di Tiziana Grassi - Ieri. Quando eravamo noi italiani, tra Otto e Novecento, ad
emigrare oltreconfine. In Francia ci
chiamavano babis (rospi), in America Latina eravamo burros (asini) o polpettos, per richiamare la carne povera usata dai nostri
connazionali.
Negli Stati Uniti
eravamo mangiamaccaroni o greaseball, ‘palla di grasso’, riferito
alla scarsa igiene, ed era frequente essere associati al termine scabs, ‘crumiri’, in quanto noi
italiani, collocati agli ultimi posti nella scala sociale, ci accontentavamo di
qualsiasi lavoro a compensi modesti. Corsi e ricorsi storici. Nel gergo urbano
di New York, fuggedaboutit, deformazione di forget
about, ‘lascia stare, non fa niente’, ironizzava sull’accento e la parlata
italo-americana, in Germania ci
definivano ithaker (da Itaca, ovvero
eterni vagabondi senza patria), nella Svizzera
tedescofona eravamo etichettati come bolander-schlugger,
ossia ‘inghiotti polenta’, prima che la polenta fosse soppiantata, anche sul piano
simbolico, dagli spaghetti. Nel solco degli stereotipi, nei Paesi tedescofoni
diventammo spaghettifresser, ossia
‘sbrana spagetti’ per ridicolizzare la presunta voracità dell’italiano affamato
dinnanzi a un altro piatto-simbolo nostrano, in Brasile eravamo stigmatizzati come carcamano con il significato di ‘imbroglione’, riferendosi a chi premeva
con la mano per alterare il peso della bilancia e vendere a prezzo più caro il
prodotto. Un vasto panorama di termini dispregiativi, nomignoli gergali, appellativi
e soprannomi con cui nel passato gli italiani sono stati designati all’estero e
che esprimono il vasto bagaglio di pregiudizi che hanno accompagnato il nostro
migrare nei diversi Paesi di ‘accoglienza’. Un repertorio lessicale desolatamente
ampio che fa meditare su come lo stare a casa d’altri fosse - e continua ad
essere - una sfida difficile. “La lingua è, in fondo, soprattutto un luogo. Una
casa da condividere o una frontiera da attraversare, un ghetto in cui
rinchiudersi o un altrove in cui limitarsi a transitare - annotava lo scrittore
portoghese Vergìlio Ferreira -. Una
lingua è il luogo da cui si vede il mondo e in cui si tracciano i confini del
nostro pensare e sentire. Si pensi, ad esempio, ai suoni e alle parole in cui
abita la nostra identità collettiva, veri e propri luoghi dove si radica il
sentimento di appartenenza a quel territorio dell’anima che chiamiamo ‘patria’.
Oppure alle barriere, spesso invisibili, che quegli stessi suoni e quelle
stesse parole innalzano all’interno – oltre che all’esterno – della nostra
ecumene linguistica, trasformando la distanza e la differenza in esclusione.
Comunque la si intenda, la lingua è essenzialmente una questione di spazio:
fisico, storico, relazionale. Non solo portatore di una visione del mondo, ma
anche oggetto dello sguardo sul mondo”.
