IL POTERE TRASFORMATIVO DELLA PAROLA: METTERE NERO SU BIANCO CAMBIA TUTTO

 


di Caterina Civallero

 

Scrivere le proprie emozioni su carta è la terapia più efficace per riorganizzare la propria vita. Lo dico con entusiasmo e convinzione e non soltanto perché mi occupo di Psicogenealogia. Già da bambina, quando parlavo poco perché ero intenta a osservare tutto, mi ero resa conto che il mio diario, o semplicemente i fogli della carta da lettere della Holly Hobbie, sapevano raccogliere, trattenere e poi trasformare alla perfezione i miei sentimenti.

Per anni scrivere fu una necessità, poi divenne uno strumento e oggi fa parte della mia professione di scrittrice, ma il punto su cui voglio invitarti a seguire il filo del mio discorso è che attraverso la scrittura è possibile cambiare il proprio passato. Follia? No, assolutamente no! È una realtà. Tangibile quanto incredibile, efficace e straordinaria, e se vogliamo anche aggiungere un dettaglio poco trascurabile, economica.

Apparentemente nulla sembra cambiato, tanto è naturale oggi il mio essere come sono, eppure è anche cambiato tutto. La scrittura mi ha permesso di mettere insieme quei pezzi che non riuscivo a collimare con gli altri, nonostante i tentativi o la volontà. Con le formule acquisite negli anni trascorsi a studiare la fisica, la semantica, partecipando a conferenze sulle varie simbologie psicologiche e psicoanalitiche dell’essere, eseguendo con fiducia gli esercizi acquisiti dai colleghi incontrati lungo il cammino, semplici quanto efficaci e immediati, mi sono indirizzata verso una dimensione amorevole che ha modificato la mia disponibilità verso ogni componente della mia vita e della mia famiglia.

Pezzo dopo pezzo ho ristrutturato ogni mia difficoltà: mi è stato così possibile risanare rapporti difficili che credevo irrimediabilmente persi per sempre. Per questa ragione ancora oggi esorto chiunque abbia sofferenze ingestibili a rivolgersi a professionisti che operano nel campo della Psicogenealogia. Spesso i risultati che produce si manifestano nel lasso di qualche ora, a volte in pochissimi giorni. Nel suo lato esecutivo, è un metodo pratico semplicissimo che rivela una validità concreta e riproducibile.

Tutto può essere recuperato. Attraverso il giusto movimento e con la giusta presa di coscienza, nel tempo, con il proprio tempo, tutto può trovare il suo giusto posto.

Sono riuscita così a bonificare il rapporto tormentato con i miei genitori, in particolare quello con mia madre defunta da anni, a recuperare il rapporto con mia sorella, e ne ha giovato ogni mio aspetto di vita: la salute, il lavoro, il benessere in tutte le sue sfumature.

Da sempre l’uomo ha bisogno di sapere che esiste qualcosa al di là del visibile, qualcosa che va oltre il corpo, le sue stesse braccia e gambe, qualcosa capace di consentirgli un movimento più intenso rispetto a quello possibile nello spazio evidente. Il percepire, immaginare, desiderare e credere che esista qualcosa di più, oltre a ciò che si vede e che si tocca, per sapere di essere vivi, completi. È nella sfera del pensare, dell’immaginare, che risiede la maggior parte del nostro vissuto. È oltre la materia di cui siamo fatti che si gioca il gioco della vita. È lì, in quel “non luogo”, che esistiamo davvero e che ci completiamo.

È lì che nasce e vive la nostra speranza, la passione, il desiderio, il progetto. Insieme alla preghiera e alla meditazione, il rito della scrittura forgia quello strumento necessario per toccare il Tutto, o per avere la sensazione di poterlo raggiungere.

