Con
La Tavulata, Tanina Lipari ci riporta alle matrici più
genuine delle tradizioni contadine legate alla festa del Patriarca
San Giuseppe.
Le
manifestazioni della religiosità del popolo nascevano quasi sempre
da una promessa sacra. A seguito perciò di una richiesta e di
conseguente grazia ricevuta, si contraeva un obbligo con il santo
protettore e, in un certo qual modo, occorreva che ci si
disobbligasse.
Sisa
Monacò, mossa dalla pietà popolare, manifesta la sua riconoscenza a
San Giuseppe ed esprime come sa e può la sua carica di fede con
capacità artistica, con la cura per il dettaglio, con l’impegno
senza risparmio di energie fisiche ed economiche. La devozione ai
santi, ma specialmente a San Giuseppe, come quella di Sisa, si legava
inestricabilmente ad un’opera meritoria di carattere evangelico e
sociale, che consisteva nel provvedere per i più poveri e assicurare
loro non solo viveri per un po’ di tempo, ma un pranzo da re,
serviti e riveriti, almeno una volta l’anno.
C’è qualcosa di
folgorante nel racconto che è necessario evidenziare: i nostri avi
ritenevano che la benedizione dei poveri fosse essenziale ed il
sovvenire alleviando le loro necessità salvifico. È da chiedersi
allora se in un tempo e in una società come la nostra, volta alla
moltiplicazione di poveri e di povertà, non si sia smarrito
l’insegnamento e il segreto dei nostri padri, ovvero esercitare
quella carica di solidale carità che li faceva grandi nel poco. A
onor del vero, è con tantissima tristezza che qua e là lo si
registra, pare che la tendenza attuale si sia decisamente invertita,
oggi si è meschini nel molto e i poveri che muoiono annegati,
assiderati, affamati, ne sono la prova.
Alfonso Cacciatore
La Tavulata
Sisa
Monacò era nata Benifari, figlia unica di buona famiglia di
possidenti che avevano terre all’Arancio, Serralonga e altrove. Di
bene, molto bene stavano ed in paese c’era una grande casa a
testimoniarlo con portone e servitore e corte interna, scala di
servizio e scala padronale e sotto magazzini e cucina, stanza per la
contabilità e per i servizi. Sopra c’erano le stanze per dormire,
per mangiare e per ricevere. Poi Sisa si era sposata ad uno stranio
salemitano Mimmo Monacò, mediatore esperto, di bella presenza, ma di
poca consistenza economica, cui il matrimonio giovò tanto che
diceva: “Mi basta lu picca e lu nenti”, cioè faceva pochi affari
tanto in casa si stava proprio bene. Di questo andazzo ne soffrì il
benessere generale e la sua unione con Sisa, che tra le altre cose,
non fruttò manco figli all’inizio, cosa che dispiaceva soprattutto
alla moglie. Sulle prime se la prese tanto, compì sacrifici,
rinunce, frequentò dottoroni, mammane, fimmine esperte di medicate
varie, voti a Santi, ma niente ci poteva. Poi, come diceva lei, il
Patriarca San Giuseppe, a cui si era rivolta con vera fede, ci riuscì
e mascolo fù. Ma poi lu gruppu quasi se lo portò via, di nuovo
l’intervento del Santo, cui lo votò, fu capace di salvarlo dalle
granfi di lu nigghiu. E così Casimiro, chiamato di conseguenza
Peppi, rimase su questa terra, vivo, ma quasi afono per il taglio
maldestro alla gola e quasi perennemente malaticcio. Ma vivo e
mascolo era.
