L'eredità di Alcide De Gasperi, per un impegno politico di lunga gittata

di Giuseppe Portonera* Nel volume di Beppe Sangiorgi, De Gasperi: uno studio, si ritrova un’articolata affermazione di Federico Chabod - lo storico che definì l’Appello ai Liberi e Forti l’avvenimento più notevole della storia italiana del XX secolo - che non conoscevo e che mi ha colpito. Essa si può sintetizzare nei seguenti termini: «Le nuove generazioni cercano nuove risposte». Può sembrare banale come concetto, ma mi sembra perfetto per dare avvio a questa mia breve riflessione, che ruoterà tutta intorno a cosa possa dire l’eredità di Alcide De Gasperi, a sessant’anni esatti dalla sua morte, a un giovane della mia generazione.

Cominciamo dalla prima constatazione: quell’eredità rischia di non poter dire nulla, rischia addirittura di non poter esistere, visto che siamo in pochi - specialmente all’interno della mia generazione - a conoscere la vita, la storia e l’impegno politico di Alcide De Gasperi. Lo statista, senza il quale il nostro Paese non sarebbe mai stato libero e inserito nel mondo occidentale, non ha mai ricevuto gli onori che avrebbe meritato. La sua presenza nella memoria collettiva è tenue e rischia di diventarlo sempre più ogni anno che passa: siano sempre i benvenuti, quindi, studi come quello di Sangiorgi e iniziative come quella organizzata dal Centro Studi Cammarata per presentarlo al pubblico. Siano sempre i benvenuti soprattutto perché – come dice la frase che sta in quarta di copertina al volume di cui parliamo – «De Gasperi va fatto scendere dal piedistallo di marmo sul quale è stato posto e va calato tra noi, o quella giustizia che il tempo gli ha reso resterà nei libri di storia ma non sarà nella vita di oggi del Paese per aiutarci a capire come riprendere la via dello sviluppo».
Cosa, dunque, ci dice Alcide De Gasperi? Provo a raccontare, prima di tutto, quello che ha detto a me: quando, per la prima volta, all’età di quindici anni, ho subito il fascino del mondo della politica, il mio primo modello di uomo politico è stato proprio Alcide De Gasperi. Prima che allargassi i miei orizzonti, prima che scoprissi il mondo al di là dei nostri confini nazionali, c’erano solo due figure che animavano il mio impegno: Alcide De Gasperi e, ovviamente, Luigi Sturzo. Il primo era un esempio di vita attiva, il secondo di cultura politica. Sono stati loro due – e su quanto fossero diversi eppure complementari tornerò più avanti, lungo il mio intervento – a formare la base del mio “credo politico”, che si fonda – ancora oggi e per sempre – su due presupposti indefettibili: la “libertà” e la “centralità della persona”. E sono stati proprio loro a permettere poi la mia successiva crescita intellettuale e filosofica: grazie al loro insegnamento ho conosciuto, abbracciato e amato i principi e i valori fondanti della nostra civiltà occidentale, così imperfetta ma certamente più conveniente di ogni altra prospettata o prospettabile alternativa (nel passato come nel presente, vedremo nel futuro).
Qualcuno potrà ricordare una splendida copertina del Time, del 25 maggio 1953, dedicata proprio a De Gasperi: il titolo era Only the free can choose, l’unico (politico) che un uomo libero possa scegliere. Il Time, storico e autorevole periodico statunitense, omaggiava così il nostro statista, nell’anno in cui si chiudeva, troppo presto e troppo traumaticamente, l’esperienza dei governi degasperiani e del centrismo. Il Time gli riconosceva d’essere stato un incrollabile alfiere della libertà e un fondamentale sostenitore della collocazione dell’Italia tra le potenze del mondo libero; e gli riconosceva – contro gli stereotipi che avrebbero contraddistinto alcuni tra i successivi democristiani – di essere un leader deciso e coraggioso, capace di prendere le decisioni giuste, al momento giusto. Come quella che prese quando chiuse il periodo di coabitazione con i comunisti e inaugurò la serie di governi moderati con i liberali e i laici: sulla scorta della vittoria più grande che un partito abbia mai conquistato, De Gasperi governò dal 1948 al 1953 garantendo stabilità, ordine e crescita al Paese. E qualcosa, brevemente, su quella esperienza governativa voglio dirla pure io: il boom economico che ha segnato i nostri anni ’60 è originato tutto lì, tutto nella politica economica che – e qui si dimostra la lungimiranza di un leader vero – Alcide De Gasperi