È un Tutto fatto di possibilità che ci spinge a superarci, ad andare oltre il visibile, a volere fortemente che le cose accadano. È quella dimensione personale dove ogni cosa, pensiero e azione, prende forma prima ancora di manifestarsi nel campo del reale. È come il teatro di periferia, o la piazza del paese, dove l’attore esordiente recita e prova la scena per il grande debutto. È nell'intimità di gesti e pensieri, di parole recitate nel cuore, che l’anima inizia a danzare. A partire da qui, il movimento prende forma, quindi origina dal sentire, dal sapere antico che abbiamo dentro e che ha percorso la strada dell’albero genealogico per raggiungerci. Possiamo dire che il rito della scrittura è l’insieme e la sequenza di azioni a cui attribuiamo con consapevolezza il dipanarsi del nostro destino, esattamente come lo srotolarsi di un nastro.

Scrivere e poi rileggere il proprio scritto, riesce a muovere sul piano della realtà, in noi, nella nostra fisiologia, attraverso i nostri neuroni, un movimento veloce e concreto volto a modificarci profondamente.

Mettersi davanti a un foglio bianco è come vedersi riflessi in uno specchio. È guardarsi senza essere visti da altri, in un luogo protetto, sicuro. È un patto segreto con noi stessi, stipulato con la nostra anima, in accordo di potenza con il permesso di esprimersi senza paura di conseguenze. È trovare uno spazio, nel mondo, in cui nascondere fiduciosamente ogni proprio risparmio emotivo, sapendo con certezza che l’investimento potrà soltanto crescere a dismisura. È un gioco che permette di vincere; che garantisce sempre una vincita, una ricchezza dalla crescita esponenziale: si vince sempre.

Ricordo che da bambina ogni mio gesto era un inventare: un “giocare magico”. Immaginavo oggetti, interpretavo personaggi, creavo con la mente fantasie immense e mondi spaziali per divertirmi. Una foglia caduta da un albero poteva diventare qualunque cosa, da una polpetta per una finta cena cucinata con pentole immaginarie a un gioiello prezioso da portare in dono a mia madre affinché lo appendesse al collo. Era una banconota da utilizzare per contrattare un ipotetico acquisto, per dimostrare a mio padre che iniziavo a conoscere il valore del denaro. Un rametto trovato nel bosco o nel parco poteva diventare una spada, un arco, una bacchetta magica o qualunque cosa desiderassi. Da bambini eravamo costruttori di felicità. Immaginavamo una scena e subito la interpretavamo. Credevamo che tutto fosse possibile. E lo scontro con la realtà non ci impediva di sognare e sognare ancora. Trovavamo sempre vie di fuga. Nulla rappresentava un ostacolo.

Era attraverso la ripetizione di gesti precisi e meticolosi che le nostre favole da vivere e gustare prendevano forma. Era un rituale tutto nostro dove la parola pugno (o pace, o arimo) voleva dire “basta, fermiamoci un attimo!”, dove la parola mica voleva dire che ciò che avevamo appena affermato non era vero, dove con la frase “è per finta!”, o “facciamo per finta!”, giustificavi tutto: e tutto, così, accadeva. Magicamente.

Poi cresci e smetti di “fare per finta che”. Piano piano inizi a dimenticarti di giocare. Non ti accorgi nemmeno del momento in cui smetti di farlo, quel momento non ha data ma accade quasi di colpo. Ti trovi così ad applicare, dispensare e insegnare regole, schemi. Tutto diventa rigido. I confini fra le cose si induriscono. La parete del sognare diventa impermeabile e non passa più niente. Non filtra nulla. Ciò che è dentro resta dentro, ciò che è fuori resta fuori. Se ti dimentichi di costruire una porta, un passaggio per muoverti, se resti all'interno del tuo dedalo, inizi a percepire lentamente che sei murato vivo.

E soffri, ancor prima di iniziare ad accorgerti che sei prigioniero. Lì inizia una lenta presa di coscienza che ti mostra le pareti di un carcere senza luce, un luogo da cui un giorno, forse, deciderai di evadere.

Prima o poi tutti ci troviamo in questo luogo, a questo punto della nostra esistenza.

