La compagnia dei disuniti: il governo che litiga con se stesso

 


“In politica, ciò che è semplice non è mai vero, e ciò che è vero non è mai semplice.” Blaise Pascal

Introduzione: un governo a più voci (tutte stonate)

In Italia, si sa, i governi nascono fragili e muoiono litigiosi. È una legge non scritta della politica nazionale, qualcosa che sta a metà fra il destino e la farsa. L’attuale esecutivo, guidato formalmente da Giorgia Meloni, ma in realtà conteso da Matteo SalviniAntonio Tajani e una miriade di comprimari ansiosi di lasciare un graffio sulla carrozzeria del potere, sembra nato apposta per confermare questo copione.

La premier, con la sua ormai celebre prudenza, si muove come una madre di famiglia che cerca di evitare scenate in salotto mentre i figli si strappano i capelli. Tajani, sempre pronto a ricordare che “non decide solo lei”, pare un maggiordomo di condominio che pretende la parola definitiva sulla raccolta differenziata. Salvini, infine, si atteggia a statista mediterraneo, ma con la delicatezza diplomatica di un toro in una cristalleria francese.

Ed ecco che, fra un richiamo dell’Eliseo e un convegno in Puglia, la commedia della disunità diventa tragedia buffa: un governo che si divide su tutto, tranne che sulla necessità di restare incollato alle poltrone.

Meloni, la regina di cuori (ma senza carte da giocare)

Giorgia Meloni ha imparato, forse a sue spese, che l’ardire paga in campagna elettorale, ma logora al governo. Oggi appare come una premier che non vuole strappi, che dosa le parole, che preferisce i silenzi alle dichiarazioni. Prudenza, certo, ma anche immobilismo.

Nelle ore più calde della crisi con Parigi, la presidente del Consiglio si concede il lusso del silenzio. Riposa, si dice. Forse riflette. Forse aspetta che gli alleati si stanchino da soli, come bambini capricciosi. Ma la politica estera, purtroppo, non è un gioco da tavolo: se tu non parli, parlano gli altri. E Salvini, come vedremo, non perde occasione.

Il risultato? Meloni appare più spettatrice che regista. Un ruolo che le va stretto, ma che sembra il solo possibile in un governo dove ogni frase rischia di trasformarsi in un boomerang.

Tajani, l’eterno vice che sogna di comandare

Antonio Tajani è il campione del “sì, ma anche no”. Un diplomatico nato e cresciuto alla scuola berlusconiana, dove l’arte era promettere tutto a tutti senza mai scontentare nessuno. Oggi, però, il suo ruolo di ministro degli Esteri lo obbligherebbe a un minimo di chiarezza.

Invece, Tajani si esercita nell’arte dell’ambiguità. Quando Meloni sceglie la cautela, lui precisa che “non decide solo lei”. Quando Salvini alza i toni, lui lo ridimensiona, ma con gentilezza. È il perfetto esempio dell’uomo che vuole sembrare indispensabile senza mai prendersi la responsabilità.

Il suo problema è che l’Italia non può permettersi un ministro degli Esteri che gioca al piccolo cabotaggio. Eppure Tajani continua: un colpo al cerchio, uno alla botte, e un occhio sempre rivolto al sogno mai sopito di diventare un giorno premier.

Salvini, il guastatore seriale

Poi c’è lui, Matteo Salvini. L’uomo che riesce a litigare con Macron la sera e a postare foto di Nutella la mattina. Il leader della Lega ha capito che, in un governo litigioso, il miglior modo per distinguersi è fare più rumore degli altri. E così non perde occasione per menare fendenti contro Bruxelles, Parigi, Berlino e persino contro la prudenza di Meloni.

Il problema è che la diplomazia internazionale non funziona a colpi di slogan. Ogni uscita di Salvini è un macigno sulla credibilità dell’Italia, un pretesto per gli avversari, un fastidio per gli alleati. Ma a lui importa poco: il suo elettorato, crede, ama i pugni sul tavolo.