Oggi. Quando dai nostri giacigli caldi, un calore che
offusca la Memoria quale tracciante storico-identitario, siamo diventati Paese
di ‘accoglienza’. Dimentichi che un tempo, le traversate per mare, le facevamo
noi. Clandestini, extracomunitari, vu
cumprà, irregolari, stranieri, immigrati, migranti, viaggi della speranza,
respingimenti. L’alfabeto delle migrazioni - nell’essere specchio e riflesso
del proprio tempo - con il suo controverso repertorio linguistico si inscrive
nella profonda crisi di valori condivisi, in un passaggio epocale che vive uno
dei suoi più stridenti paradossi: da una parte la globalizzazione e gli
orizzonti transculturali a fronte di accaniti e tragici nazionalismi e
localismi. L’Uomo e i confini, non solo geografici, sono diventati categorie in
contrapposizione sul crinale di una straniante liquefazione di riferimenti umanistici
e valoriali, destituiti di senso nell’atomizzazione dei legami sociali. Demolita
la concezione solidaristica dell’esistenza - confermata dalle quotidiane stragi
di migranti al largo delle nostre coste - lo scenario migratorio è
intrinsecamente connesso alla sua rappresentazione mediatica, agli aspetti
linguistici della narrazione, consapevoli che il rapporto tra autoctoni e
stranieri si costruisce anche attraverso l’uso - corretto o improprio - delle
parole con cui definiamo la realtà attorno e dentro di noi, con cui
individuiamo/etichettiamo/confiniamo i cittadini immigrati. Come il termine “extracomunitario”,
spesso attribuito ad individui provenienti da Stati oggi appartenenti
all’Unione europea, che evidenzia tutta la scarsa consapevolezza geografica di
chi lo utilizza.
Ma nella costruzione della coscienza individuale e
collettiva, nell’interpretazione e gestione della complessità, che ruolo hanno
le parole, le definizioni, se l’utilizzo di un vocabolo, di per sé neutro, può
assumere significati connotativi, spregiativi e razzisti? Quanto incide, nella
rappresentazione mediatica delle migrazioni, la potenza seduttiva del
sensazionalismo? Su questi temi nevralgici - nella compagine di uno scenario
geopolitico particolarmente doloroso, in pieno dibattito su libertà di espressione
e di parola verso conoscenza e
rispetto dell’Altro, o sul termine ‘orango’
che, attribuito ad una donna italoafricana, qualcuno recentemente avrebbe
sostenuto far “parte del linguaggio politico” - nei giorni scorsi si è svolto il
Convegno “Comunicare l’Immigrazione”, presso il Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale (Coris) dell’Università
“La Sapienza” di Roma diretto dal prof.
Mario Morcellini. Un momento necessario
di riflessione critica e di forte spessore scientifico e culturale, per
sollecitare nuove consapevolezze sulla possibile ambiguità del linguaggio nella
trattazione delle migrazioni e il verosimile uso manipolatorio delle parole. Ma
anche un’occasione per focalizzare le enormi potenzialità che possono scaturire
da una lettura profonda dei termini e delle trattazioni mediatiche legati a
dinamiche e processi. Ricercatori, giornalisti ed esperti si sono confrontati
sull’argomento convinti che, senza una dialettica tra prospettive diverse, non
sia possibile penetrare in un fenomeno estremamente denso di implicazioni e
conseguenze sulla società. Tra le finalità del Workshop, contribuire alla
definizione di un quadro sugli stili di comunicazione e informazione dominanti,
tematizzare la complessità del rapporto esistente tra linguaggio e migrazioni e
analizzare la narrazione delle migrazioni a partire dai dati sulla rappresentazione
mediale e loro relativa percezione sociale per avviare una riflessione pragmatica
e positiva sui cambiamenti in atto.
All’interno della giornata di lavori - a cui hanno
partecipato Mario Morcellini, Fabrizio Melorio dell’Istituto Sturzo, Roberto Natale, portavoce della
Presidente della Camera dei Deputati, Giovanni
Maria Bellu, presidente dell’Associazione ‘Carta di Roma’, Simone Andreotti, presidente di In
Migrazione Onlus, Marco Bruno, ricercatore
in Sociologia dei Processi culturali e comunicativi, Valeria Lai, dottore di Ricerca in Scienze della Comunicazione alla
Sapienza - è stato presentato il nuovo portale per cittadini stranieri ‘Migrando.it’, realizzato dal Coris in
collaborazione con l’Istituto “Luigi Sturzo”, In Migrazione Onlus, Provincia di
Roma e Be Free Cooperativa. Una piattaforma digitale - finanziata dal FEI-Fondo
Europeo per l’integrazione di cittadini di Paesi Terzi - che rientra nelle
azioni previste dal progetto “Rights and responsibilities 2.0”. Fabrizio Melorio ha aperto i lavori presentando il progetto: “Un portale che
ha l’obiettivo di coinvolgere le associazioni straniere e i mediatori culturali
attraverso uno sportello virtuale, una piattaforma web multidisciplinare e multilingua
(in inglese, arabo, hindi, cinese e italiano) quale strumento efficace per raggiungere
i cittadini di Paesi Terzi presenti in Italia, con particolare riferimento a
quelli che vivono una situazione d’isolamento culturale e un mancato accesso
all’informazione e ai servizi. Un progetto che intende sostenere e migliorare
la percezione che spesso si ha delle associazioni straniere: da elemento di
chiusura a motore d’inclusione nella società d’accoglienza. Perché la
comunicazione – ha concluso Melorio – è un caposaldo per lavorare attivamente
all’integrazione dei migranti”.
