King Kong a Washington e le macerie di Gaza

 

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“La follia è spesso la logica di un cuore troppo compresso.” Friedrich Nietzsche, La gaia scienza (1882)

Introduzione: due immagini del nostro tempo
Due immagini dominano il presente: Donald Trump come un King Kong che irrompe nel cuore della politica americana, incarnando l’irrazionale e il selvaggio che sfida le élite, e Israele che continua a colpire ospedali e civili, giustificando ogni massacro come “errore”. Due scenari apparentemente distanti – l’uno spettacolare e caricaturale, l’altro tragico e sanguinoso – ma uniti da un filo comune: la logica della forza che si traveste da necessità.

Mentre negli Stati Uniti il mito di Trump e della sua “America profonda” è stato paradossalmente finanziato durante la campagna elettorale da miliardari come Elon Musk e altri protagonisti della Silicon Valley, in Medio Oriente i bombardamenti si giustificano con il linguaggio dell’errore tecnico. Due volti diversi della stessa dinamica: il potere che si impone attraverso la forza, il denaro e la manipolazione del discorso pubblico.

Trump come King Kong: il ritorno del selvaggio
L’immagine di Trump come King Kong non è solo una caricatura. Il gorilla gigante del cinema hollywoodiano rappresentava l’irruzione del primordiale in una civiltà ipertecnologica, la violenza che abbatte i grattacieli e sfida la modernità. Trump, da presidente degli Stati Uniti, è l’equivalente politico di quel mito: domina la scena mondiale come forza primordiale, rompendo i codici della diplomazia e della politica tradizionale.

Trump non costruisce: abbatte. È il simbolo di un’America che non vuole più riconoscersi nei tecnocrati di Washington, nei professori di Harvard, nei manager della Silicon Valley. La sua forza è la rappresentazione di un’energia cieca, caotica, che appare autentica a chi si sente escluso dalla modernità. Molti americani lo percepiscono come colui che restituisce loro voce, anche se quella voce è trasformata in urlo.

Accanto a lui, la figura di J. D. Vance, autore di Hillbilly Elegy, rafforza questo mito. Vance porta la voce dell’America profonda: minatori disoccupati, famiglie spezzate dall’epidemia di oppioidi, periferie rurali che si sentono abbandonate. Se Trump è King Kong, Vance è il suo cantore: colui che traduce in parole la rabbia dei dimenticati. Il successo politico di Vance, entrato nel cuore del trumpismo, mostra come la disperazione sociale possa diventare capitale politico.

La rivolta pagata dai miliardari
Eppure, questo populismo non nasce dal basso in modo puro. È una rivolta pagata e orchestrata da miliardari durante la campagna elettorale. Qui sta il paradosso più grande: il paladino del popolo profondo è stato sostenuto da grandi capitali, da lobby energetiche e soprattutto da figure come Elon Musk, che hanno visto in Trump non una minaccia ma un’opportunità.

Musk, presentato dai media come il visionario dell’innovazione tecnologica, ha progressivamente assunto un ruolo politico: dal sostegno indiretto attraverso i social network – oggi trasformati in arene politiche grazie alla sua proprietà di X (ex Twitter) – fino ai legami finanziari e culturali con i movimenti anti-woke e anti-tecnocratici. Insieme ad altri miliardari “ribelli”, Musk ha alimentato la narrazione della rivolta contro le élite. Una rivolta finanziata proprio dalle élite.

È questo il cuore del paradosso trumpiano: la “gaia incoscienza” di un popolo che crede di ribellarsi, senza accorgersi di essere manovrato e finanziato da coloro che appartengono al vertice della piramide economica. Nel cuore della campagna elettorale, fondi provenienti da grandi conglomerati hanno sostenuto la macchina elettorale di Trump, trasformando la ribellione in una messinscena ben finanziata. Il popolo, convinto di opporsi al potere, in realtà ne rafforza una delle forme più sofisticate.

La “Gaia incoscienza” politica
Qui entra in gioco Nietzsche. In La gaia scienza, il filosofo tedesco parlava della leggerezza necessaria ad affrontare il nichilismo, della possibilità di creare nuovi valori dopo la “morte di Dio”. Oggi, però, assistiamo non a una “gaia scienza” ma a una “gaia incoscienza”: la leggerezza come irresponsabilità, la forza cieca che prende il posto della ragione critica.

A questo proposito, è uscito di recente un libro intitolato proprio La gaia incoscienza. Immaginario del tecnopotere, scritto da Guerino Nuccio Bovalino, pubblicato da Luiss University Press nel luglio 2025. Il saggio analizza il nuovo immaginario politico contemporaneo – dove Elon Musk diventa simbolicamente “il Cavaliere Oscuro e anche il Joker”, e Trump un villain da kolossal – e lo interpreta come l’affermarsi di una politica 3.0, tra spettacolo, mitologia digitale e rifiuto dell’istituzione. Questo testo diventa una lente preziosa per leggere la parabola trumpiana e la tragedia mediorientale: entrambi segni di una leggerezza che sfocia nell’irresponsabilità.