Sisa
Monacò da quell’anno promise la Tavolata al Santo e mantenne la
parola ogni anno, e la sua Tavolata, grazie alla sua abilità
culinaria, divenne famosa ed eccezionale come la sua pinguedine, che
aumentavano di pari passo. Siccome non era propriamente alta, mano a
mano si trasformava diventando di dimensioni quadrate, tanto in
larghezza quanto in altezza: braccia tonde e corte, gambe muscolose,
caviglie sottili, piedi minuscoli ed arcuati, a causa dei tacchi alti
che portava per compensare la scarsa altezza. La salvava il viso, che
pur pieno e corredato da doppio mento, era pure bello e
gradevolissimo per il sorriso che fioriva sempre sulle labbra piene,
sulle guance paffute e rosate e stellava negli occhi azzurrissimi,
tanto simili al colore del mare “dei bagni della principessa”tanto
che i suoi famigli affezionati dicevano che erano occhi di “stiddra
diana”.
I
pregi di Sisa non erano legati solo all’aspetto fisico, al sorriso
perenne, al carattere allegrissimo, ma anche al suo saper fare in
cucina sia per i piatti di gusto delle famiglie ben nate come la sua,
ma anche quelli della tradizione contadina, era brava nel cucito e
nel ricamo, e ne sapeva trasferire arabeschi e volute nella pasta dei
dolci che preparava, che assumevano forme perfette di uccelli,
panarini, fiori dalle forme svariatissime e meravigliose, e anche le
forme degli attrezzi e oggetti devozionali tipici della Tavolata. Il
lavoro iniziava mesi prima per gli “scartucciati”, veri
capolavori nell’arte dell’intaglio che erano perfetti per la
maestria che lei rivelava anche nel ricamo. Poi si passava ai dolci
con le conserve, ai confetti, ai dolci di mandorle, che venivano
riposte in scatole di latta tra fogli di carta di vario tipo. Mille e
mille cose venivano preparati con l’aiuto delle donne di casa,
amiche, parenti e donne del vicinato. Le più capaci e fidate poi se
ne facevano un motivo di vanto dicendo: “Travagghiavi ni la signura
Sisa” e lo dicevano per la bellezza della Tavolata e per la fama
della donna.
La
mattina della festa, il 19 di marzo, era una bella giornata, quasi
staciuni pareva. La via della chiesa era piena piena, gente a piedi,
coi carrozzini, coi muli. Tutti i paesani erano vestiti a festa.
Avevano lasciato la chiesa di San Giuseppe, finita la Messa e si
erano diretti alla Tavolata per accaparrarsi i migliori posti per
assistere alla cerimonia di apertura. Erano tutti là e si
chiacchierava del più e del meno in attesa che arrivassero li
Pirsuneddri, Peppi Zarra che interpretava la persona del Patriarca
San Giuseppe, con la vestina lunga, barba e baffi e lu vastuni
ciurutu di balicu e gigli. A lato c’era sua figlia Nela, vestita di
Madonna e lu Riuzzu, che era Niniddru Spirticò, figghiu di un
pecoraio giurgintano. Poveri lo erano davvero e tutti e tre con
debolezza cronica.
Il
pranzo della Tavolata era aspettato assai, non solamente dai paesani,
ma anche dagli abitanti dei paesi vicini. Il portone di Sisa Monacò
era inserrato e davanti c’erano troffe di qruina, foglie grandi di
palma da dattero e rami di aranci e limoni, a significare che là
c’era la Tavolata del Patriarca. Arrivarono le tre Persone, si fece
avanti San Giuseppe e, tuppi tuppi, la porta si aprì, ma appena
vistolo con un:”Nun c’è posto pi vui!” si richiuse. All’oh
di disdetta della folla, fece eco lo sgomento di Peppi sia per fare
meglio la parte di San Giuseppe, ma soprattutto per la fame che lo
teneva alla bocca dello stomaco. Poi si fece avanti la Virgineddra
che bussò per la seconda volta. Ma il portone si richiuse dopo la
solita frase di rito: “Nun c’è posto pi vui!” Lo sguardo di
Nela da supplichevole che era, fece apparire un’ombra di dispetto
come a dire: “E picchi?”.Ma la cosa doveva andare avanti. Si
avvicinò al portone lu Riuzzu nicareddru tra l’aspettativa
generale,mentre il mormorio dei presenti si infittiva: “Ora
grapinu!”, rivolto ai vicini, a quelli più indietro, ma
soprattutto ai picciliddri, che aspettavano con più desiderio degli
adulti l’apertura della porta come festa grande quale era per tutti
la Tavolata. Tuppi, tuppi, si aprì la porta e Sisa Monacò vedendo
lu Re picciliddro sbarrachiò la porta: “Trasiti, trasiti Gesuzzu
Bamminu”. E Gesù fece il suo ingresso,seguito da Maria e Giuseppe.
