L’essere umano, da sempre, è inquieto di fronte al mistero della morte. La sua coscienza, capace di riflettere sul proprio destino, si trova a vivere un paradosso che nessun altro essere vivente affronta: la consapevolezza della finitezza. Questa condizione, evidenziata da filosofi come Martin Heidegger, che nella sua opera Essere e Tempo definisce l’uomo come essere-per-la-morte, ci mostra come la nostra esistenza sia inevitabilmente orientata verso la fine. Tuttavia, nonostante questa consapevolezza, l’uomo spesso reagisce con una fuga nel quotidiano, nell’illusione del “sempre” e nell’abitudine, rischiando di trasformarsi in un “morto vivente”, incapace di vivere autenticamente.
Ma ciò che rende questa condizione ancora più drammatica è la guerra, quell’abisso in cui l’umanità sembra precipitare senza fine. La guerra può essere interpretata, secondo il pensiero di Sigmund Freud, come una manifestazione collettiva delle pulsioni aggressive che giacciono nell’inconscio umano, ma anche come un modo grottesco e tragico per negare la propria vulnerabilità e paura di morire. In guerra, l’uomo non solo distrugge il nemico, ma tenta anche di distruggere se stesso, in una sorta di suicidio sociale collettivo. È la dimostrazione che la paura della morte, anziché spingerci a cercare un senso più profondo nella vita, spesso si traduce in una violenza autodistruttiva.
La filosofia esistenzialista, da Jean-Paul Sartre a Albert Camus, ci invita a non fuggire questa angoscia, ma a riconoscerla come elemento costitutivo della libertà umana. Camus, nel suo mito di Sisifo, ci insegna che la vita è un’assurda sfida, una lotta continua contro il nulla e l’annientamento, e proprio in questa lotta risiede la dignità dell’uomo. Riconoscere la morte non come un nemico, ma come una compagna inevitabile, ci permette di vivere con maggiore intensità e responsabilità.
Questa consapevolezza è stata profondamente indagata anche da Jiddu Krishnamurti, che invitava a una rivoluzione della coscienza individuale, al risveglio da una vita vissuta nel “sonno” dell’abitudine e del condizionamento. Per Krishnamurti, il vero pericolo non è la morte, ma il vivere senza consapevolezza, senza una profonda trasformazione interiore. Il “morto vivente” è dunque colui che ha smarrito questa consapevolezza e si aggrappa a un’esistenza meccanica, fatta di abitudini e indifferenza, incapace di affrontare la propria verità. È un’ombra che si aggira nel mondo, incapace di creare legami autentici, di amare veramente, di scegliere la pace con se stesso e con gli altri.
Analogamente, Georges Gurdjieff, con il suo insegnamento del “lavoro su di sé”, sottolineava come la maggior parte degli esseri umani viva in uno stato di “sonno” interiore, prigionieri di meccanismi inconsci e ripetitivi, incapaci di risvegliarsi alla propria realtà più profonda. Solo attraverso un intenso lavoro consapevole è possibile liberarsi da questa condizione e iniziare a vivere veramente.
Un altro grande maestro, Sri Aurobindo, proponeva una visione evolutiva della coscienza, in cui l’accettazione della morte e della finitezza è un passaggio verso un’esistenza più alta, in cui la vita si trasforma in un continuo processo di trascendenza e rinascita interiore. La morte, per Aurobindo, non è la fine, ma la porta verso un nuovo stato di essere.
A questa ricca riflessione si aggiunge la profonda saggezza del Taoismo, che ci insegna a vivere in armonia con il flusso naturale della vita e della morte, senza resistenza né paura. Il Tao, la via, è il principio che regola l’universo, un continuo divenire in cui nascita e morte sono semplicemente fasi di un ciclo eterno. Secondo Laozi e Zhuangzi, la morte non è un nemico da temere, ma parte integrante della trasformazione naturale che riguarda tutto ciò che esiste.
Nel Taoismo, la vita è vista come un flusso continuo, e la sofferenza nasce quando l’uomo si oppone a questo fluire naturale, aggrappandosi rigidamente all’idea dell’io separato e permanente. La vera libertà, allora, consiste nel lasciarsi andare, nell’abbandonare la lotta contro la morte e accogliere il cambiamento come parte dell’essere. Questa accettazione profonda libera dall’angoscia e apre la porta a una vita più leggera, più fluida, più autentica.