Ha poi preso la parola il prof. Mario Morcellini, che ha subito inquadrato il tema dei
lavori, riflettendo sull’importanza della dimensione comunicativa,
sottolineando che “i migranti sono un aspetto decisivo del welfare e del Pil nazionale (secondo dati aggiornati ai primi mesi
del 2014, la ricchezza complessiva
creata dal lavoro degli oltre 2,4 milioni di ‘nuovi italiani’ - tra piccoli
imprenditori, domestici e operai - è pari all’8,8% del Pil nazionale, con un
‘tesoro’ di 123 miliardi di euro immesso ogni anno nel sistema circolatorio del
Paese, ndr), eppure sono due elementi
in secondo piano rispetto agli aspetti della cronaca nera”. Sulla questione
migratoria, spesso affrontata dai media in un’ottica emergenziale e
sensazionalistica, attraverso semplificazioni quotidianamente trasmesse all’opinione
pubblica, Morcellini ha proseguito rilevando l’ “assurda competizione fra
poveri, dove si mette in contrapposizione il dettaglio sui soldi dati ai
migranti in confronto alle marginalità dei residenti, costruendo così una
miscela sociale esplosiva. L’immagine della realtà viene spesso costruita senza
approfondimento, senza confronto, senza argomentare: è anche così che si forma
il populismo. Noi ci impegniamo da anni nella ricerca su questi temi,
collaborando con tantissimi enti, associazioni, Ordine dei Giornalisti, Federazione
della stampa, Ministeri, Rai, ecc. Abbiamo dato esempio di un’Università che si
rende conto di non poter lavorare da sola nel dover offrire un contributo sulle
tematiche dei migranti, e abbiamo dato prova di grande apertura. Purtroppo però
si producono incrementi troppo lenti in termini di cambiamento. Ma fondamentale
è la scoperta del potere della rappresentazione: il tarlo della modernità e il
punto critico dei media, anche nel fornire esperienza narrata, è il potere che
ha rispetto alla realtà vera. Se non correggeremo la distanza tra mondo
rappresentato e mondo reale, non riusciremo ad intervenire sulla cattiva
rappresentazione delle migrazioni”.
Collegandosi al pensiero dell’insigne sociologo, Simone Andreotti ha condiviso
l’importanza della comunicazione, “elemento imprescindibile quando si parla di
integrazione. I migranti fanno tanto per il nostro Paese – ha sottolineato il
Presidente della Onlus In Migrazione – lavorando, vivendo, frequentando le
nostre scuole. L’inclusione sociale certamente si fa con le norme e i servizi,
ma se questi poi non vengono poi comunicati, è tutto inutile. Per questo
diventano centrali sia la rappresentazione dell’immigrazione sia la comunicazione
rivolta ai migranti. Diventa importantissimo spiegare loro cosa possono fare,
di quali servizi possono usufruire, e non con semplici traduzioni di un testo
dall’italiano all’arabo, ma con un sistematico lavoro di mediazione culturale.