 

Ero arrabbiata con mio Padre. Trovavo ingiusto che mi avesse scritto quella lettera orrenda. Ci misi del tempo ad assorbire il colpo, anni… poi gliene scrissi una io… che non gli consegnai mai, e da cui partì un sogno che tornò più volte, con il suo ricordo, a bussare alle pareti della mia mente.

È vivo nella mia mente e ringrazio di non averlo mai dimenticato: a un tratto mi trovo in una stanza che non ho mai visto. Non so dove sono ma so che è un posto che conosco molto bene. Nei sogni si vivono sempre sensazioni strane. Ti trovi a far parte di mondi che sono al confine fra il possibile e l’impossibile con la consapevolezza che sia tutto normale.

Davanti a me c’è una donna che ha all'incirca la mia età: so che è mia nonna. Non so come lo so, ma so che è lei.

Mi metto di fronte a lei e con tono sostenuto la attacco ferocemente con impulso e convinzione. Le dico che ha fatto male a educare suo figlio, mio padre, in quella maniera. La attacco e la offendo. La accuso e la ritengo responsabile di ogni mia sofferenza attuale. Le dico: “Hai cresciuto tuo figlio nell'asprezza e lui ha riversato su di me tutta la sua rabbia. Mi ha offesa, giudicata, ferita, osteggiata, per colpa tua! Vergognati! Non dovevi agire così!”.

Allora lei, mia nonna, mi guarda, è incredula, mi osserva, è mortificata; fa un passo indietro e dice: “hai ragione… non dovevo fare figli, sono stata una cattiva madre”.

Muove ancora alcuni passi indietro e vedo la sua immagine che sbiadisce, man mano che indietreggia ringiovanisce e a un tratto torna ragazza.

La osservo da lontano: è con un giovane uomo, so che è suo marito, mio nonno (io non l’ho mai conosciuto). Lui la guarda, le prende una mano, le accarezza le dita e le chiede: “dammi un figlio”.

Lei lo guarda piegando la testa di lato, osserva un punto imprecisato per terra, un po’ di lato, e risponde: “No. Non posso… scusa… mi dispiace tanto… non posso”.

A questo punto mi sveglio e scopro che io non esisto. Non sono mai nata.

Non sono morta, semplicemente non sono mai stata concepita. L’idea di me non è mai partita. Nessuno mi ha mai pensata, immaginata, creata, desiderata, innescata, e io non sono mai esistita. Tutta la mia vita è vana.

Mi manca l’aria. È una sensazione orribile. So che è stato un sogno, ma la sensazione che mi ha lasciato addosso è densa, non la riesco ad allontanare: mi ammanta e mi soffoca.

Ho come la sensazione di non vivere. Sto rubando la vita a qualcuno, lo spazio a qualcuno. Sono in una scena che ho deciso io di vivere, ma che non ha regia alle spalle. Non ha né trama né sceneggiatura. Mi sento in un incubo.

Sono in una dimensione che non esiste, a vivere emozioni che non hanno senso e che non mi portano a risolvere e realizzare nulla. Non ho futuro, senza passato!

Cerco di ricordare le parole che ho pronunciato nel sogno. Le ripeto mentalmente, le inseguo, cerco di ricordarle una per una senza dimenticarle o confonderle. Non ci riesco. Mi sfuggono, più le inseguo più si mescolano. Cerco di riorganizzare il discorso che ho fatto e quelle parole le trovo superate. Il senso delle mie parole è fuori luogo.

Ogni termine pronunciato nel sogno ha già espresso il potenziale rabbioso che conteneva e ha perso di significato. Come se non valesse più. L’assurdità infantile con cui ho manifestato il mio pensiero, il mio percepire, si chiarifica. Nel ricostruire il mio discorso mi rivedo. Sento la stonatura del pezzo. Mi vedo. Vedo che chi ha parlato era arrabbiato, avvelenato. Rivedo la scena e scopro che non sono più lì. Mi sono spostata. Sono altrove, stento addirittura a credere di avere davvero detto io quelle parole, ma so che dentro di me, da qualche parte dentro di me, sono uscite, sono emerse. Mi sono appartenute, erano mie. Qualcosa da dentro sale: subito è calore, sembra quasi vergogna. Vergogna e pudore per aver pensato quelle brutture.