Il concetto taoista di wu wei, l’“agire senza agire”, ci invita a muoverci con il ritmo naturale della vita, senza forzature né resistenze. In questo senso, vivere pienamente significa anche imparare a morire ogni giorno a ciò che è vecchio dentro di noi, per rinascere continuamente.
A completare questo quadro spirituale, è fondamentale riportare la visione tribale della vita e della morte descritta da Alberto Moravia nel suo libro A quale tribù appartieni?. In molte culture tribali, vita e morte non sono opposti inconciliabili, ma due compagni di viaggio che camminano fianco a fianco in un equilibrio sacro. La morte non è vista come una fine terribile o da temere, ma come parte integrante del ciclo naturale, un passaggio necessario che dà senso e valore alla vita stessa.
Questa concezione tribale celebra il ritmo ciclico dell’esistenza, la reciprocità tra nascita e fine, tra luce e ombra. La consapevolezza di questa coesistenza genera un rispetto profondo per entrambi gli aspetti e favorisce una vita più piena, meno dominata dalla paura, più radicata nel presente e nella relazione con la comunità e la natura.
Nel mondo tribale, la paura della morte è mitigata dalla certezza che essa non annienta, ma trasforma, permette la continuità della vita attraverso altre forme. La morte, quindi, non è mai un evento isolato o solitario, ma una tappa condivisa, un mistero che unisce i viventi a chi li ha preceduti e a chi seguirà. In questo senso, la guerra perde il suo senso distruttivo per diventare, nelle tradizioni originarie, un rito complesso che coinvolge la sacralità della vita e della morte, non una semplice espressione di violenza cieca.
Un pensatore centrale nel concetto di accettazione della morte e della finitezza è anche Marco Aurelio, al giorno l’imperatore-filosofo e stoico. Nei suoi Pensieri, Marco Aurelio ci ricorda costantemente che la morte è naturale, inevitabile, e che il nostro compito non è temerla ma accoglierla come parte della vita stessa. Egli afferma che l’universo è un continuo ciclo di trasformazioni, e che ciò che nasce deve anche perire, senza che vi sia nulla di cui spaventarsi.
Marco Aurelio invita a vivere “come se fossimo già morti”, ovvero a non attaccarci con ossessione al presente o al futuro, ma a mantenere una serenità interiore che deriva dalla consapevolezza della nostra temporaneità. Solo così possiamo affrontare le difficoltà e le angosce della vita senza esserne schiacciati, liberandoci dalle passioni che annebbiano la mente e impediscono una vita autentica.
Secondo Marco Aurelio, vivere bene significa vivere in accordo con la natura e con la ragione, riconoscendo che la morte non è un nemico ma la completa realizzazione del ciclo vitale. In questo senso, la paura della morte è una forma di ignoranza che ci allontana dalla vera saggezza.
La guerra nella visione antropologica: un dramma ancestrale e simbolico
La guerra, oltre ad essere un fenomeno storico e politico, rappresenta uno degli aspetti più profondi e complessi dell’esperienza umana. Dal punto di vista antropologico, la guerra non è semplicemente una manifestazione di violenza o un fallimento sociale, ma un evento che affonda le sue radici nelle strutture primordiali della cultura, della psicologia e dell’identità collettiva.
Le ricerche di antropologi come Margaret Mead, Claude Lévi-Strauss e René Girard mostrano che, in molte società tradizionali, la guerra non è soltanto un conflitto distruttivo, ma assume un significato simbolico e rituale. Essa è un modo per definire i confini tra gruppi sociali, per consolidare l’identità tribale o etnica, per esprimere rivalità, ma anche per riequilibrare le tensioni accumulate al loro interno.
Secondo Girard, ad esempio, la violenza collettiva e la guerra possono essere viste come meccanismi di scapegoat, in cui un gruppo proietta la propria crisi interna su un nemico esterno. Questo processo, pur tragico, ha avuto nel corso della storia la funzione di evitare il collasso sociale interno attraverso la canalizzazione della violenza verso l’esterno.
