Vienna, abisso e cinema: Jung, psicoanalisi e i registi viennesi che conquistarono Hollywood



«La morte non è nel non poter comunicare ma nel non poter più essere compresi.» Pier Paolo Pasolini

Vienna non è solo una città. È una ferita aperta nella storia d’Europa, un luogo dove la modernità si è mostrata in tutta la sua ambiguità: splendore e decadenza, arte sublime e follia repressa, progresso e dissoluzione. È il ventre psichico dell’Occidente, dove sono nate alcune delle domande più cruciali sul senso della vita, dell’identità, del male.

La città imperiale è stata, per lungo tempo, il teatro di una civiltà che ha coltivato l’ordine, la misura, l’eleganza - e proprio per questo ha prodotto l’inquietudine. Dietro i valzer di Strauss e le facciate dorate dei palazzi fin de siècle, Vienna nascondeva un’interiorità lacerata. Sigmund Freud, padre della psicoanalisi, non poteva nascere altrove: la repressione borghese era troppo perfetta per non produrre fantasmi. La sua “scoperta” dell’inconscio fu in realtà un tentativo estremo di portare luce dove la cultura illuminista si era fermata.

Freud cominciò a leggere l’essere umano non più come razionalità pura, ma come complesso di impulsi, desideri, ferite e censure. Ma poi arrivò Carl Gustav Jung, lo svizzero che a Vienna fu prima accolto, poi escluso. Dove Freud vedeva conflitti sessuali e traumi familiari, Jung vide archetipi, simboli, forze antiche che abitano l’anima collettiva. L’inconscio, secondo lui, non era solo personale: era anche mitico, universale, spirituale.

La rottura tra Freud e Jung - avvenuta nel cuore di un’Europa già prossima alla follia bellica - è uno dei momenti più alti e tragici del pensiero del Novecento. Fu la fine di un’alleanza e l’inizio di due strade diverse: la psicoanalisi freudiana come scienza della memoria e del sintomo, e la psicologia analitica junghiana come via verso il senso, l’individuazione, l’integrazione dell’ombra.

Vienna fu il campo di battaglia di questa frattura. Una città che, proprio mentre cercava di curare l’anima, cominciava a sprofondare nella propria. Non è un caso che nel primo Novecento nascessero qui anche movimenti radicali nell’arte e nella musica: l’espressionismola dodecafoniala filosofia analitica. Tutto sembrava voler rompere, decostruire, scavare. WittgensteinSchönbergKlimtEgon Schiele: ciascuno, a modo suo, cercava di dire l’indicibile.

Ma il sogno viennese finì nel sangue. Con l’avvento del nazismo, Vienna divenne una trappola mortale per ebrei, artisti, intellettuali. Fu allora che molti dei suoi figli più brillanti fuggirono. Alcuni presero la via dell’America, portando con sé quel bagaglio di cultura, inquietudine e profondità che avrebbe trasformato per sempre Hollywood.

Registi come Billy WilderFritz LangOtto PremingerFred ZinnemannMax Reinhardt: erano viennesi, mitteleuropei, psicoanalizzati. Portarono nel cinema americano un’estetica nuova, fatta di ombra, ironia, senso tragico. Wilder scrisse e diresse capolavori che mescolano commedia e disincanto (A qualcuno piace caldoViale del tramonto), Lang portò l’ossessione e la paranoia dell’Europa totalitaria, Zinnemann raccontò l’eroismo e il sacrificio in chiave laica. Il cinema americano non fu mai più lo stesso.

Questi registi non fecero solo film: tradussero per milioni di spettatori ciò che Vienna aveva vissuto come esperienza interiore. Tradussero la psicoanalisi in racconto, la crisi identitaria in narrazione visiva, il trauma collettivo in linguaggio universale. Hollywood divenne la nuova Vienna: un luogo dove i sogni si proiettano ma anche dove gli incubi si svelano.

E a testimoniare la parte più fragile e lirica di questa eredità, troviamo Ingeborg Bachmann. Scrittrice, intellettuale, poetessa della disillusione. Dopo aver sedotto con i suoi versi gli ambienti letterari della Germania e dell’Austria, Bachmann scelse la prosa per raccontare la frattura, l’impossibilità della guarigione facile, la lacerazione del femminile nel mondo patriarcale. Nei testi raccolti in A occhi aperti (Adelphi), troviamo l’urgenza di uno sguardo senza filtri, l’esercizio della parola come atto morale. La sua morte, avvenuta in un incendio a Roma nel 1973, rimane un enigma: fu tragedia accidentale o simbolo estremo di una vita vissuta al limite della combustione emotiva?

Accanto a lei, in un’altra forma d’arte, c’è Siegfried Anzinger, pittore austriaco che dissolve il corpo, cancella i titoli, rifiuta ogni chiarezza. Il suo “Senza titolo” del 1983 è pittura della disidentità: i corpi non sono più riconoscibili, i confini cedono, le linee urlano. È una psicoanalisi visiva, una terapia del caos.

Nel frattempo, la musica continua a interrogare. Alfred Brendel, pianista-filosofo viennese, è uno degli ultimi testimoni di quell’epoca in cui l’esecuzione musicale era anche meditazione sull’umano. Nei suoi concerti — come quello storico con la Royal Concertgebouw Orchestra a Lucerna nel 2006 — si ascolta qualcosa che va oltre la tecnica: è una sfida al tempo, al vuoto, all’assuefazione. La musica, dice Brendel, è una forma di pensiero.

Anche la pittura antica - come i Tre filosofi di Giorgione (foto Wikipedia), custodita al Kunsthistorisches Museum di Vienna - ci interroga. Tre figure che sembrano attendere qualcosa che non arriverà mai, o che forse è già accaduto. Guardano fuori dalla scena, verso l’ignoto. È un’immagine della conoscenza che tace, del sapere che contempla senza rispondere.

E oggi? Vienna continua ad attrarre eccentrici, pensatori, anime dissonanti. Ma è anche una città attraversata da tensioni: il ritorno di una destra aggressiva, la paura sociale, l’anestesia culturale. Tuttavia, resiste. Resiste nei suoi teatri, nei suoi caffè, nei suoi archivi, nella sua memoria. È ancora un luogo che ci pone domande.

E le domande sono spesso più importanti delle risposte.
Perché una risposta può chiudere. Una domanda, se è vera, apre. Spinge, disturba, sveglia. Jung diceva che “ciò che non affrontiamo nel nostro inconscio si manifesterà nella nostra vita come destino”. E Vienna, in fondo, ci chiede proprio questo:
– Che cosa non stiamo affrontando?
– Quali parti di noi stiamo proiettando nel sociale, nella politica, nei conflitti?
– Chi siamo, davvero, quando nessuno ci guarda?
– E possiamo ancora essere salvati dalle nostre storie?

Forse non dobbiamo trovare subito una risposta. Forse dobbiamo, come suggeriva Rilke, imparare ad abitare le domande. A viverle. A lasciarci trasformare da esse.

Vienna è ancora uno specchio. E il suo riflesso ci pone davanti a noi stessi:
Abbiamo ancora parole per la verità? Abbiamo ancora occhi aperti, come chiedeva Bachmann? Oppure ci siamo arresi al rumore?

Nel silenzio tra una nota di Brendel, un volto deformato di Anzinger o una scena di Wilder, può ancora nascere — piano — un pensiero nuovo. Una domanda che vale la pena abitare. Un cinema che non mente. Una cura che non guarisce tutto, ma almeno guarda.

Carlo Di Stanislao

Fattitaliani

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