Trump incarna questa incoscienza: distrugge ma non propone, urla ma non costruisce, incarna la rivolta ma la svuota di progetto. È il selvaggio che abbatte le torri, ma non ha idea di cosa erigere al loro posto. Ed è proprio questa assenza di visione che seduce milioni di americani stanchi di tecnocrazia e algoritmi. L’America di Trump vive una sospensione del pensiero critico, sostituito dall’istinto e dalla spettacolarità.

Israele e il bombardamento dell’ospedale Nasser
Se la scena americana si presta a metafore da kolossal, il Medio Oriente ci impone la crudezza dei fatti. L’ultimo atto: il bombardamento dell’ospedale Nasser, con venti morti, tra cui cinque giornalisti. Un ospedale, simbolo di cura e speranza, trasformato in maceria. La ferocia di colpire un luogo di sofferenza e guarigione non può essere mascherata da giustificazioni tecniche.

La reazione ufficiale? “Un errore”. Una parola che si ripete ossessivamente dopo ogni massacro. Ma quando l’errore si ripete decine di volte, diventa difficile non sospettare che faccia parte della strategia. La giustificazione tecnica copre una realtà politica: colpire le infrastrutture civili per fiaccare la resistenza, normalizzando la violenza. Le popolazioni vengono ridotte a meri danni collaterali, e la memoria di queste tragedie rischia di dissolversi in un mare di giustificazioni burocratiche.

Ma Israele non si ferma a Gaza. Le operazioni si estendono allo Yemen e alla Siria, fino alla periferia di Damasco. Un’espansione che rischia di incendiare l’intera regione, trasformando il conflitto in una guerra permanente senza confini. L’ombra di una nuova escalation regionale, con il coinvolgimento di Iran e Arabia Saudita, si allunga come una minaccia sempre più concreta.

Due facce della stessa logica
Trump e Israele rappresentano due facce della stessa logica globale: la sostituzione della ragione con la forza. Negli Stati Uniti, la rivolta “popolare” è stata finanziata dai miliardari durante la campagna elettorale, che hanno travestito i propri interessi di classe con il linguaggio della ribellione. In Medio Oriente, la distruzione di ospedali e scuole è giustificata come “errore”, un linguaggio burocratico che copre la volontà politica di dominio.

In entrambi i casi, la politica diventa spettacolo della potenza. Che si tratti della presidenza di Trump o di un raid su Gaza, il messaggio è lo stesso: la forza vince sulla responsabilità, la brutalità viene presentata come necessità. Una nuova grammatica della violenza si è imposta, e chi la subisce sembra non avere voce.

Il ruolo dei media
Un altro filo che lega queste vicende è il ruolo dei media. Nel caso di Trump, i media hanno contribuito a costruire il suo mito. Ogni provocazione, ogni scelta di rottura, ogni dichiarazione presidenziale è diventata notizia. Trump è figlio di un sistema mediatico che non sa resistere allo spettacolo: più è eccessivo, più fa notizia. La sua figura è stata moltiplicata e amplificata dalle stesse voci che pretendevano di contrastarlo.

Nel caso di Israele, i media internazionali oscillano tra denuncia e silenzio. Le immagini dei bombardamenti fanno il giro del mondo per pochi giorni, poi svaniscono. La ripetizione della violenza genera assuefazione: l’orrore diventa routine. La sofferenza dei civili, priva di cornici spettacolari, rischia di essere dimenticata o minimizzata.

Conclusione: la follia come logica del presente
Viviamo in un’epoca compressa tra spettacolo e tragedia. L’America sceglie il suo King Kong, un miliardario travestito da ribelle, finanziato da Musk e da altri giganti dell’economia digitale durante la campagna elettorale. Israele giustifica massacri come incidenti tecnici, trasformando il dolore in statistica.

In entrambi i casi, la follia diventa logica. La follia di una società americana che si affida al mito del selvaggio contro le élite. La follia di un Medio Oriente in cui la vita civile viene sacrificata sull’altare della sicurezza. Nietzsche ci aveva avvertiti: la modernità, dopo la morte di Dio, avrebbe rischiato di cadere nel nichilismo. Oggi, quella profezia sembra incarnarsi nella politica globale: non più creazione di valori, ma celebrazione della forza cieca.

Infine, in un colpo di scena della politica americana, Trump ha costretto Elon Musk alle dimissioni dai ruoli chiave nei suoi consigli e nelle strategie social, segnando la fine del legame diretto tra il magnate della Silicon Valley e il presidente. Una mossa che rafforza l’immagine del leader come unico arbitro del suo regno e della sua narrazione, consolidando la supremazia dell’istinto e della forza sulla strategia collaborativa.

E così il mondo procede: tra i grattacieli d’oro di Manhattan e le macerie di Gaza, tra l’illusione di una rivolta popolare e la realtà di una guerra infinita. Sempre più lontano dalla ragione, sempre più vicino alla gaia incoscienza.

Carlo Di Stanislao

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