di
Carla Morselli *
ROMA
- “La cultura è migrazione” dice Federico
Gonzalez Perini , addetto culturale
dell’Ambasciata Argentina in Italia, introducendo la “Il
giorno di Stefano”, dal titolo di un libro
della scrittrice italo argentina Maria Teresa
Andruetto.
Simona
Cives, responsabile della Casa delle
traduzioni del Comune di Roma, introduce Ilide
Carmignani traduttrice del libro, che ci
propone la traduzione come viaggio sulle orme di chi ha scritto.
Segue una tavola rotonda a cui partecipano Maria
Rosaria Stabili (Università di Roma Tre) con
un tema di “tensioni identitarie tra passato e presente”, mentre
Claudia Zaccai (Università di Roma La Sapienza) legge un suo testo
“l’esiliato in cerca del suo narratore”, e Goffredo
Palmerini (giornalista e scrittore) con
“Cenni di storia dell’emigrazione italiana, gli abruzzesi in
Argentina” ci fornisce dati anche ottimisti su italiani che hanno
realizzato i loro talenti in Brasile
e in Cile oltre che in
Argentina. Ottima
iniziativa, anche se così stretta nei tempi da non lasciar spazio al
dialogo e ai fatti del presente.
La
cultura è quel che resta, quel che il ricordo costruisce in noi nel
tempo, quel che trasformiamo nel gesto quotidiano. Ma c’è il
momento del trauma del distacco della separazione in cui spaesati
privati di una lingua comune immersi in una zona d’ombra e di
freddo siamo stranieri e restiamo tali. Costretti a narrarci il
percorso dei giorni, con altre parole, senza riferimenti precisi, con
le tasche vuote e un bagaglio affatto leggero, camminiamo sulle vie
dell’assurdo in cerca di un luogo senza riuscire a dipanare il
dolore.
Il
suono di una lingua, una canzone, un modo di dire, una poesia
imparata nell’infanzia sono a volte quel che resta. Migrare è
spesso una radice scoperta che cerca la terra, l’acqua e il sale
per non perdersi nella follia e nella disperazione. Soffre l’anima
del mondo avvolta in stracci e ci sfiora. Rimuoviamo il dolore di
migrare, rimuoviamo le morti sul sentiero o in acqua, mentre
impegnati a sopravvivere, vediamo l’indifferenza acuta degli altri,
immersi anche loro nella stessa arte.
La
rimozione non consente ai sensi di sperimentare il reale con la
stessa ricchezza che la protezione del luogo e della lingua in cui
siamo cresciuti ci dava, l’occhio sperimenta altri usi, siamo
costretti ad una traduzione costante, distinguiamo la diversità,
troviamo altri oggetti immagini, illusioni. E’ un nuovo mondo in
cui restiamo a lungo stranieri, in cui cerchiamo altri stranieri, in
cui è difficile concedersi il silenzio e l’abbandono.
L’identità,
chi sono, chi siamo occorre saperla per poterla lasciare, per poter
pensare di nuovo ed aprirsi, ridivenire flusso, cambiamento, gioco di
relazioni e un’altra identità che ride di presunte libertà.
L’arte allora viene in soccorso con l’emozione e il comune
sentire, l’arte è quel che resta, si innesta nel sentimento, tira
i fili di una storia illogica, in cui il vissuto ritrova un altro
peso e una misura. L’arte disinnesca solitudini: si tratta di
vivere. Nel frattempo ad alleviare questo strappo non abbiamo un
facile riconoscimento, né una tutela o vie di integrazione,
sappiamo in che stato versano le strutture d’accoglienza.
Passano generazioni prima che un’altra terra diventi
la nostra e ci sia famigliare. La conoscenza e la cultura sono le
armi con cui non perdere il filo degli affetti lasciati, il lavoro e
la dignità la base breve su cui sostiamo nella condizione precaria
del migrante. Si perpetua il dramma e coi tempi di crisi ci
somigliamo tutti migranti o no, senza volerci davvero riconoscere.
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