Il lavoro sulla comunicazione per i migranti e quello di ricerca che svolge da
anni il Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale della Sapienza sono
fondamentali se non vogliamo creare sacche di esclusione”.Rispetto ai principali risultati delle ricerche condotte
dal Dipartimento della “Sapienza”, Valeria
Lai ha descritto l’immagine prevalente e stereotipizzata dell’immigrazione
nei media italiani: “Oltre ai rapporti di ricerca curati per l’Associazione “Carta di Roma” e quelli
sviluppati all’interno del Progetto
Mister Media, il Dipartimento si
caratterizza per un gran numero di collaborazioni con enti diversi. La stampa e
la televisione – ha osservato la ricercatrice – sono spesso attente ad
affrontare il tema quando diventa notizia di cronaca nera, utilizzando il
linguaggio dell’emergenza, alternandolo poi a quello del ‘pericolo di invasione’
quando si deve raccontare la tragedia dei tanti morti in mare lungo le coste
italiane. In pochi casi, e spesso solo sullo sfondo, è possibile leggere un
racconto diverso: quello riguardante, ad esempio, le naturali interazioni di
lavoro o di vicinato tra persone di culture e provenienze diverse in Italia. Perché
nel nostro Paese è così difficile raccontare i diversi volti dell’immigrazione?
La narrazione è caratterizzata da uso indifferenziato dei termini, diffusione
di stereotipi e pregiudizi negativi, eccessiva semplificazione, sensazionalismo
e spettacolarizzazione, superficialità nella tematizzazione, ovvero
immigrazione/sicurezza, immigrazione/criminalità, immigrazione/cronaca nera.
Troppo spesso l’immigrazione viene raccontata come problema da risolvere, con
poco spazio all’approfondimento. Si assiste alla tendenza di diffusione di informazioni
potenzialmente lesive della dignità delle persone coinvolte direttamente, o
meno, in fatti di cronaca. I flussi migratori sono raccontati dai media quasi
esclusivamente attraverso il fenomeno degli sbarchi. L’enfasi sul momento
dell’arrivo relega in un cono d’ombra la storia dell’immigrato e il suo
percorso migratorio, è così che i protagonisti sono di volta in volta
immigrati, migranti, clandestini, profughi e, raramente, richiedenti asilo e
rifugiati. Facilmente dal tema dell’arrivo si passa a quello dell’ ‘invasione’.
Tra le novità e gli aspetti positivi della rappresentazione – ha concluso Lai –
possiamo segnalare che nel 2012 hanno trovato spazio nei media italiani le
storie dei figli di immigrati attraverso i racconti di persone o associazioni
(“L’Italia sono anch’io”). I servizi Rai e Mediaset si sono concentrati sulla
biografia dei ragazzi, che legittima le loro richieste e li accomuna con i
coetanei autoctoni: figli di immigrati come protagonisti delle notizie che
raccontano le loro multiple appartenenze e la loro esperienza di vita in
Italia. Un racconto diverso è dunque possibile”.
Il potere delle parole, l’uso del linguaggio, il (buon) giornalismo.
Roberto Natale ha affrontato la
questione nodale dalla sua prospettiva: “L’immigrazione è il tema della
comunicazione ed è il tema della politica italiana ed europea. I raggruppamenti
populisti si stanno avvicinando tra loro sul tema dell’immigrazione. Altro che
‘accademia’!, questa è la sede più rilevante nella quale si affrontano con
professionalità le questioni decisive. Ci sono delle responsabilità, come
quelle di coloro che, nel nostro Paese, maneggiano in modo populistico i temi
dell’immigrazione, alimentando le distanze. Alle riflessioni del prof.
Morcellini e a quelle di Valeria Lai aggiungo l’importanza e l’urgenza delle cose. O affrontiamo con la
dovuta urgenza questo tema, gli accademici da parte loro, i buoni giornalisti
dall’altra, o faremo l’azione inutile di svuotare il mare con il secchiello. E
aggiungerei l’importanza di dare spazio alle belle notizie, perché solo con la
cronaca nera – credendo che sia l’unico modo per fare audience – non si aiuta a fare un servizio al pubblico”.
