Suonare Bach oggi: Il Quartetto di Cremona tra storia ed emozione. L'intervista di Fattitaliani

 


di Giovanni Zambito - Dopo la pausa estiva, la grande musica torna protagonista con la decima stagione dei concerti firmati Asolo Musica Veneto Musica all’Auditorium Lo Squero, nell’Isola di San Giorgio Maggiore a Venezia. Ad aprire la rassegna, sabato 6 settembre, sarà il Quartetto di Cremona, ensemble che dal 2000 si è imposto come una delle formazioni cameristiche più apprezzate a livello internazionale.

Per l’occasione, Cristiano Gualco, Paolo Andreoli, Simone Gramaglia e Giovanni Scaglione proporranno una versione speciale de L’Arte della Fuga BWV 1080 di Bach: una lettura filologicamente attenta, che introduce strumenti inediti per un quartetto – una viola in sostituzione al secondo violino, una viola tenore costruita appositamente e persino il flauto dolce – così da rispettare l’intreccio delle voci bachiane senza trascrizioni o compromessi.

Un progetto ambizioso e affascinante, che accompagna il Quartetto nel suo 25° anniversario e che conferma la vocazione dell’ensemble a coniugare rigore e innovazione. A Fattitaliani i musicisti raccontano la sfida di confrontarsi con uno dei vertici assoluti della polifonia, il loro percorso di ricerca sonora e il significato di celebrare questa importante tappa artistica proprio a Venezia. L'intervista.

L’Arte della Fuga è una delle opere più enigmatiche e imponenti della storia della musica. Qual è stata la vostra prima reazione quando avete deciso di affrontarla come quartetto?

Affrontare L’Arte della Fuga è stata una mia idea per i 20 anni del Quartetto, entusiasta e convinto che non avremmo avuto problemi nell’affrontarla e che, anzi, la ricerca musicale, stilistica ed estetica ci avrebbe raffinati e cresciuti ancora di più come artisti. Ricordo bene anche le reazioni dei miei colleghi: il primo violino esordì esprimendo forti dubbi sulle nostre capacità di realizzare un’opera così importante, mentre secondo violino e violoncello rimasero neutri. Trovo, come sempre, che questi diversi approcci abbiano contribuito, sommati tra loro, a portarci a suonare il “nostro” Bach.

Avete scelto di introdurre strumenti aggiuntivi – una viola tenore, una seconda viola e persino il flauto dolce. In che modo questa soluzione vi ha permesso di restare fedeli alla scrittura bachiana?

La mia idea era, fin dal principio, quella di non suonare una trascrizione per quartetto de L’Arte della Fuga, ma di mantenere la scrittura originale concepita da Bach. Necessaria quindi l’introduzione di una viola tenore (peraltro la “mamma” della viola contralto ancora oggi usata) e di una viola contralto che il secondo violino avrebbe alternato a seconda delle estensioni delle linee musicali. Il flauto, che ho utilizzato solo nei due canoni che danno maggiore libertà, è arrivato successivamente ed è stato suonato dal primo violino, quando ho scoperto le mie qualità di flautista dolce.

Portare L’Arte della Fuga sul palco significa trasformare un’opera spesso considerata più “da studio” in un’esperienza concertistica viva. Come avete lavorato per trasmettere al pubblico non solo la complessità, ma anche l’emozione di questa musica?

Domanda arguta, che sottolinea come troppo spesso la musica di Bach sia stata incasellata come musica assoluta e, di conseguenza, fredda o almeno priva di quell’emozione e cantabilità che, soprattutto negli ultimi anni, grazie al lavoro di fenomenali barocchisti, si sta riscoprendo. Noi naturalmente non abbiamo un approccio totalmente filologico, con strumenti e archi d’epoca, ma abbiamo fatto un grosso lavoro sulla forma, sulla struttura e sulle regole di esecuzione di questa musica, considerando però anche la visione globale di Bach come musicista e compositore, sempre volta al futuro e attenta alle novità.

Anche il confronto con esecutori e compositori ha arricchito molto il nostro approccio all’opera. Ne consegue che la varietà degli strumenti, unita all’attenzione alle linee e al suono altrettanto espressivo, sia un elemento chiave della nostra interpretazione.

Questo progetto coincide con un momento speciale: i 25 anni di carriera del Quartetto di Cremona. Guardando indietro, qual è la conquista che sentite più significativa come ensemble?

Tanti potrebbero essere e tanti sono stati i momenti significativi per il nostro ensemble, ma parlando in termini di conquista, la più significativa è stata senza dubbio quella di essere riusciti a rimanere insieme per 25 anni, superando - sempre insieme - tutte le difficoltà che questa carriera necessariamente impone, in un paese che non ha la cultura del quartetto d’archi come possibilità lavorativa e quindi non sostiene adeguatamente chi prova a dedicarsi a questa disciplina. Questa nostra tenacia, legata a una grande passione e amore per la musica, e a cui Piero Farulli ha dato la sua benedizione, ha pagato e ha portato tanti bei risultati e, ci auguriamo, tanti altri ne porterà.

Nella vostra esperienza, il repertorio di Bach dialoga con quello di Beethoven, Schubert e con la musica contemporanea. In che modo vi ha cambiato l’approccio interpretativo affrontare quest’opera bachiana in particolare?

Suonare Bach, studiandolo così approfonditamente come abbiamo fatto e continuiamo a fare, ha cambiato il nostro approccio a tutta la musica, un po’ come è accaduto quando ci siamo preparati per l’esecuzione di tutti i quartetti di Beethoven.

Dopo questi percorsi non si è più gli stessi, e gli occhi e il cuore con cui si affronta tutta la musica ne beneficiano.

Venezia, lo Squero e il Mercurio Festival: quanto conta il contesto e l’acustica di un luogo così suggestivo per la resa e la percezione di un lavoro come L’Arte della Fuga?

Ci riteniamo privilegiati a poter portare Bach in due contesti così prestigiosi, ma soprattutto magici per la musica. Il contesto è fondamentale: fa parte dell’opera, così come lo è l’uditorio. Come Mozart ebbe a scrivere sulla qualità dell’ascolto da parte del pubblico, così noi siamo felici di poter contare su due location così suggestive e su un’audience meravigliosa.

Fattitaliani

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