In molte culture, la guerra è connessa a una dimensione sacra: i combattimenti sono regolati da codici, riti e tabù che cercano di limitare la distruttività e di mantenere un equilibrio tra la distruzione e la creazione. In alcune tribù, i guerrieri assumono un ruolo quasi mitico, essendo mediatori tra il mondo degli uomini e quello degli spiriti, custodi di valori fondamentali come il coraggio, l’onore e la fedeltà alla comunità.
Le origini della guerra, come affermano gli studi di antropologi evoluzionisti, risiedono anche nelle dinamiche di sopravvivenza e competizione per le risorse limitate. L’uomo preistorico, vivendo in piccoli gruppi, spesso affrontava minacce esterne e doveva difendere il proprio territorio e la propria tribù per assicurare la sopravvivenza. Tuttavia, la guerra non è mai stata solo un atto brutale di sopravvivenza: è sempre stata anche un modo per affermare un ordine sociale, per trasmettere valori, per educare i giovani al senso del limite e alla morte come realtà condivisa.
Un elemento cruciale dell’antropologia della guerra è la dualità vita-morte, strettamente intrecciata alla sua pratica. Come osserva Moravia nella sua riflessione sulle società tribali, la morte è parte integrante del ciclo vitale e della stessa esperienza bellica. La guerra, pur portando morte, è vissuta come una sacra manifestazione di vita, un passaggio necessario che rinnova il tessuto sociale e culturale. Il guerriero che muore entra così a far parte del mito collettivo, divenendo simbolo eterno della lotta e della resilienza della comunità.
Nel mondo contemporaneo, la guerra ha assunto dimensioni e implicazioni nuove, spesso distaccate dalla sacralità e dall’equilibrio rituale delle società antiche. Essa si manifesta come conflitto totale, massificazione della violenza, tecnologia distruttiva e alienazione dell’individuo. Questa perdita di senso è parte di ciò che trasforma l’uomo in un “morto vivente”, incapace di riconoscere il valore profondo della propria umanità e delle sue relazioni.
Tuttavia, l’antropologia ci insegna anche che dentro ogni cultura e ogni essere umano esiste la capacità di ritrovare senso, di ricostruire significati, di trasformare la guerra in pace. L’arte, il rito, la narrazione, la memoria collettiva sono strumenti con cui l’umanità tenta di comprendere e superare l’orrore della guerra, riconoscendo che la vera battaglia è quella per la riconciliazione, per la creazione di legami autentici e duraturi.
La vera sfida dell’uomo non è sfuggire alla morte, ma imparare a vivere con essa come compagna inevitabile e sacra. In questo abbraccio si cela la possibilità di una vita piena, autentica, capace di generare pace dentro di sé e intorno a sé. Non si tratta di negare la paura o di reprimere il dolore, ma di attraversarli, riconoscendoli come parti necessarie del nostro cammino. Solo così si può uscire dalla condizione del “morto vivente” e ritrovare la forza di amare, di creare, di donare senso a ogni istante.
La guerra e la violenza nascono spesso dall’ignoranza di questa verità, da una fuga disperata che si manifesta nella distruzione. Ma è proprio nella consapevolezza della nostra finitezza che si apre uno spazio di libertà, una porta verso una vita più vera, in cui la paura diventa motore di crescita e non di annientamento. Vivere significa allora accettare la propria fragilità e, nello stesso tempo, riconoscere la grandezza insita nell’essere capaci di resistere, di perdonare, di ricominciare ogni giorno.
Il cammino verso questa consapevolezza è anche un cammino di responsabilità: verso noi stessi, verso gli altri, verso il mondo che ci ospita. È un invito a trasformare la paura in amore, la guerra in pace, l’ombra in luce. Perché è solo abbracciando la realtà così com’è, con tutte le sue contraddizioni, che possiamo scoprire il senso profondo dell’essere umani.
In fondo, l’uomo è chiamato a danzare con la propria finitezza, a trasformare il timore in consapevolezza, la fuga in coraggio. Solo abbracciando la fragilità che ci definisce, possiamo davvero vivere e non solo sopravvivere, costruire ponti dove prima c’erano muri, scegliere l’amore dove prima regnava la paura. Perché vivere, alla fine, è un atto di rivoluzione contro la morte stessa, una rivoluzione silenziosa che si compie ogni volta che decidiamo di essere pienamente presenti, consapevoli e aperti al mondo.