aveva assegnato a Luigi Einaudi e ai suoi allievi, come Giuseppe Pella (e questo segna un altro punto a favore di De Gasperi: unico Presidente del Consiglio ad essersi scelto dei liberali seri e coerenti come ministri economici, pur avendo nel proprio Governo anche ministri che esprimevano le ragioni del cattolicesimo sociale). A questo proposito non so se esistano studi storici approfonditi che trattino del rapporto tra De Gasperi e Einaudi: sarebbe interessante, documenti alla mano, valutare il rapporto politico e personale tra questi uomini che insieme hanno permesso la rinascita del nostro Paese e il suo ingresso nel novero delle democrazie occidentali. Vale ad esempio ricordare la bella riflessione che l’ormai presidente emerito della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha dedicato al lavoro di De Gasperi e Einaudi, nel 50esimo anniversario della morte di quest’ultimo: egli ha ricordato che, tra il 1946 e il 1947, «De Gasperi ed Einaudi (hanno) costruito in pochi mesi una sorta di “Costituzione economica” che (hanno) posto al sicuro, al di fuori della discussione in sede di Assemblea Costituente». Una “Costituzione economica” che garantì – anche se solo nei primi anni della Repubblica – la demolizione dell’autarchia, la liberalizzazione degli scambi e la collocazione dell’Italia nel processo di integrazione europea. E fu proprio con la firma dei Trattati di Roma del 1957 – che De Gasperi purtroppo non riuscì a vedere – che furono riconosciuti dall’Italia i principi fondamentali dell’economia di mercato e della libera concorrenza. Quei fondamentali principi che avevano animato l’operato dei governi De Gasperi e che purtroppo la nostra Costituzione non riuscì a riconoscere: essi rientrarono, anche se in minima parte, nell’attualità della politica italiana proprio grazie al diritto comunitario.
De Gasperi non è stato, poi, solo un Padre della Patria. È stato anche un Padre dell’Europa: e il libro di Sangiorgi ci ricorda che proprio la via degasperiana rappresenta la strada da seguire per riavviare il processo di integrazione europea. La Comunità europea è nata grazie alla collaborazione di quattro grandi statisti europei cattolici e popolari: in Italia De Gasperi, in Germania Adenaeur e in Francia Schuman e Monnet. Tutti loro avevano capito che l’unico modo per garantire un futuro di pace e prosperità ai propri Paesi e all’Europa tutta era quello di integrare i rispettivi mercati e di superare le frontiere nazionali, nella valorizzazione della comune appartenenza europea. Non dovremmo dimenticare mai che l’Europa politica è stata fondata sulle quattro fondamentali libertà di circolazione: di persone, di servizi, di merci e di capitali. L’Unione europea è principalmente uno spazio di libertà: dovremmo ricordarlo a chi – populisticamente – sostiene che una soluzione contro il terrorismo sia la sospensione dell’Area Schengen (se per un manipolo di terroristi rinunciamo alle nostre libertà fondamentali, abbiamo già perso in partenza la grande battaglia del nostro tempo, quella per la democrazia e il pluralismo). Ecco quindi un’altra cosa che l’eredità di De Gasperi dice a un giovane della mia generazione: in un momento in cui l’Europa sembra essersi smarrita tra populismi irrazionali e soluzioni tecnocratiche, bisogna recuperare l’idea dell’Europa «nostra Patria», sottolineandone la funzione di contenimento degli egoismi dei governi nazionali e di propulsione della cooperazione, economica e sociale, tra i liberi individui europei. Senza che questo però sconfini nella creazione di un nuovo super Stato europeo: gli Stati Uniti d’Europa sono un bel sogno, ma con la fisionomia attuale che si è data l’UE – allargandosi troppo e indistintamente – è impossibile immaginare anche solo lontanamente uno Stato federale unico. Anzi, secondo me, continuando su quella via si rischia di distruggere quanto di buono è stato fatto finora. I 28 Paesi che ad oggi compongono l’UE – e quelli che poi continueranno ad aggiungersi – possono e devono senza dubbio, però, continuare a rappresentare quello che De Gasperi, Adenauer e Schuman volevano creare: un grande spazio di libertà. La Marcia Repubblicana di Parigi della scorsa domenica ci lascia sperare che questa conquista che è l’Europa unita possa ancora vivere e prosperare: e questo perché, per tornare a citare De Gasperi, «solo se uniti saremo forti e solo se forti saremo liberi».
