altro fotografo, e la merceria
nemmeno c’è. E il negozio d’abbigliamento. Quello per ragazzine giovani e
magre. Non c’è.
E cammino guardando vetrine annebbiate dalla
polvere. Polvere che è entrata dentro, il vetro. E gli ha rubato la
trasparenza. Il vetro, è diventato marmo.
Candele di ferro, che partono da terra, e
arrivano in cielo.
C’era anche una gioielleria di gioielli
nuovi. Si è trasferita al Centro Commerciale ora.
Qui, adesso, i pacchetti regalo si fanno con
i travi di legno, i tiranti d’acciaio, le traversine di ferro, i raccordi di
ottone.
Cammino sulle pietre rese viscide dalla
pioggia passata. E sconnesse dai camion carichi di materiale e macerie che ci
passano sopra, continuamente. La ricostruzione viaggia.
Certo. La ricostruzione di quello che
chiamano “l’asse centrale”. Forse. Neanche tutto, a pezzi, a brandelli, a macchie.
Una specie di lunghissima croce di Cristo. A più bracci trasversali; una croce
papale antica. Dalla Villa Comunale, fino alla Fontana Luminosa.
Intorno, dietro le strade principali, il
vuoto, il silenzio. L’odore di umido. Sguardi che non si fermano da nessuna
parte, e non trovano pace o riparo.
Il freddo si alza da terra. E ti gela i
passi. La gola si svuota di parole.
E non ci sono i cantieri aperti, intorno.
Intorno c’è la favola della bella addormentata. L’Aquila filava la lana. E’
stata punta dal fuso.
Fammi guardare una gru. Così ritrovo voce. E
fiato. E cielo.
Ci stanno. Più avanti. Lungo la strada che
arriva al teatro. Girato l’angolo.
Prima però, c’è la cartolibreria bazar.
Aperta, come se fosse normale, essere sempre
aperti. Senza essere andati via.
E allora, mi viene finalmente, l’idea per il
mio regalo a Maria.
E’ esattamente come trovare il celeste
azzurrissimo della tramontana quando guardi il Gran Sasso dal parco del
Castello, e non t’aspetti di vederlo, tra gli alberi . E ti sembra che,
improvvisamente, ogni cosa che hai intorno, si sistemi; abbia il suo posto nel
mondo. Ferma, precisa, bellissima.
Entro.
Mi bastano i soldi spicci. Anche se sarà
imbarazzante, contarli tutti, uno per uno, moneta per moneta. Come alle
elementari a fare le addizioni con le dita.
E compro quattro mazzi di carte da poker.
Mi guarda un po’ stranito, da dietro gli
occhiali. Il proprietario. Mentre li infila tutti dentro una bustina di
carta. Come fossero i cornetti del bar.
Allora esco.
E, mentre torno indietro, senza più guardare
nulla, quasi senza respirare, apro ognuno dei quattro mazzi. E lascio nella
busta di carta le pellicole di plastica che li chiudevano. E tiro fuori le
carte. E, di ogni mazzo, prendo i fiori, le picche e i quadri, e i jolly. E li
butto tutti dentro il sacchetto di carta.
E conservo i cuori. E per quattro mazzi
diversi, conservo i cuori.
E formo un unico mazzo. Con tutte le carte
di cuori. Con solo carte di cuori. E le metto tutte insieme.
In un unico mazzo.
Sarebbe bello se, ogni gioco, fosse solo
accarezzare il suo cuore. Moltiplicarlo per ogni cosa che vedo e che ho
intorno. E sapere che, ogni giorno, l’amerò più di ieri. Come se il tempo
scorresse solo dentro il suo cuore, e ogni suo battito, mi desse vita.
E scriverò una cosa, per Maria.
Provando a spiegarle che, ogni carta possa
scegliere, di questo mazzo, sarà come guardare dentro i miei occhi che
l’accarezzano.
Anche se non ho soldi. Anche se non ho
ancora un lavoro vero.
Anche se non posso portarla a casa nostra a
fare l’amore.