Una prospettiva che ha richiamato gli imprescindibili aspetti
etici e deontologici del fare comunicazione. Giovanni Maria Bellu, a questo proposito, ha ricordato il
fondamentale ruolo della ‘Carta di Roma’ (approvata il 12 giugno 2008) in
questi anni, nata per dare attuazione al
Protocollo deontologico che pone l’attenzione sulla necessità di
sostenere un’informazione responsabile che prenda le distanze da comportamenti
non corretti e superficiali e dalla diffusione di informazioni alterate o
generalizzate, quando non imprecise. Nello specifico, tale strumento chiede al
giornalismo italiano di trattare gli argomenti con la massima accortezza,
soprattutto per quanto riguarda l’impiego di termini corretti dal punto di
vista giuridico, allegando al documento un fondamentale glossario che riporta
le specifiche di ogni status,
rifugiato, richiedente asilo, migrante irregolare ecc. Una Carta che richiama sostanzialmente
i dettati deontologici presenti nella Carta dei Doveri del giornalista, con
particolare riguardo al dovere fondamentale di rispettare la persona e la sua
dignità e di non discriminare nessuno per l’appartenenza etnica, la religione,
il sesso, le condizioni fisiche e mentali e le opinioni politiche.
Marco Bruno, da anni
impegnato nello studio del rapporto mass media-immigrazione, ha ricordato
che “nel lavoro Fuoriluogo.
L’immigrazione e i media italiani (M.Binotto, Pellegrini ed., Cosenza, 2003) c’era un paragrafo dal titolo ‘Mai più Novi
Ligure’ (il delitto di Novi Ligure fu
un caso di cronaca nera particolarmente noto, avvenuto il 21 febbraio 2001. Erika De Nardo, che all’epoca aveva 16
anni, con il concorso dell’allora fidanzato Mauro “Omar” Favaro, di 17 anni,
uccise premeditatamente a colpi di coltello da cucina la madre Susanna “Susy”
Cassini e il fratello undicenne Gianluca De Nardo. Erika De Nardo narrò, con
vistosi errori e contraddizioni, di una rapina ad opera di extracomunitari finita in tragedia, fornendo una
descrizione di due malviventi che a suo dire ne sarebbero stati responsabili. Due
extracomunitari: “il colpevole perfetto” - secondo i più consunti stereotipi -
generò manifestazioni di protesta contro gli immigrati in tutta Italia, Novi Ligure compresa, ndr), a conferma che
negli
anni, come puntualmente osservava Morcellini, non si assiste a grandi
cambiamenti nel tipo di narrazione, se vediamo la frequente esposizione di casi
di cronaca nera spesso collegati a cittadini immigrati. Tutto ciò si ritrova
nei grandi come nei piccoli casi mediatici, aizzando e lavorando sugli istinti
nei confronti dell’Altro. A volte avvengono dei ritorni all’indietro: erano
anni che non mi occupavo delle questioni dell’Islam, eppure oggi si ritorna a
parlare di <guerra santa>. Il potere della rappresentazione rispetto ai
fatti è fortissimo. C’è ancora tanto da fare - ha osservato lo studioso -
probabilmente si deve tornare a riflettere sulla qualità del giornalismo,
dobbiamo segnalare la non accuratezza dei termini. E lavorare molto sulla
formazione”.
Il ruolo centrale dell’informazione, la necessità di un
giornalismo di qualità, di un uso corretto delle parole e delle definizioni/denominazioni,
sono spesso evidenziati negli studi e nelle ricerche di Flavia Cristaldi, docente di Geografia umana e di Geografia delle
migrazioni all’Università di Roma “La Sapienza”: già nel convegno dal titolo “Le
parole per dirlo. Migrazioni, Comunicazione e Territorio”, che la studiosa
organizzò nel 2008 (Le parole per dirlo.