Resto in silenzio e sento clemenza. E poi pietà. Compassione. Qualcosa cresce in me e si espande. Il calore cresce e io provo pena per quella donna, per mia nonna: una donna che ho visto pochissime volte nella mia vita, ma che oggi o domani potrei essere io davanti agli occhi di mia nipote.

La vedo e mi dispiace per lei. Se fossi ancora nel sogno allungherei una mano verso di lei. Le toccherei la spalla e le direi: “Non piangere… Non piangere ti prego”.

Poi la guarderei e le chiederei scusa. Chiederei scusa a quella giovane donna che non avrei mai pensato avesse la mia stessa pelle, la mia stessa corporatura, così simile a me.

La guarderei e ancora ne avrei compassione. La abbraccerei e le direi: “Sei una madre: cresci i tuoi figli come meglio credi, secondo la morale e la cultura del tuo tempo; esprimi in ogni tuo gesto le rabbie che ti porti dietro da secoli, come me. Va tutto bene nonna. Va tutto bene”.

Poi cerco nel cassetto la lettera che avevo scritto a mio padre, quella che ha innescato il sogno. La leggo con disagio. Sono mortificata. Resto in silenzio. So che nessuno può vedermi, ma sento addosso gli occhi del mondo.

Nel portare il foglio sul balcone, durante l’atto di bruciarlo nella pentola di coccio, ho come l’immagine che sarà il fuoco a levare in volo la mia colomba di pace. Le fiamme cancelleranno con sacralità le atrocità che avevo scritto. Il fuoco distrugge, trasforma, elimina, alleggerisce. È una magia che mi trasforma e fa di me un essere più pulito, più sereno.

L’atto del bruciare il mio scritto è un accordo fra me e me stessa. Un giubileo, un condono.

Mi permetto di aver pensato e agito in un modo che oggi scelgo di cancellare, trasformare. Sarà la cenere che resta al fondo della pentola e che il vento porterà via poco alla volta, a darmi la traccia e il ricordo di chi ero.

Resterà sempre qualcosa della me precedente, della rabbia che avevo provato, ma sarà disperso nel tempo e nello spazio in pezzi così piccoli che niente e nessuno potrà ricomporre.

So che è una rabbia che non potrà più concretizzarsi.

L’ho vista. L’ho sentita. Mi è entrata dentro profondamente, la sofferenza che ha generato; ma so che adesso sono pronta a lasciarla andare.

Il fuoco è una scelta senza ritorno. Il fuoco bonifica e fertilizza.

Lascia una memoria.

Lascia spazio ad altro.

Poi, il fuoco avvolge le mie pagine, le inghiotte, le accartoccia e le scioglie. La carta è poca ma si leva un calore immenso, e in quel riflesso dorato che muove l’aria vedo ogni cosa e mi penso, mi rivedo… Mentalmente cerco di ricordare le parole che avevo scritto ma sono scomparse.

 

Fu allora che da dentro si levò una voce senza suono che diceva così:

 

“Caro Papà,
era tuo diritto scrivere quella lettera.
Con il tempo ho capito che avevi ragione,
vedevi quello che io da sola non riuscivo a vedere;
sei mio padre, sapevi chi ero, sapevi di cosa avevo bisogno.
Nel tempo ho compreso il motivo per cui mi hai attaccata:
volevi che io diventassi adulta.
Mi hai spinta a reagire, a uscire allo scoperto.
Ora so che hai agito per il mio bene.
Se tu fossi qui ti abbraccerei e ti chiederei scusa.
Grazie, Papà!”.

 

Caterina Civallero

 

 

CATERINA CIVALLERO Consulente alimentare, facilitatrice in Psicogenealogia junghiana, scrittrice

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