L’illusione dell’immortalità: vivere è imparare a morire

 


«Non conta aggiungere anni alla vita, ma vita agli anni.» Alexis Carrel

C’è chi sogna di vivere per sempre, e chi, più umilmente, si accontenterebbe di campare centovent’anni come promette il genoma. Scienziati e miliardari ci rassicurano: presto avremo organi stampati in 3D, cellule che ringiovaniscono più di una foto ritoccata con Photoshop e algoritmi che ci avvertiranno prima ancora di ammalarci. Tutto molto affascinante, se non fosse che, a guardarlo bene, il futuro dell’immortalità assomiglia più a una condanna che a un premio.

Perché il punto non è “perché non possiamo?”, ma piuttosto: “perché dovremmo?”

Il fascino dell’eterno e la condanna del tempo

Gli antichi lo sapevano. Chi ottiene l’immortalità finisce male. La Sibilla Cumana (immagine Dominichino da Wikipedia), invecchiata fino a diventare larva e polvere, mendicava la morte. Tantalo, condannato a un desiderio inappagabile, scopriva che l’eternità è sinonimo di frustrazione. L’immortalità non è vita, è un ergastolo senza possibilità di condono.

E se vi sembra esagerato, provate a immaginare: mille anni di vita significherebbero anche mille anni di tasse, mille anni di suocere e, soprattutto, mille anni di fila all’INPS. L’inferno non ha niente di meglio da offrire.

L’oriente e l’arte del limite

Il buddismo direbbe che il problema sta nel non capire l’impermanenza: ogni respiro nasce e muore, ed è lì la vita. Se durasse per sempre, diventerebbe rumore bianco.

Il taoismo invece riderebbe della nostra ossessione: chi vuole fermare il flusso della vita diventa rigido come legno secco. Il bambù si piega, sopravvive; l’uomo che si crede immortale si spezza.

Confucio ci ricorderebbe che l’unico senso del vivere non è collezionare anni, ma restituire armonia alla comunità. Mille anni da egoisti non valgono un solo decennio speso bene.

La solitudine degli immortali: Dracula e Calipso

La letteratura moderna è una lunga condanna dell’immortalità. Dracula vive per sempre, ma è solo, condannato a nutrirsi di sangue e malinconia. Non dorme mai tranquillo, non ama mai davvero, non si fida mai di nessuno. Ha tutto il tempo del mondo, ma nessuno con cui condividerlo: più che un principe, è un disoccupato notturno con problemi relazionali.

Calipso non se la passa meglio. Bella, immortale, condannata a un amore eterno che non si consuma mai. Offre a Ulisse la giovinezza infinita, ma lui preferisce invecchiare a Itaca: segno che un solo giorno con Penelope vale più di un secolo con una dea intrappolata nella noia.

L’inquietudine del potere: Shakespeare

E poi c’è Shakespeare, che nell’Enrico IV ha scritto la frase più lapidaria: “Uneasy lies the head that wears a crown”. Inquieto è il capo che porta la corona. Il potere eterno è un po’ come la vita eterna: un peso che non puoi mai deporre.

Che cos’è l’immortalità, se non una corona che non si toglie mai dalla testa? Non regala pace, ma insonnia. Non libera, ma incatena. L’immortale somiglia a Enrico IV: un re che non trova mai riposo, un uomo condannato a vegliare per sempre.

L’ossessione moderna: la vita come prestazione

E noi? Noi non temiamo la morte, temiamo di invecchiare male davanti allo specchio. Passiamo la vita in palestra, ingrassiamo con diete detox, ci spalmiamo creme antirughe come se fossero unti sacrali. Non vogliamo vivere a lungo: vogliamo restare sexy a lungo.

La verità è che l’immortalità che ci vendono non è altro che la versione biotech del culto della performance: più anni per lavorare, più anni per pagare mutui, più anni per sentirsi in colpa se non abbiamo abbastanza followers.

Il paradosso è che nessuno promette l’eterna saggezza. Solo l’eterna giovinezza, che è un’invenzione pubblicitaria, non una categoria esistenziale.

Vivere meno, vivere meglio

Forse è meglio smettere di fingere. La domanda non è “quanto vivremo?”, ma “come vivremo?”. Vogliamo arrivare a cent’anni stesi in un letto, con cinque infermieri, tre macchine e sette pasticche al giorno? O preferiamo un’esistenza più breve ma piena di amori, viaggi, rischi, passioni?

Meglio morire giovani e felici che vecchi e tristi. Meglio una fiamma intensa che una candela che non fa luce.

Dōgen, maestro zen, l’aveva capito: studiare la via significa dimenticare se stessi, e dimenticarsi significa dissolversi nel tutto. Non è la durata che conta, ma la capacità di non aggrapparsi. L’eternità non è nel corpo, ma nello sguardo che accetta di lasciar andare.

Il senso del limite come atto politico

E c’è un dettaglio che ci sfugge: se davvero vivessimo mille anni, che spazio resterebbe ai giovani? Non ci sarebbero posti di lavoro, né case, né risorse. L’immortalità non è solo innaturale: è un’ingiustizia sociale.

Accettare la morte, allora, diventa anche un gesto politico: farsi da parte. Lasciare spazio. Non colonizzare il tempo con la propria presenza infinita. Morire significa cedere il turno.

Conclusione: imparare a morire

Il paradosso è che solo chi impara a morire impara a vivere. Ogni giorno che passa è un giorno in meno: e proprio per questo vale di più.

Le filosofie orientali, Shakespeare, Dracula e persino la povera Calipso dicono la stessa cosa: la vita vale perché finisce. Senza morte, non c’è amore, non c’è arte, non c’è memoria.

Invece di inseguire l’illusione dell’immortalità, dovremmo imparare l’arte, molto più difficile, di abitare pienamente il presente. Non servono mille anni: servono dieci minuti vissuti davvero.

Meglio un secolo con il cuore pieno, che un millennio passato a rimandare.

Perché, in fondo, non siamo fatti per vivere per sempre. Siamo fatti per vivere bene, e poi morire sereni. 

Carlo Di Stanislao

Fattitaliani

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