Migrazioni, Comunicazione e Territorio, Atti del Convegno a cura di
Cristaldi F., Castagnoli D., Morlacchi ed., Perugia, 2012), suggeriva ai
giornalisti di inserire nei loro articoli le carte geografiche “per localizzare
anche visivamente gli eventi narrati e sviluppare una consapevolezza spaziale
del Pianeta Terra e dei suoi abitanti”. La geografa, estendendo e storicizzando
il campo delle riflessioni sul tema migratorio, osservava che “a volte basta
l’uso di un termine per etichettare una persona e rinunciare a conoscerla nella
sua individualità e specificità. Nei giornali, nei programmi televisivi, ma
anche in alcuni articoli scientifici, il linguaggio utilizzato per indicare i migranti
rientra nello stereotipo e finisce per alimentare la mappa della paura
piuttosto che la conoscenza reale del fenomeno. Le migrazioni hanno da sempre
caratterizzato la specie umana, ne hanno influenzato l’evoluzione e la
geografia, ed oggi rappresentano uno degli elementi costituenti dell’essere sul
pianeta, delle fughe dagli eventi catastrofici naturali, così come dalle guerre
e dalle carestie, ma anche l’elemento di riscatto per vite compresse in società
che non offrono opportunità lavorative o sociali. Le motivazioni che hanno
spinto e spingono gli essere umani allo spostamento, alla migrazione in una
terra diversa, sono da sempre molteplici e poliedriche. Nei secoli singoli
individui, famiglie o interi popoli si sono spostati, hanno attraversato i
confini per creare nuovi territori che portano ancora i loro segni nella storia
e nel paesaggio. (…). Il pericolo di una confusione terminologica, di un
etichettamento e di una stereotipizzazione del fenomeno migratorio e degli
individui coinvolti viene scientificamente studiato da un gruppo di ricerca del
prof. Mario Morcellini: (…) l’analisi dimostra come gli organi d’informazione
facciano più spesso disinformazione lanciando allarmi che alimentano la paura e
rafforzano gli stereotipi negativi (…). La presenza multietnica è ormai un
elemento strutturale del Sistema Italia e va quindi riconosciuta, studiata e
governata affinché nel prossimo futuro, attraverso un processo di educazione e
d’istruzione, tale presenza possa essere trasformata in interculturale”.
In un’ottica metacomunicativa, il ruolo della parola e dei
registri linguistici nelle interazioni umane, la funzione performativa e sociale
del linguaggio hanno, oggi, fondante cittadinanza
nella complessificazione della realtà, implicando e sollecitandone l’intrinseco
senso di responsabilità. Se l’informazione è ‘avariata’ e fuorviante – tra i
molti focus di riflessione della giornata – se è solo denuncia di ‘nera’ senza il
substrato di una prospettiva ermeneutica, se è al servizio del populismo e non
chiarisce informazioni inesatte, concorre a creare uno spazio pubblico
esacerbato seminando stille tossiche di invidia sociale che serpeggia sotto la
crisi economica che ha accartocciato il nostro Paese in un mantra dell’austerity
senza visione. Se i giornalisti, invece che
rivendicare i valori migliori della nostra democrazia e resistere alle tentazioni demagogiche, scelgono
di cavalcare un certo malessere xenofobo con una insistente informazione di tipo
emergenziale, da salotto televisivo, a cui non seguono analisi e
approfondimenti contestualizzanti, rischiano di rendere confusi i diversi piani
della realtà, alimentando rabbia ed esasperazione. Un giornalismo di approccio
antropocentrico sembrerebbe dunque l’antidoto al rischio della
non-informazione, o peggio, della disinformazione, come si è verificato per la
narrazione della violenta protesta anti-immigrati a Tor Sapienza, il quartiere
alla periferia di Roma che nello scorso novembre si è ribellato contro
immigrati-sindaco-e-governo. Il segno di un malessere, di una miscela sociale
esplosiva – come sottolineava Morcellini nel suo intervento – che esprime il dolorosissimo
conflitto ai piani bassi della piramide sociale. Un malcontento che, intrecciandosi
con la società multietnica, in realtà deriva da altri problemi che investono
l’Italia, come il diffuso senso di marginalizzazione, di esclusione, solitudine
e destabilizzante paura del futuro.
