Con
“La parte viva” (Nino Bozzi Editore), Cristina Pasqualetto torna
alla narrativa intrecciando tre storie che parlano di coraggio, dolore e
riscatto. Nadia, Ciro e Anna vivono percorsi lontani tra loro ma accomunati da
un unico filo: la ricerca della libertà, quella che spesso si perde e che
altrettanto spesso va riconquistata. Un romanzo che nasce dall’esperienza
professionale e umana dell’autrice e che trasforma testimonianze reali in una
trama intensa e universale. In questa intervista per Fattitaliani, la
scrittrice racconta le origini del libro, le sfide narrative e il significato
più profondo di quella “parte viva” che dà il titolo all’opera.
Il
tuo romanzo racconta tre storie molto diverse: Nadia, giovane di origini
albanesi che fugge da un destino imposto; Ciro, ex camorrista condannato
all’ergastolo; Anna, medico che combatte contro le discriminazioni e sceglie di
ricominciare. Da dove nasce l’idea di intrecciare questi tre percorsi?
Nasce dalla mia esperienza lavorativa, dai pazienti che ho incontrato in anni di attività in ospedale e provenivano dal carcere, spesso cercando nel ricovero ospedaliero una sorta di evasione. Ho così iniziato a riflettere su quanto possa essere insostenibile una vita tra le sbarre, il pensiero di “un fine pena mai”. Da quel momento, quasi istintivamente, ho messo insieme le storie di pazienti/persone che avevano a loro volta vissuto in altre forme la privazione della libertà.
Il
tema centrale è la libertà: la possibilità (o impossibilità) di scegliere.
Quanto è stato importante per te affrontare questo tema e in che modo si lega
alle tue esperienze o osservazioni personali?
La libertà, come la salute, sono quei valori che non ti rendi mai conto di quanto siano preziosi fino a quando non li perdi. E sono per altro interconnessi: senza salute non vivi bene, senza libertà, non vivi davvero. Tendi a darli sempre un po’ per scontati. Ma quando poi incontri persone che ti confidano le loro storie di sofferenza, di lotta, capisci che la libertà in realtà coinvolge molto di più del nostro quotidiano di quanto possiamo immaginare. E così, ripercorrendo il mio percorso personale e professionale, ho tracciato dei confini che ho dovuto superare per la mia libertà, anche solo la libertà di essere il medico che volevo essere, la persona che volevo essere.
La
storia di Nadia è forse la più toccante, perché parla di violenza domestica e
tradizioni oppressive. Quanto c’è di ricerca documentaria e quanto di
testimonianze reali dietro la sua vicenda?
C’è tutto di reale, l’unica parte inventata è il finale, con l’augurio che davvero la mia “Nadia” come le altre Nadie che vivono la stessa situazione possano avere il loro riscatto.
Ciro
porta in scena una prospettiva insolita: la voce di un uomo che ha fatto parte
della criminalità organizzata. Qual era la sfida narrativa nel dare umanità a
un personaggio che, per molti, rappresenta solo il “nemico”?
Credo che questa sia stata la parte più difficile, che più all’inizio mi metteva a disagio, che ha richiesto anche un mio percorso personale. Percorso che era iniziato già nei primi anni lavorativi, quando avevo dovuto affrontare come medico i pazienti del carcere e imparare a mettere da parte il giudizio per trattarli come qualsiasi altro paziente. Del resto è ciò che ci insegna il Giuramento di Ippocrate. E poi alla fine ho imparato, anche nei colloqui con i loro familiari, che il carcere può avere davvero un valore rieducativo e che esiste una grandissima umanità anche tra quelle mura.
Anna
incarna la lotta quotidiana di tante donne in ambienti professionali ancora
maschilisti. Quanto volevi che la sua vicenda fosse anche un messaggio sociale
oltre che narrativo?
Oggi la professione medica, come altre, è decisamente più Donna rispetto a quando ho iniziato a frequentarla io, ma rimangono ambienti lavorativi ancora ad impronta fortemente maschilista. Non vorrei che si iniziasse a dare troppo per scontato o dimenticare quanto è stato faticoso per me come per altre colleghe e professioniste costruire il proprio percorso e la propria credibilità professionale. Anche perché non sono passati tanti anni da allora e si iniziano ad intravedere ora dei passi in avanti con donne che rivestono ruoli apicali.
Il
romanzo alterna piani narrativi e toni molto diversi (dal lirico al crudo,
dall’intimo al corale). Come hai lavorato alla struttura per mantenere un
equilibrio tra le storie?
Mi sono fatta guidare prima dai personaggi che dovevano rimanere il più possibile aderenti alla realtà per come li avevo pensati/conosciuti io. Ma mi guidano molto anche le emozioni che provo mentre inizio ad immaginare una scena e a tradurla in parole, immedesimandomi in quelle situazioni che voglio ricreare. Talvolta mi aiuta la musica, mi scelgo un brano come colonna sonora e mi lascio andare. Probabilmente scrivere senza emozioni mi risulterebbe difficile, ma cerco anche di distaccarmi dai personaggi e guardarli da fuori: ed è così che riesco a mantenere un equilibrio.
Il
titolo è fortemente evocativo. Cosa rappresenta per te “la parte viva” che dà
nome al libro?
La
parte viva è quella sensazione di completa libertà, l’assenza totale di vincoli
che ci limitano nel nostro vivere, ogni giorno, pienamente. È qualcosa di
profondo, che dobbiamo scavare nel nostro intimo e troviamo dove si annidano le
nostre insofferenze.
Ma anche che dobbiamo imparare a tenere accesa, perché si può perdere semplicemente tra le nostre paure.
Cosa
speri che i lettori portino con sé dopo aver chiuso l’ultima pagina?
Che non esistono sbarre che possano rinchiudere la nostra parte viva. Che alla fine nascere libero è una fortuna, sceglierlo di essere ogni giorno è coraggio.
Il
libro si apre con la dedica “in ricordo di Roberta Repetto e di tutte le donne
vittime di omicidio”. Quanto la cronaca e l’attualità hanno influenzato la tua
scrittura?
Con Rita e la sua associazione ci conoscevamo già, perché avevo partecipato in precedenza ad un’antologia di racconti, Questo nostro girotondo di parole (edito da Gemma Edizioni), per cui mi è venuto spontaneo aderire al suo progetto La Pulce nel Disegno, inserendo un disegno di sua sorella Roberta tra le prime pagine del libro. Certamente i fatti di cronaca che si sono susseguiti in questi anni, le notizie quotidiane di casi di femminicidio, hanno lasciato il segno, e proprio per questo il coraggio della mia Nadia doveva essere raccontato in tutta la sua forza.
Dopo
“La parte viva”, quali storie senti il bisogno di raccontare?
In
realtà ho già finito di scrivere (e siamo in fase di revisione), un romanzo che
racconta le storie di otto ragazzi, atleti di vario livello, che hanno
affrontato una diagnosi di cardiopatia che ha completamente stravolto la loro
vita (di sportivi), in alcuni casi anche in maniera drammatica, e hanno dovuto
ricominciare da zero una nuova vita. Anche qui storie di coraggio e speranza,
alcune davvero molto emozionanti. Torno alla narrativa sportiva dopo Un Sogno A
Cinque Cerchi (edito da Albatros Il Filo e vincitore della menzione d’onore
Guerrin Sportivo al Premio Invictus).
Poi
chissà? Saranno i pazienti a darmi l’ispirazione per nuove storie.