Il paradosso è evidente: mentre Meloni si sforza di apparire come la premier responsabile e Tajani cerca di accreditarsi come l’uomo dell’equilibrio, Salvini pensa solo a far saltare il tavolo. Una compagnia disunita, certo, ma con lui sempre pronto a rubare la scena.

La Francia, specchio delle nostre miserie

Lo scontro con Parigi è solo l’ultimo episodio. Non è la prima volta che l’Italia si trova ai ferri corti con i cugini d’Oltralpe, ma mai come oggi lo spettacolo è stato così grottesco.

Da un lato, una Francia che convoca l’ambasciatrice italiana con la freddezza di chi non vuole più scherzare. Dall’altro, un’Italia che risponde in modo disordinato: Salvini grida, Meloni tace, Tajani minimizza.

È come presentarsi a un ricevimento elegante con tre invitati che litigano su chi deve portare il vino. Alla fine, il vino non arriva, ma gli invitati finiscono per rovesciare l’acqua sul tappeto.

Un governo a geometria variabile

Il vero problema, tuttavia, non è solo lo scontro con la Francia. È la struttura stessa del governo, costruito su una coalizione dove ogni leader pensa più al proprio partito che all’interesse comune.

Fratelli d’Italia vuole consolidare il proprio ruolo egemone, la Lega vuole sopravvivere alla crisi di consenso, Forza Italia cerca di dimostrare che esiste ancora dopo Berlusconi. Il risultato è un esecutivo a tre teste, ma senza cervello unico.

In questa cornice, ogni decisione diventa un campo di battaglia. Ogni decreto è frutto di mediazioni infinite. Ogni emergenza si trasforma in occasione di lite. La disunità non è un incidente: è la regola.

La prudenza come maschera

Meloni, di fronte a tutto ciò, sceglie la prudenza. Ma fino a che punto la prudenza è una virtù? Non rischia, a lungo andare, di diventare complicità con il caos?

Il silenzio, in politica, è spesso interpretato come debolezza. E quando a parlare sono i tuoi alleati, il rischio è che il tuo ruolo venga ridimensionato. La premier appare così come una figura sempre più compressa: da un lato il bisogno di apparire istituzionale, dall’altro la necessità di contenere i propri ministri.

È un equilibrio instabile, che difficilmente potrà reggere a lungo.

Il teatro della politica italiana

Alla fine, ciò che resta è lo spettacolo. Il governo appare come una compagnia teatrale in cui gli attori litigano sul copione, si rubano le battute e improvvisano dialoghi surreali.

Gli spettatori — cioè noi cittadini — assistono increduli a questa commedia dell’assurdo. Si ride, certo, ma con l’amaro in bocca. Perché mentre i protagonisti recitano la loro parte, i problemi reali del Paese restano sullo sfondo: inflazione, lavoro, sanità, ambiente.

È il trionfo dell’arte politica italiana: trasformare ogni dramma in farsa, ogni farsa in dramma, senza mai risolvere nulla.

Economia: il caos del fare e disfarsi

Se si passa all’economia, lo spettacolo non migliora. Ogni giorno arriva un decreto, un annuncio, un intervento a sorpresa. La logica sembra quella del gioco del tiro alla fune: una mano tira da una parte, l’altra dall’altra.

Bonus, tasse, incentivi, sgravi: tutto cambia così spesso che gli imprenditori italiani hanno iniziato a tenere un calendario segreto con codice colori per capire se è il giorno giusto per investire o il giorno giusto per arrendersi.

Nel frattempo, la Borsa osserva divertita e lo spread fa quello che può: sale quando qualcuno urla, scende quando altri cercano di calmare la situazione. Un’economia su ruote squilibrate, dove l’arte di litigare si trasforma in politica monetaria alternativa.

Sanità: tra promesse e proclami

Il settore sanitario non è da meno. Ogni ministro della salute ha la sua strategia, spesso in contraddizione con la precedente. Si annunciano ospedali nuovi, reparti specializzati, riforme miracolose.

I cittadini, tuttavia, percepiscono solo il caos: liste d’attesa infinite, carenza di personale, ambulanze che partono con tre minuti di ritardo e un software gestionale che sembra progettato per confondere.