Temi che - sollevati nell’incontro alla Sapienza - offrono
e necessitano di molteplici e trasversali prospettive di osservazione demandate
a chi opera nel campo della comunicazione e tratta le dinamiche migratorie. E
può costituire una grande opportunità, l’occasione di un sostanziale cambio di
passo, il modo in cui raccontare i processi in corso: da molti anni il (buon)
giornalismo ha perso il contatto con il dato esperienziale diretto, con la
verifica ‘dal vivo’ delle fonti, quale l’ascolto dei soggetti protagonisti
della migrazione, spesso sostituto da un amalgama generalizzante, dalla notizia-spot-del-giorno,
da risse televisive che diventano rumore
mediatico. Una superfetazione comunicativa che non contribuisce a dispiegare i
necessari strumenti di decodifica interpretativa da parte dell’opinione
pubblica che, come è noto, può essere facilmente plasmabile. Uno scenario
performativo che rischia di coltivare derive populiste e stereotipizzate,
specie se stampa e tv - nel già aspro melange
di ingiustizie sociali e marcate asimmetrie al ribasso - continuano a non
sgomberare il campo da equivoci e falsi messaggi mediatici che, come virus,
intossicano la coscienza collettiva. Messaggi lasciati ripetere a cittadini
esasperati senza chiarire e smentire mai, in diretta, i tanti luoghi comuni;
come l’assai frequente e sommaria ‘argomentazione’ - che all’occorrenza punteggia
lo scontro tra i ceti più bassi degli italiani e gli immigrati - secondo cui “mentre
gli italiani non hanno lavoro, ai rifugiati diamo quaranta euro al giorno per
non fare nulla”. Di fronte a questi focolai di disinformazione che alterano la
percezione della realtà e, di conseguenza, la pacifica gestione delle relazioni
con l’Altro, un buon giornalismo dovrebbe prendersi in carico di spiegare dettagliatamente
all’opinione pubblica che, nello specifico, esiste una quota di 35 euro al
giorno di rimborso spese per ogni ospite, quota che non viene data
all’immigrato – come erroneamente credono in molti – ma che va alle
cooperative, alla Caritas e alle associazioni i cui piani sono approvati da una
commissione formata da rappresentanti di enti locali, Ministero dell’Interno e
Agenzia Onu per i rifugiati. E spiegare che con questi 35 euro a immigrato, le
associazioni devono coprire i costi per vitto, alloggio, pulizia e manutenzione
dello stabile, mediazione culturale, assistenza legale, visite mediche e, in
alcuni casi, l’iter burocratico per diventare rifugiati. E ancora, spiegare che
agli immigrati in quanto tali, è destinato (solo) il ‘pocket money’, ovvero un
buono per le spese quotidiane da due euro e cinquanta al giorno. Ma quanti
italiani lo sanno? Su queste
informazioni di base che riguardano tanti cittadini stranieri - i ‘nuovi
italiani’, per restare in tema di uso dei termini - e il Paese in cui vivono, sarebbe
opportuno - verso un’informazione di servizio e di alfabetizzazione ad una
matura coabitazione dei plurimi universi culturali - fare una apposita campagna
di comunicazione, depotenziando così ingiustificate tensioni.