Il piccolo Re benedisse la Tavolata: “Biniditta la cena, biniditta
la Maddalena, biniditti tutti quanti, Patri Figghiu e Spiritu Santu”.
E si entrò nella sala grande e i tre Personaggi si sedettero alla
tavola preparata per loro e rivolsero gesti benedicenti alla folla
che era entrata e ora si sistemava lungo le pareti. In fondo alla
sala c’era l’altare, costruito con un ‘intelaiatura di ferro e
sopra tanti ripiani, coperti da tovaglie ricamate, coperte in pizzo e
ricami, e sopra i piatti preparati. Sul primo ripiano troneggiava il
quadro del Patriarca, festonato con nastri e fazzoletti di seta,
fiori e soprattutto gigli bianchi a lui consacrati. Sui vari gradini
vi erano i pani, risultato di mesi di lavoro: la scala, le tenaglie,
i chiodi, il martello, l’ascia, la sega, la palma, il bastone di
San Giuseppe, spighe, l’ostensorio, cucciddrati, galli, stelle,
aciddruzzi, e gli specialissimi scartucciati, poi chichiri e panuzzi
pizziati e realizzati in varie forme. Poi le primizie di frutta,
verdure ortaggi: vaiane di fave e piselli, carciofi, carduna, sparaci
di campagna e di lampi e trona, finocchietti e poi burranii, giri e
tutte le altre verdure fresche e cucinate in tutti i modi possibili:
consa per la pasta, come frocia coll’uovo, e poi i biscotti e i
dolci: cassate, torte con frutta, risu nivuru, vera delizia per il
palato, u biancu mangiari, vasceddri di ricotta, ricotta a forno,
frisca, salata, fatta a tummali con la salvia, a gattò, cu i
cannola, a noccioline fritte, uova murrina, uova ‘ncannulati,
cassateddri, e piatti di pesce. Poi pasta di casa: tagghiarini,
maccarruna cu i busi e senza, cavateddri. Poi i biscotti di tipo
diverso: turchetti, biscotti di anice, mustazzoli, taralli, viscotta
‘ngilippati, moscardini, zuccata, marmellate, mandorle sfuse, cotte
in forno, caliate nella cenere e sabbia roventi con ceci e fave
secche e coi semi di zucca, messi lì a fare calia e simenza. Ancora
mandorle come torta, come croccante, frutta di martorana, torrone di
tanti tipi e gelato di campagna.
Di
tutte le pietanze, dopo il piatto d’entrata minestra con verdure di
stagione, Peppi e la sacra famigghia ebbero un assaggio di tutto.
Finito il pranzo, dopo l’orazione e i canti, i tre benedirono
ancora tutti e si alzarono per andare, riforniti dalla padrona di
casa di capaci sporte piene di ogni ben di Dio. Alla fine si diede a
tutti un assaggio delle varie pietanze e iniziò il festino vero e
proprio per i presenti, atteso da tutti e in specie da chi durante
l’anno riusciva a malapena ad avere il lusso di pane e cipolla e
come condimento tanta povertà e tanta insoddisfatta fame, tanto che
dicevano spesso ripetendo il vecchio proverbio: “Adinchi la pansa e
adinchila di spini.” La distribuzione cominciò dagli ospiti più
in vista e via via per tutti gli altri presenti .Non vennero
dimenticati gli orfani del convento, i poveri dell’ospizio e anche
gli ultimi degli ultimi che non osavano avvicinarsi, ma che Sisa
Monacò non dimenticava mai.
Tanina
Lipari
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