Nel frattempo, i leader politici fanno selfie nei corridoi degli ospedali, come se bastasse un sorriso a risolvere una crisi strutturale. La logica del “fare finta di fare” è diventata la strategia più usata.

Politica europea: tra diplomazia e show

All’interno dell’Unione Europea, la compagnia dei disuniti sembra ancora più evidente. L’Italia invia messaggi contraddittori, partecipando a vertici con due o tre versioni dello stesso testo.

Bruxelles, da par suo, osserva attonita. Le riunioni diventano teatrini in cui Salvini fa il duro, Tajani il mediatore, e Meloni la spettatrice ansiosa. Si discute di bilanci, fondi e regole comuni, ma il risultato è sempre lo stesso: l’Italia riesce a confondere anche i più pazienti burocrati europei.

Conflitti regionali: il governo dei piccoli imperi

Non dimentichiamo le regioni, dove ogni presidente locale si sente un piccolo imperatore. La coesione nazionale si scontra con le autonomie, i governi locali discutono ogni disposizione, si annunciano vertenze e referendum simbolici.

Il risultato è che l’Italia sembra un mosaico di piccoli stati litigiosi: da Nord a Sud, la confusione regna sovrana, mentre Roma osserva impotente, incapace di imporre una linea unitaria.

Finale epico: il coro dei commentatori

E così, mentre il sole cala sulle colline d’Italia e i giornali del mattino annunciano l’ennesima conferenza stampa rimandata, un coro immaginario di commentatori politici si leva, unanime e stizzito:

“Avete visto? Ancora una volta, il governo si è diviso su tutto. Ancora una volta, la diplomazia è stata un optional. Ancora una volta, le promesse restano sulla carta. E noi cittadini? Noi continuiamo a guardare.”

“Ma qualcuno ha mai pensato a cosa succederà domani?” chiede un altro commentatore.

“Domani? Domani ci sarà un nuovo decreto, una nuova lite, un nuovo titolo in prima pagina. E il Paese continuerà a navigare a vista.”

“E se cambiassero idea?” interviene una voce più speranzosa.

“Se cambiassero idea?” ridono tutti in coro. “Ah, caro amico, l’Italia è diventata un paese dove cambiare idea è l’unica strategia condivisa!”

Il coro si dissolve tra il brusio dei talk show e le notifiche dei social, lasciando dietro di sé un’unica certezza: la compagnia dei disuniti continuerà la sua saga, tra proclami, selfie, litigi e silenzi strategici, mentre noi, spettatori sempre più increduli, attendiamo il prossimo atto della commedia nazionale.

Conclusione definitiva: la compagnia dei disuniti e l’Italia dei comuni

Il governo Meloni passerà forse alla storia non per le riforme, non per le scelte coraggiose, ma per la sua incapacità di parlare con una voce sola.

Un esecutivo che litiga su tutto, che si divide anche davanti a una crisi diplomatica, che trasforma ogni emergenza in occasione di scontro interno.

Un governo disunito, fragile, caotico. E purtroppo, non è una commedia di Goldoni: è la realtà di un Paese che avrebbe bisogno di serietà, visione e compattezza.

E, in fondo, questo ci ricorda una verità storica e dolorosa: l’Italia non è mai esistita come nazione unitaria, ma è stata a lungo una terra di comuni, di signorie locali, di posizioni personali e mai veramente condivise. Ancora oggi, a distanza di secoli, quella frammentazione storica sembra vivere nelle stanze del potere: ogni ministro, ogni partito, ogni alleanza resta fedele al proprio piccolo interesse, incapace di parlare davvero con una sola voce.

Così, mentre il coro dei commentatori continua a ridere amaramente tra talk show e social, resta la certezza che la saga della compagnia dei disuniti continuerà, e che l’Italia, con la sua eredità di individualismi e campanili, continuerà a navigare tra proclami, litigi e silenzi strategici, con la nostra paziente incredulità come unico spettatore costante.

Carlo Di Stanislao

Fattitaliani

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