Dalla forza delle parole a quella dei numeri. Anche un’analisi
del fenomeno migratorio basata su cifre esatte e statistiche potrebbe
incentivare una visione maggiormente condivisa dell’immigrazione in Italia e
quindi, senza nascondere le criticità, favorire una maggiore apertura e un
maturo atteggiamento di inclusione. Così, in una dimensione di servizio e di
comunicazione responsabile, per prendere pienamente in carico i fenomeni in
corso, sarebbe opportuno ricorrere alle informazioni di contesto date dai
numeri, con i loro paradossi: da recenti ricerche sul campo è emerso, infatti,
che in Italia “pensiamo” di avere il 20 per cento di musulmani, quando questi
sono solo il 4 per cento della popolazione. Ed ancora più ampia è la forbice
sull’immigrazione: gli italiani sono convinti di convivere con un 30 per cento
di immigrati, quando invece sono solo il 7 per cento. Come dire che l’immigrazione
“percepita” è di gran lunga più ampia di quella reale. Sono dati probabilmente
riconducibili all’idea che abbiamo dello ‘Straniero’ quale perturbante dei nostri panorami noti e costituiti (e per ciò
rassicuranti), al quale attribuiamo - proiettandone le responsabilità - la
diminuzione di servizi, di stato sociale e di opportunità nel nostro Paese. Un
calo di qualità della vita dovuto, invece, a tutt’altre cause. In tempi di
iper-comunicazione-in-tempo-reale - va ricordato, in uno scenario dai tanti
interrogativi aperti - diventa difficile per il giornalismo vendere prodotti di
qualità per la necessità di farsi “ascoltare”, qui e ora. E così si ricorre
alla notizia “gridata”, urlata, che espone i cadaveri. Un voyeurismo mediatico che ci riporta a
tanti decenni orsono, quando furono create le prime scuole di giornalismo, e i
professori, quelli del mestiere, predicavano la legge delle tre S: sesso, soldi
e sangue, i tre argomenti che all’epoca facevano vendere i giornali, aumentare
le tirature e la pubblicità. Mutatis
mutandis, con buona pace di quel pubblico che deve attendere le ore
notturne per assistere a programmi televisivi di qualità, quelle tre S sembrano
tirare ancora.
Come è stato sottolineato nelle conclusioni dei lavori a
cui, siamo certi, dovranno seguire altri momenti di riflessiva focalizzazione,
la questione etica della comunicazione è problema ampio, e non solo nazionale:
la retina sensibile dell’eterogenesi dei fini attraversa la responsabilità del come fare informazione, che avanza sulla
realtà, la plasma, la riflette, la narra, ma può anche deviarne la percezione. Per
andare oltre l’ ‘emergenza’, verso il disteso riconoscimento della presenza
stabile di cittadini stranieri o di origine straniera nel nostro Paese, il
complesso delle modalità comunicative richiama a diverse consapevolezze: che la
satira può ledere la dignità delle persone al pari delle nostrane espressioni politiche
razziste, che il concetto di libertà di espressione può essere equivocato, che
le tensioni dello scenario geopolitico contemporaneo necessitano di approfondimento
giornalistico, di confronto, di una linea di moderazione del dibattito, di
commenti, dell’utilizzo di termini giuridicamente appropriati, pensando, a tal
proposito, all’improprio e ricorrente uso della definizione di ‘clandestino’, uno
sconfinamento indotto da ignoranza, disinformazione o provocazione.
Ieri come oggi, è materia delicata e complessa, la parola,
quando si trattano le questioni migratorie, il vissuto migratorio degli
individui, gli universi valoriali dell’Altro da noi, le sfaccettate variabili
di decodifica culturale. Mentre sullo sfondo delle riflessioni che interpellano
il nostro essere al mondo, c’è un’ultima,
necessaria parola da evocare con
l’auspicio che il nostro Tempo ritorni a considerarne il portato. Solidarietà.
Una categoria fragile quanto nobile, che ritorna nell’era delle stridenti e
indegne disuguaglianze sociali. Un principio che, dopo essere stato a lungo
esiliato dalla sfera del discorso pubblico, riaffiora con rinnovata attualità
in una fase in cui il lessico freddo della scienza econometrica – insieme all’uso
fuorviante di alcune parole dell’alfabeto migrante – sembra oramai
insufficiente a raccontare le nostre vite. Migranti? Immigrati? Clandestini? Irregolari? Extracomunitari?
Richiedenti asilo? Rifugiati? Stranieri? Cittadini italiani di origine
straniera? Nell’urgenza di un’epoca alla ricerca di nuovi ancoraggi ontologici,
questi interrogativi non sono mere raffinatezze terminologiche quanto - sul
filo rosso di una meta-semantica - significanti attraversamenti, ineludibili fondamentali.
Visioni del mondo.