De Gasperi è stato un Padre della Patria e un Padre dell’Europa. Ma è stato anche un Padre politico e, per così dire, “partitico”. È stato difatti il principale padre fondatore della Democrazia Cristiana, il partito la cui permanenza al governo iniziò con la fine della guerra e terminò con la fine della Prima Repubblica: un cinquantennio di luci e ombre, di stagioni appassionanti e di momenti più difficili e travagliati. La stagione degasperiana è senza dubbio tra quelle più appassionanti: furono gli anni della vittoria del 1948, della collaborazione con i laici, della stabilità economica e delle riforme agraria e tributaria; furono, certo, pure gli anni della sconfitta sulla legge cosiddetta truffa (che avrebbe assegnato il 65% dei seggi alla lista che avrebbe superato il 50% dei consensi). Quella legge elettorale rappresenta un’altra testimonianza della lungimiranza di De Gasperi: egli aveva capito, per tempo e prima di molti altri, l’importanza di avere una legge maggioritaria e non proporzionale per garantire governi stabili e la democrazia dell’alternanza. Se De Gasperi avesse vinto quella battaglia (ma la perse per pochissimo), il centrismo sarebbe diventato una formula di governo più duratura e la DC avrebbe probabilmente evitato di intraprendere la strada della “democrazia bloccata”, che finì per consumarla tra alleanze stentate e sempre più compromissorie. E invece così non fu: De Gasperi si dimise nel 1953 e morì appena un anno dopo, nel 1954 (quella morte, come racconta Sangiorgi, fece scoprire improvviso l’affetto che verso di lui aveva tutta l’Italia). La sua morte, seguita a breve distanza da quella di Luigi Sturzo, segnò il tramonto dell’ultima generazione di cattolici che – indirettamente o direttamente – si richiamava all’esperienza del Partito Popolare Italiano e a un’idea di cattolicesimo impegnato in politica che avrebbe avuto nel tempo successivo pochi autentici interpreti. Tramontò cioè quella generazione di cattolici piena di idee riformatrici, ma aliena da qualsiasi visione palingenetica di rifondazione del mondo dall’alto e che ancora custodiva il significato della distinzione tra società libera e Stato.
Proprio sul rapporto tra De Gasperi e Sturzo è necessario spendere qualche parola in più. L’ho detto prima: i due sono diversi, eppure complementari. Erano diversi prima di tutto nella loro provenienza geografica e non potevano esserlo di più: Sturzo proveniva dall’estremo Sud, De Gasperi dal Nord così estremo da essere diventato “italiano” di diritto soltanto a 38 anni. Potremmo pure dire che con il loro sodalizio politico abbiano, in un qualche modo, fatto l’Italia contemporanea, legando il Nord “redento” dalla Grande Guerra a un Sud invece sempre “irredento”: erano riusciti a fare più loro di tutti coloro i quali li avevano preceduti. Cavour non era mai andato oltre Roma, De Gasperi aveva invece impresso un forte indirizzo riformistico al proprio Governo dopo aver visitato Matera e aver costatato la spaventosa povertà di quella terra.
Anche i partiti che i due hanno fondato sono “diversi”: la Democrazia Cristiana di De Gasperi aveva qualcosa in più del Partito Popolare di Sturzo. La DC era un partito più “ampio” e “ecumenico” del PPI e la sua “destra” e la sua “sinistra” erano molto più organizzate e forti di quelle che c’erano nel PPI (in questo contò, certo, anche il nascere di una nuova generazione di cattolici formatasi più sotto gli anni duri del fascismo che in quelli del popolarismo leoniano e sturziano). La competizione di idee e visioni che c’era nella DC era una cosa importante e positiva (ed ecco un altro insegnamento: i partiti prosperano finché c’è competizione e valorizzazione delle differenze anche al proprio interno); peccato che poi, con il passare del tempo, quella competizione si sia snaturata e sia scaduta.
Concludo in maniera, per così dire, “inclusiva”: ho citato all’inizio Chabod e la sua massima sulle «nuove generazioni che cercano nuove risposte». Termino facendomi e facendovi una domanda: può la nostra «nuova generazione» trovare «nuove risposte» in Alcide De Gasperi? La risposta non può non essere: certo che può e deve farlo. Beninteso, però, solo se evita di cristallizzare il mito di Alcide De Gasperi, se sfugge a ogni illusoria e acritica rievocazione della sua vicenda: le nuove generazioni sono tali non solo perché cercano nuove risposte, ma anche e soprattutto perché le pensano, le creano e le mettono in pratica. Alcide De Gasperi può dirci ancora molto su come si ricostruisce un Paese, su come si creano partiti, governi e coalizioni, su come si salva l’Europa unita. Ma, per parafrasare il contenuto di altre due celebri massime lo statista trentino, la cosa più importante che ci ha insegnato Alcide De Gasperi è che bisogna sentire la politica come una missione e non come una breve incursione nelle nostre vite; e che lo sguardo di un uomo impegnato in politica non può mai essere di “breve periodo”, deve essere di “lungo”, di “lunghissimo” periodo: perché fare politica come l’avrebbe fatta De Gasperi significa non farla per noi e per i nostri elettori, significa piuttosto farla per i nostri figli e per i loro figli e nipoti.
© Riproduzione riservata

Centro Studi sulla Cooperazione «A. Cammarata» di San Cataldo (CL)
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